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Giambattista Vico: Opere
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V: L’Autobiografia, Il Carteggi, E Le Poesie Varie
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I. Autobiografia

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I Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo (1725-8)

Il signor Giambattista Vico egli è nato in Napoli l’anno 1670 da onesti parenti, i quali lasciarono assai buona fama di sé. Il padre fu di umore allegro, la madre di tempra assai malinconica; e cosí entrambi concorsero alla naturalezza di questo lor figliuolo. Imperciocché, fanciullo, egli fu spiritosissimo e impaziente di riposo; ma in etá di sette anni, essendo col capo in giú piombato da alto fuori d’una scala nel piano, onde rimase ben cinque ore senza moto e privo di senso, e fiaccatagli la parte destra del cranio senza rompersi la cotenna, quindi dalla frattura cagionatogli uno sformato tumore, per gli molti e profondi tagli il fanciullo si dissanguò; talché il cerusico, osservato rotto il cranio e considerando il lungo sfinimento, ne fe’ tal presagio: che egli o ne morrebbe o arebbe sopravvivuto stolido. Però il giudizio in niuna delle due parti, la Dio mercé, si avverò; ma dal guarito malore provenne che indi in poi e’ crescesse di una natura malinconica ed acre, qual dee essere degli uomini ingegnosi e profondi, che per l’ingegno balenino in acutezze, per la riflessione non si dilettino dell’arguzie e del falso.

Quindi, dopo lunga convalescenza di ben tre anni, restituitosi alla scuola della gramatica, perché egli speditamente eseguiva in casa ciò se gl’imponeva dal maestro, tale speditezza credendo il padre che fusse negligenza, un giorno domandò al maestro se ’l suo figliuolo facesse i doveri di buon discepolo;

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e, colui affermandoglielo, il priegò che raddoppiasse a lui le fatiche. Ma il maestro scusandosene perché il doveva regolare alla misura degli altri suoi condiscepoli, né poteva ordinare una classe di un solo e l’altra era molto superiore, allora, essendo a tal ragionamento presente il fanciullo, con grande animo priegò il maestro che permettesse a lui di passare alla superior classe, perché esso arebbe da sé supplito a ciò che gli restava in mezzo da impararsi. Il maestro, piú per isperimentare ciò che potesse un ingegno fanciullesco che avesse da riuscire in fatti, glielo permise, e con sua meraviglia sperimentò tra pochi giorni un fanciullo maestro di se medesimo.

Mancato a lui questo primo, fu menato ad altro maestro, appo ’l quale si trattenne poco tempo, perché il padre fu consigliato mandarlo da’ padri gesuiti, da’ quali fu ricevuto nella loro seconda scuola. Il cui maestro, avendolo osservato di buon ingegno, il diede avversario successivamente a’ tre piú valorosi de’ suoi scolari, de’ quali egli, con le «diligenze» che essi padri dicono, o sieno straordinarie fatiche scolastiche, uno avvilí, un altro fe’ cadere infermo per emularlo, il terzo, perché ben visto dalla Compagnia, innanzi di leggersi la «lista» che essi dicono, per privilegio d’«approfittato» fu fatto passare alla prima scuola. Di che, come di un’offesa fatta a essolui, il Giambattista risentito, e intendendo che nel secondo semestre si aveva a ripetere il giá fatto nel primo, egli si uscí da quella scuola e, chiusosi in casa, da sé apprese sull’Alvarez ciò che rimaneva da’ padri a insegnarsi nella scuola prima e in quella dell’umanitá, e passò l’ottobre seguente a studiare la logica. Nel qual tempo, essendo di está, egli si poneva al tavolino la sera, e la buona madre, risvegliatasi dal primo sonno e per pietá comandandogli che andasse a dormire, piú volte il ritruovò aver lui studiato infino al giorno. Lo che era segno che, avvanzandosi in etá tra gli studi delle lettere, egli aveva fortemente a diffendere la sua stima da letterato.

Ebbe egli in sorte per maestro il padre Antonio del Balzo gesuita, filosofo nominale; ed avendo nelle scuole udito che un buon sommolista fosse valente filosofo e che ’l migliore

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che di sommole avesse scritto fosse Pietro ispano, egli si diede fortemente a studiarlo. Indi, fatto accorto dal suo maestro che Paolo veneto era il piú acuto di tutti i sommolisti, prese anche quello per profittarvi; ma l’ingegno, ancor debole da reggere a quella spezie di logica crisippea, poco mancò che non vi si perdesse, onde con suo gran cordoglio il dovette abbandonare. Da sí fatta disperazione (tanto egli è pericoloso dare a’ giovani a studiar scienze che sono sopra la lor etá!) fatto disertore degli studi, ne divagò un anno e mezzo. Non fingerassi qui ciò che astutamente finse Renato Delle Carte d’intorno al metodo de’ suoi studi, per porre solamente sú la sua filosofia e mattematica ed atterrare tutti gli altri studi che compiono la divina ed umana erudizione; ma, con ingenuitá dovuta da istorico, si narrerá fil filo e con ischiettezza la serie di tutti gli studi del Vico, perché si conoscano le propie e naturali cagioni della sua tale e non altra riuscita di litterato.

Errando egli cosí fuori del dritto corso di una ben regolata prima giovanezza, come un generoso cavallo e molto e bene esercitato in guerra e lunga pezza poi lasciato in sua balía a pascolare per le campagne, se egli avviene che oda una tromba guerriera, riscuotendosi in lui il militare appetito gestisce d’esser montato dal cavaliere e menato nella battaglia; cosí il Vico, nell’occasione di una celebre accademia degl’Infuriati, restituita a capo di moltissimi anni in San Lorenzo, dove valenti letterati uomini erano accomunati co’ principali avvocati, senatori e nobili della cittá, egli dal suo genio fu scosso a riprendere l’abbandonato cammino, e si rimise in istrada. Questo bellissimo frutto rendono alle cittá le luminose accademie, perché i giovani, la cui etá per lo buon sangue e per la poca sperienza è tutta fiducia e piena di alte speranze, s’infiammino a studiare per la via della lode e della gloria, affinché poi, venendo l’etá del senno e che cura le utilitá, esse le si proccurino per valore e per merito onestamente. Cosí il Vico si ricevette di bel nuovo alla filosofia sotto il padre Giuseppe Ricci, pur gesuita, uomo di acutissimo ingegno, scotista di setta ma zenonista nel fondo, da cui egli sentiva molto piacere nell’intendere che le «sostanze astratte»

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avevano piú di realitá che i «modi» del Balzo nominale; il che era presagio che egli a suo tempo si avesse a dilettare piú di tutt’altre della platonica filosofia, alla quale delle scolastiche niuna piú s’avvicina che la scotistica, e che egli poi avesse a ragionare, con altri sentimenti che con gli alterati di Aristotile, i «punti» di Zenone, come egli ha fatto nella sua Metafisica. Ma, ad esso lui sembrando il Ricci troppo essersi trattenuto nella spiegazione dell’ente e della sostanza per quanto si distingue per gli gradi metafisici, perché egli era avido di nuove cognizioni; ed avendo udito che ’l padre Suarez nella sua Metafisica ragionava di tutto lo scibile in filosofia con una maniera eminente, come a metafisico si conviene, e con uno stile sommamente chiaro e facile, come infatti egli vi spicca con una incomparabil facondia; lasciò la scuola con miglior uso che l’altra volta, e si chiuse un anno in casa a studiare sul Suarez.

Frattanto una sola volta egli si portò nella regia universitá degli studi, e dal suo buon genio fu menato entro la scuola di don Felice Aquadies, valoroso lettor primario di leggi, sul punto che egli dava a’ suoi discepoli tal giudizio di Ermanno Vulteio: che questi fosse il migliore di quanti mai scrissero sulle instituzioni civili; la qual parola, riposta dal Vico in memoria, fu una delle principali cagioni di tutto il miglior ordine de’ suoi studi e di quello vi profittò. Perché, applicato poi dal padre agli studi legali, tra per la vicinanza e molto piú per la celebritá del lettore, fu mandato da don Francesco Verde — appo il quale trattenutosi due soli mesi in lezioni tutte ripiene di casi della pratica piú minuta dell’uno e dell’altro fòro e de’ quali il giovanetto non vedeva i princípi, siccome quello che dalla metafisica aveva giá incominciato a formare la mente universale e ragionar de’ particolari per assiomi o sien massime, — disse al padre che esso non voleva andarvi piú ad imparare, perché dal Verde esso sentiva di nulla apprendere; e, facendo allora uso del detto dell’Aquadies, il priegò che chiedesse in prestanza una copia di Ermanno Vulteio ad un dottor di leggi per nome Nicolò Maria Gianattasio, oscuro ne’ tribunali ma assai dotto di buona giurisprudenza, il quale con lunga e molta diligenza

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aveva raccolta una libreria di libri legali eruditi preziosissima, perché sopra di tale auttore esso da sé studierebbe l’instituzioni civili. Di che il padre, ingombro dalla volgar fama e grande del lettor Verde, forte maravigliossi; ma, perché egli era assai discreto, volle in ciò compiacere al figliuolo, ed al Nicolò Maria gliele domandò, al quale il padre — mentre il figliuolo il richiedeva del Vulteio, che era di assai difficile incetta in Napoli, — siccome quello che era libraio, si ricordò avergliene tempo indietro dato uno. Il Nicolò Maria volendo sapere dal figliuolo medesimo la cagione della richiesta, questi dicendogliela — che sulle lezioni del Verde esso non faceva altro che esercitar la memoria, e l’intelletto penava di starvi a spasso, — al buon uomo e savio di tai cose piacque tanto il giudizio o piú tosto senso dritto non punto giovanile del giovanetto, che, facendo perciò al padre certo presagio della buona riuscita del figliuolo, non che imprestò, donògli non solo il Vulteio, ma anche l’Instituzioni canoniche di Errigo Canisio, perché questi a esso Nicolò Maria sembrava il migliore che l’avesse scritte tra’ canonisti. E sí il ben detto dell’Aquadies e ’l ben fatto di Nicolò Maria avviarono il Vico per le buone strade dell’una e dell’altra ragione.

Or, nel rincontrare particolarmente i luoghi della civile, egli sentiva un sommo piacere in due cose: una in riflettere nelle somme delle leggi dagli acuti interpetri astratti in massime generali di giusto i particolari motivi dell’equitá ch’avevano i giureconsulti e gl’imperadori avvertiti per la giustizia delle cause: la qual cosa l’affezionò agl’interpetri antichi, che poi avvertí e giudicò essere i filosofi dell’equitá naturale; — l’altra in osservare con quanta diligenza i giureconsulti medesimi esaminavano le parole delle leggi, de’ decreti del senato e degli editti de’ pretori, che interpetrano: la qual cosa il conciliò agl’interpetri eruditi, che poi avvertí ed estimò essere puri storici del dritto civile romano. Ed entrambi questi due piaceri erano altrettanti segni, l’uno di tutto lo studio che aveva egli da porre all’indagamento de’ princípi del dritto universale, l’altro del profitto che egli aveva a fare nella lingua latina, particolarmente

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negli usi della giurisprudenza romana, la cui piú difficil parte è il saper diffinire i nomi di legge.

Studiato che egli ebbe le une ed altre instituzioni sopra i testi della ragione cosí civile come canonica, nulla curando queste che si dicon «materie» da insegnarsi dentro il cinquennio dell’erudizione legale, volle applicarsi ai tribunali; e dal signor don Carlo Antonio de Rosa, senatore di somma probitá e protettor di sua casa, fu condotto ad apprendere la pratica del fòro dal signor Fabrizio del Vecchio, avvocato onestissimo, che poi vecchio morí dentro una somma povertá. E, per fargli apprender meglio la tela giudiziaria, portò la sorte che poco dipoi fu mossa lite a suo padre nel Sacro Consiglio, commessa al signor don Geronimo Acquaviva, la quale egli in etá di sedici anni da sé la condusse e poi la difese in ruota con l’assistenza di esso signor Fabrizio del Vecchio, con riportarne la vittoria. La quale dopo aver ragionata, ne meritò lode dal signor Pier Antonio Ciavarri, dottissimo giureconsulto, consigliere di quella ruota, e nell’uscire ne riportò gli abbracci dal signor Francesco Antonio Aquilante, vecchio avvocato di quel tribunale, che gli era stato avversario.

Ma quindi, come da assai molti simili argomenti si può facilmente intendere che uomini in altre parti del sapere ben avviati, in altre si raggirino in miserevoli errori per difetto che non sono guidati e condotti da una sapienza intiera e che si corrisponda in tutte le parti, nella mente del Vico prima si abbozzò l’argomento del De nostri temporis studiorum ratione ecc., e poi si compiè con l’opera De universi iuris uno principio ecc., di cui è appendice l’altra De constantia iurisprudentis. Imperciocché egli, giá di mente metafisica, tutto il cui lavoro è intendere il vero per generi e, con esatte divisioni condotte fil filo per le spezie de’ generi, ravvisarlo nelle sue ultime differenze, spampinava nelle maniere piú corrotte del poetare moderno, che con altro non diletta che coi trascorsi e col falso. Nella qual maniera fu confermato da ciò: che, dal padre Giacomo Lubrano (gesuita d’infinita erudizione e credito a que’ tempi nell’eloquenza sacra, quasi da per tutto corrotta) portatosi il Vico un giorno per riportarne

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giudizio se esso aveva profittato in poesia, li sottopose all’emenda una sua canzone sopra la rosa, la quale sí piacque al padre, per altro generoso e gentile, che, in etá grave d’anni ed in somma riputazione salito di grande orator sacro, ad un giovanetto che non mai aveva inanzi veduto non ebbe ritegno di recitare vicendevolmente un suo idillio fatto sopra lo stesso soggetto. Ma il Vico aveva appreso una tal sorta di poesia per un esercizio d’ingegno in opere d’argutezza, la quale unicamente diletta col falso, messo in comparsa stravagante che sorprenda la dritta espettazione degli uditori: onde, come farebbe dispiacenza alle gravi e severe, cosí cagiona diletto alle menti ancor deboli giovanili. Ed in vero sí fatto errore potrebbe dirsi divertimento poco meno che necessario per gl’ingegni de’ giovani, assottigliati di troppo e irrigiditi nello studio delle metafisiche, quando dee l’ingegno dare in trascorsi per l’infocato vigor dell’etá perché non si assideri e si dissecchi affatto, e con la molta severitá del giudizio, propia dell’etá matura, procurata innanzi tempo, non ardisca appresso mai di far nulla.

Andava egli frattanto a perdere la dilicata complessione in mal d’eticía, ed eran a lui in troppe angustie ridotte le famigliari fortune, ed aveva un ardente desiderio di ozio per seguitare i suoi studi, e l’animo abborriva grandemente dallo strepito del fòro, quando portò la buona occasione che, dentro una libreria, monsignor Geronimo Rocca vescovo d’Ischia, giureconsulto chiarissimo, come le sue opere il dimostrano, ebbe con essolui un ragionamento d’intorno al buon metodo d’insegnare la giurisprudenza. Di che il monsignore restò cosí soddisfatto che il tentò a volerla andare ad insegnare a’ suoi nipoti in un castello del Cilento di bellissimo sito e di perfettissima aria, il quale era in signoria di un suo fratello, signor don Domenico Rocca (che poi sperimentò gentilissimo suo mecenate e che si dilettava parimente della stessa maniera di poesia), perché l’arebbe dello in tutto pari a’ suoi figliuoli trattato (come poi in effetto il trattò), ed ivi dalla buon’aria del paese sarebbe restituito in salute ed arebbe tutto l’agio di studiare.

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Cosí egli avvenne, perché quivi avendo dimorato ben nove anni, fece il maggior corso degli studi suoi, profondando in quello delle leggi e de’ canoni, al quale il portava la sua obbligazione. E in grazia della ragion canonica inoltratosi a studiar de’ dogmi, si ritruovò poi nel giusto mezzo della dottrina cattolica d’intorno alla materia della grazia, particolarmente con la lezion del Ricardo, teologo sorbonico (che per fortuna si aveva seco portato dalla libreria di suo padre), il quale con un metodo geometrico fa vedere la dottrina di sant’Agostino posta in mezzo, come a due estremi, tra la calvinistica e la pelagiana e alle altre sentenze che o all’una di queste due o all’altra si avvicinano. La qual disposizione riuscí a lui efficace a meditar poi un principio di dritto natural delle genti, il quale e fosse comodo a spiegare le origini del dritto romano ed ogni altro civile gentilesco per quel che riguarda la storia, e fosse conforme alla sana dottrina della grazia per quel che ne riguarda la morale filosofia. Nel medesimo tempo Lorenzo Valla, con l’occasione che da quello sono ripresi in latina eleganza i romani giureconsulti, il guidò a coltivare lo studio della lingua latina, dandovi incominciamento dalle opere di Cicerone.

Ma, vivendo egli ancora pregiudicato nel poetare, felicemente gli avvenne che in una libreria de’ padri minori osservanti di quel castello si prese tra le mani un libro, nel cui fine era una critica, non ben si ricorda, o apologia di un epigramma di un valentuomo, canonico di ordine, Massa cognominato, dove si ragionava dei numeri poetici maravigliosi, spezialmente osservati in Virgilio; e fu sorpreso da tanta ammirazione che s’invogliò di studiare sui poeti latini, da quel principe facendo capo. Quindi, cominciandogli a dispiacere la sua maniera di poetar moderna, si rivolse a coltivare la favella toscana sopra i di lei príncipi, Boccaccio nella prosa, Dante e Petrarca nel verso; e per vicende di giornate studiava Cicerone o Virgilio overo Orazio, appetto il primo di Boccaccio, il secondo di Dante, il terzo di Petrarca, su questa curiositá di vederne con integritá di giudizio le differenze. E ne apprese di quanto in tutti e tre la latina favella avvanzava l’italiana, leggendo sempre i piú colti

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scrittori con questo ordine tre volte: la prima per comprenderne l’unitá dei componimenti, la seconda per veder gli attacchi e ’l séguito delle cose, la terza, piú partitamente, per raccôrne le belle forme del concepire e dello spiegarsi, le quali esso notava sui libri stessi, non portava in luoghi comuni o frasari; la qual pratica stimava condurre assai per bene usarle ai bisogni, ove le si ricordava ne’ luoghi loro: che è l’unica ragione del ben concepire e del bene spiegarsi.

Quindi, leggendo nell’Arte d’Orazio che la suppellettile piú doviziosa della poesia ella si proccura con la lezion de’ morali filosofi, seriosamente applicò alla morale degli antichi greci, dandovi principio da quella di Aristotile, di cui piú soventi fiate su vari princípi d’instituzioni civili ne aveva letto riferirsi le auttoritá. E in sí fatto studio avvertí che la giurisprudenza romana era un’arte di equitá insegnata con innumerabili minuti precetti di giusto naturale, indagati da’ giureconsulti dentro le ragioni delle leggi e la volontá de’ legislatori; ma la scienza del giusto che insegnano i morali filosofi, ella procede da poche veritá eterne, dettate in metafisica da una giustizia ideale, che nel lavoro delle cittá tien luogo d’architetta e comanda alle due giustizie particolari, commutativa e distributiva, come a due fabre divine che misurino le utilitá con due misure eterne, aritmetica e geometrica, sí come quelle che sono due proporzioni in mattematica dimostrate. Onde cominciò a conoscere quanto meno della metá si apprenda la disciplina legale con questo metodo di studi comunal che si osserva. Perciò si dovette esso di nuovo portare alla metafisica; ma, non soccorrendolo in ciò quella d’Aristotile, che aveva appresa nel Suarez, né sapendone veder la cagione, guidato dalla sola fama che Platone era il principe de’ divini filosofi, si condusse a studiarla da essolui; e, molto dipoi che vi aveva profittato, intese la cagione perché la metafisica d’Aristotile non lo aveva soccorso per gli studi della morale, siccome di nulla soccorse ad Averroe, il cui Comento non fe’ piú umani e civili gli arabi di quello che erano stati innanzi. Perché la metafisica d’Aristotile conduce a un principio fisico, il quale è materia dalla quale si educono le

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forme particolari e, sí, fa Iddio un vasellaio che lavori le cose fuori di sé. Ma la metafisica di Platone conduce a un principio metafisico, che è la idea eterna che da sé educe e crea la materia medesima, come uno spirito seminale che esso stesso si formi l’uovo: in conformitá di questa metafisica, fonda una morale sopra una virtú o giustizia ideale o sia architetta, in conseguenza della quale si diede a meditare una ideale repubblica, alla quale diede con le sue leggi un dritto pur ideale. Tanto che da quel tempo che il Vico non si sentí soddisfatto della metafisica d’Aristotile per bene intendere la morale e si sperimentò addottrinare da quella di Platone, incominciò in lui, senz’avvertirlo, a destarsi il pensiero di meditare un diritto ideale eterno che celebrassesi in una cittá universale nell’idea o disegno della providenza, sopra la quale idea son poi fondate tutte le repubbliche di tutti i tempi, di tutte le nazioni: che era quella repubblica ideale che, in conseguenza della sua metafisica, doveva meditar Platone, ma, per l’ignoranza del primo uom caduto, nol poté fare.

Ad un medesimo tempo le opere filosofiche di Cicerone, di Aristotile e di Platone, tutte lavorate in ordine a ben regolare l’uomo nella civile societá, fecero che egli nulla o assai poco si dilettasse della morale cosí degli stoici come degli epicurei, siccome quelle che entrambe sono una morale di solitari: degli epicurei, perché di sfaccendati chiusi ne’ loro orticelli; degli stoici, perché di meditanti che studiavano non sentir passione. E ’l salto, che egli aveva dapprima fatto dalla logica alla metafisica, fece che ’l Vico poco poi curasse la fisica d’Aristotile, di Epicuro ed ultimamente di Renato Delle Carte; onde si ritrovò disposto a compiacersi della fisica timaica seguíta da Platone, la quale vuole il mondo fatto di numeri, e ad esser rattenuto di disprezzare la fisica stoica, che vuole il mondo costar di punti, tralle quali due non è nulla di vario in sostanza, come poi si applicò a ristabilirla nel libro De antiquissima italorum sapientia; e finalmente a non ricevere né per giuoco né con serietá le fisiche meccaniche di Epicuro come di Renato, che sono entrambe di falsa posizione.

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Però, osservando il Vico cosí da Aristotile come da Platone usarsi assai sovente pruove mattematiche per dimostrare le cose che ragionano essi in filosofia, egli in ciò si vide difettoso a poter bene intendergli; onde volle applicarsi alla geometria e inoltrarsi fino alla quinta proposizione di Euclide. E, riflettendo che in quella dimostrazione si conteneva insomma una congruenza di triangoli esaminata partitamente per ciascun lato ed angolo di triangolo, che si dimostra con egual distesa combaciarsi con ciascun lato ed angolo dell’altro, pruovava in se stesso cosa piú facile l’intendere quelle minute veritá tutte insieme, come in un genere metafisico, di quelle particolari quantitá geometriche. E a suo costo sperimentò che alle menti giá dalla metafisica fatte universali non riesce agevole quello studio propio degli ingegni minuti, e lasciò di seguitarlo, siccome quello che poneva in ceppi ed angustie la sua mente giá avezza col molto studio di metafisica a spaziarsi nell’infinito de’ generi; e con la spessa lezione di oratori, di storici e di poeti dilettava l’ingegno di osservare tra lontanissime cose nodi che in qualche ragion comune le stringessero insieme, che sono i bei nastri dell’eloquenza che fanno dilettevoli l’acutezze.

Talché con ragione gli antichi stimarono studio propio da applicarvisi i fanciulli quello della geometria e la giudicarono una logica propia di quella tenera etá, che quanto apprende bene i particolari e sa fil filo disporgli, tanto difficilmente comprende i generi delle cose; ed Aristotile medesimo, quantunque esso dal metodo usato dalla geometria avesse astratto l’arte sillogistica, pur vi conviene ove afferma che a’ fanciulli debbono insegnarsi le lingue, l’istorie e la geometria, come materie piú propie da esercitarvi la memoria, la fantasia e l’ingegno. Quindi si può facilmente intendere con quanto guasto, con che coltura della gioventú, oggi da taluni nel metodo di studiare si usano due perniziosissime pratiche. La prima, che a fanciulli appena usciti dalla scuola della gramatica si apre la filosofia sulla logica che si dice «di Arnaldo», tutta ripiena di severissimi giudizi d’intorno a materie riposte di scienze superiori e tutte lontane dal comun senso volgare; con che si vengono a convellere ne’ giovinetti quelle doti della mente giovanile, le quali dovrebbero

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essere regolate e promosse ciascuna da un’arte propia, come la memoria con lo studio delle lingue, la fantasia con la lezione de’ poeti, storici ed oratori, l’ingegno con la geometria lineare, che in un certo modo è una pittura la quale invigorisce la memoria col gran numero de’ suoi elementi, ingentilisce la fantasia con le sue delicate figure come con tanti disegni descritti con sottilissime linee, e fa spedito l’ingegno in dover correrle tutte, e tra tutte raccoglier quelle che bisognano per dimostrare la grandezza che si domanda; e tutto ciò per fruttare, a tempo di maturo giudizio, una sapienza ben parlante, viva ed acuta. Ma, con tai logiche, i giovinetti, trasportati innanzi tempo alla critica, che è tanto dire portati a ben giudicare innanzi di ben apprendere, contro il corso natural dell’idee, che prima apprendono, poi giudicano, finalmente ragionano, ne diviene la gioventú arida e secca nello spiegarsi e, senza far mai nulla, vuol giudicar d’ogni cosa. Al contrario, se eglino nell’etá dell’ingegno, che è la giovanezza, s’impiegassero nella topica, che è l’arte di ritrovare, che è sol privilegio degl’ingegnosi (come il Vico, fatto accorto da Cicerone, vi s’impiegò nella sua), essi apparecchierebbero la materia per poi ben giudicare, poiché non si giudica bene se non si è conosciuto il tutto della cosa, e la topica è l’arte in ciascheduna cosa di ritrovare tutto quanto in quella è; e sí anderebbono dalla natura stessa i giovani a formarsi e filosofi e ben parlanti. L’altra pratica è che si dánno a’ giovanetti gli elementi della scienza delle grandezze col metodo algebraico, il quale assidera tutto il piú rigoglioso delle indoli giovanili, lor accieca la fantasia, spossa la memoria, infingardisce l’ingegno, rallenta l’intendimento, le quali quattro cose sono necessarissime per la coltura della miglior umanitá: la prima per la pittura, scoltura, architettura, musica, poesia ed eloquenza; la seconda per l’erudizione delle lingue e dell’istorie; la terza per le invenzioni; la quarta per la prudenza. E cotesta algebra sembra un ritrovato arabico di ridurre i segni naturali delle grandezze a certe cifre a placito, conforme gli arabi i segni de’ numeri, che appo i greci e latini furono le loro lettere, le quali appo entrambi, almen le grandi, sono linee geometriche regolari, essi ridussero in dieci minutissime cifre. E sí con l’algebra si affligge l’ingegno, perché non vede se non quel solo che li sta innanzi i piedi; sbalordisce la memoria, perché, ritruovato il secondo segno, non bada piú al primo; abbacina la fantasia, perché non immagina affatto nulla; distrugge l’intendimento, perché professa d’indovinare:
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talché i giovani, che vi hanno speso molto tempo, nell’uso poi della vita civile, con lor sommo rammarico e pentimento, vi si ritruovano meno atti. Onde, perché recasse alcuna utilitá e non facesse niuno di sí gran danni, l’algebra si dovrebbe apprendere per poco tempo nel fine del corso mattematico ed usarla come facevano i romani de’ numeri, che nelle immense somme li descrivevano per punti; cosí, dove, per ritrovare le grandezze che si domandano, si avesse a durare una disperata fatica col nostro umano intendimento per la sintetica, allora corressimo all’oracolo dell’analitica. Perché, per quanto appartiene a ben ragionare con questa spezie di metodo, meglio è farne l’abito con l’analitica metafisica, e in ogni quistione si vada a prendere il vero nell’infinito dell’ente, indi per gli generi della sostanza gradatamente si vada rimovendo ciò che la cosa non è per tutte le spezie de’ generi, finché si giunga all’ultima differenza, che costituisca l’essenza della cosa che si desidera di sapere 1.

Ora, ricevendoci al proposito — scoverto che egli ebbe tutto l’arcano del metodo geometrico contenersi in ciò: di prima diffinire le voci con le quali s’abbia a ragionare; dipoi stabilire alcune massime comuni, nelle quali colui con chi si ragiona vi convenga; finalmente, se bisogna, dimandare discretamente cosa che per natura si possa concedere, affin di poter uscire i ragionamenti, che senza una qualche posizione non verrebbero a capo; e con questi princípi da veritá piú semplici dimostrate procedere fil filo alle piú composte, e le composte non affermare se non prima si esaminino partitamente le parti che le compongono, — stimò soltanto utile aver conosciuto come procedano ne’ loro ragionamenti i geometri, perché, se mai a lui bisognasse alcuna volta quella maniera di ragionare, il sapesse; come poi severamente l’usò nell’opera De universi iuris uno principio, la quale il signor Giovan Clerico ha giudicato «esser tessuta con uno stretto metodo mattematico», come a suo luogo si narrerá.

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Or, per sapere ordinatamente i progressi del Vico nelle filosofie, fa qui bisogno ritornare alquanto indietro: che, nel tempo nel quale egli partí da Napoli, si era cominciata a coltivare la filosofia d’Epicuro sopra Pier Gassendi, e due anni doppo ebbe novella che la gioventú a tutta voga si era data a celebrarla; onde in lui si destò voglia d’intenderla sopra Lucrezio. Nella cui lezione conobbe che Epicuro, perché niegava la mente esser d’altro genere di sostanza che ’l corpo, per difetto di buona metafisica rimasto di mente limitata, dovette porre principio di filosofia il corpo giá formato e diviso in parti moltiformi ultime composte di altre parti, le quali, per difetto di vuoto interspersovi, fínselesi indivisibili: ch’è una filosofia da soddisfare le menti corte de’ fanciulli e le deboli delle donnicciuole. E quantunque egli non sapesse né meno di geometria, con tutto ciò con un buono ordinato séguito di conseguenze vi fabbrica sopra una fisica meccanica, una metafisica tutta del senso, quale sarebbe appunto quella di Giovanni Locke, e una morale del piacere, buona per uomini che debbon vivere in solitudine, come in effetto egli ordinò a coloro che professassero la sua setta; e, per fargli il suo merito, con quanto diletto il Vico vedeva spiegarsi da quello le forme della natura corporea, con altrettanto o riso o compatimento il vedeva posto nella dura necessitá di dare in mille inezie e sciocchezze per ispiegare le guise come operi la mente umana. Onde questo solo serví a lui di gran motivo di confermarsi vie piú ne’ dogmi di Platone, il quale da essa forma della nostra mente umana, senza ipotesi alcuna, stabilisce per principio delle cose tutte l’idea eterna, sulla scienza e coscienza che abbiamo di noi medesimi. Ché nella nostra mente sono certe eterne veritá che non possiamo sconoscere o riniegare, e in conseguenza che non sono da noi; ma del rimanente sentiamo in noi una libertá di fare, intendendo, tutte le cose che han dipendenza dal corpo, e perciò le facciamo in tempo, cioè quando vogliamo applicarvi, e tutte in conoscendo le facciamo, e tutte le conteniamo dentro di noi: come le immagini con la fantasia; le reminiscenze con la memoria; con l’appetito le passioni; gli odori, i sapori, i colori, i suoni,

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i tatti co’ sensi; e tutte queste cose le conteniamo dentro di noi. Ma per le veritá eterne, che non sono da noi e non hanno dipendenza dal corpo nostro, dobbiamo intendere essere principio delle cose tutte una idea eterna tutta scevera da corpo, che nella sua cognizione, ove voglia, crea tutte le cose in tempo e le contiene dentro di sé e, contenendole, le sostiene 2. Dal qual principio di filosofia stabilisce, in metafisica, le sostanze astratte aver piú di realitá che le corpolente; ne deriva una morale tutta ben disposta per la civiltá, onde la scuola di Socrate, e per sé e per gli suoi successori, diede i maggiori lumi della Grecia in entrambe le arti della pace e della guerra; e applaudisce alla fisica timaica, cioè di Pitagora, che vuole il mondo costar di numeri, che sono in un certo modo piú astratti de’ punti metafisici, ne’ quali diede Zenone per ispiegarvi sopra le cose della natura, come poi il Vico nella sua Metafisica il dimostra, per quel che appresso se ne dirá.

A capo di altro poco tempo seppe egli ch’era salita in pregio la fisica sperimentale, per cui si gridava da per tutto Roberto Boyle; la quale quanto egli giudicava esser profittevole per la medicina e per la spargirica, tanto esso la volle da sé lontana, tra perché nulla conferiva alla filosofia dell’uomo e perché si doveva spiegare con maniere barbare, ed egli principalmente attendeva allo studio delle leggi romane, i cui principali fondamenti sono la filosofia degli umani costumi e la scienza della lingua e del governo romano, che unicamente si apprende sui latini scrittori.

Verso il fine della sua solitudine, che ben nove anni durò, ebbe notizia aver oscurato la fama di tutte le passate la fisica

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di Renato Delle Carte, talché s’infiammò di averne contezza; quando per un grazioso inganno egli ne aveva avute di giá le notizie, perché esso dalla libreria di suo padre tra gli altri libri ne portò via seco la Filosofia naturale di Errico Regio, sotto la cui maschera il Cartesio l’aveva incominciata a pubblicare in Utrecht. E dopo il Lucrezio avendo preso il Regio a studiare, filosofo di profession medico, che mostrava non aver altra erudizione che di mattematica, il credette uomo non meno ignaro di metafisica di quello ch’era stato Epicuro, che di mattematica non volle giá mai sapere. Poiché egli pone in natura un principio pur di falsa posizione — il corpo giá formato, — che soltanto differisce da quel di Epicuro, che quello ferma la divisibilitá del corpo negli atomi, questo fa i suoi tre elementi divisibili all’infinito; quello pone il moto nel vano, questo nel pieno; quello incomincia a formare i suoi infiniti mondi da una casuale declinazion di atomi dal moto allo ingiú del propio lor peso e gravitá, questo incomincia a formare i suoi indefiniti vortici da un impeto impresso a un pezzo di materia inerte e quindi non divisa ancora, la quale con l’impresso moto la divida in quadrelli, e, impedita dalla sua mole, metta in necessitá di sforzarsi a muovere a moto retto, e, non potendo per lo suo pieno, incominci, ne’ suoi quadrelli divisa, a muoversi circa il suo centro di ciascun quadrello. Onde, come dalla casuale declinazione de’ suoi atomi Epicuro permette il mondo alla discrezione del caso, cosí, dalla necessitá di sforzarsi al moto retto i primi corpicelli di Renato, al Vico sembrava che tal sistema sarebbe comodo a coloro che soggettano il mondo al fato. E di tal suo giudizio egli si rallegrò in tempo appresso, che, ricevutosi in Napoli, e risaputo che la fisica del Regio era di Renato, si erano cominciate a coltivare le Meditazioni metafisiche del medesimo. Perché Renato, ambiziosissimo di gloria, sí come — con la sua fisica machinata sopra un disegno simile a quella di Epicuro, fatta comparire la prima volta sulle cattedre di una celebratissima universitá di Europa, qual è quella di Utrecht, da un fisico medico — affettò farsi celebre tra professori di medicina; cosí poi disegnò alquante prime linee di metafisica alla
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maniera di Platone — ove s’industria di stabilire due generi di sostanze, una distesa, altra intelligente, per dimostrare un agente sopra la materia che materia non sia, qual egli è ’l «dio» di Platone — per avere un giorno il regno anche tra’ i chiostri, ne’ quali era stata introdotta fin dal secolo undecimo la metafisica d’Aristotile. Ché, quantunque, per quello che questo filosofo vi conferí del suo, ella avesse servito innanzi agli empi averroisti, però, essendone la pianta quella di Platone, facilmente la religion cristiana la piegò a’ sensi pii del di lui Maestro, onde, come ella resse da principio con la platonica sino all’undecimo secolo, cosí indi in poi ha retto con la metafisica aristotelica. E, infatti, sul maggior fervore che si celebrava la fisica cartesiana, il Vico, ricevutosi in Napoli, udillo spesse volte dire dal signor Gregorio Calopreso, gran filosofo renatista, a cui il Vico fu molto caro. Ma, nell’unitá delle sue parti, di nulla costa in un sistema la filosofia di Renato, perché alla sua fisica converrebbe una metafisica che stabilisse un solo genere di sostanza corporea, operante, come si è detto, per necessitá, come a quella di Epicuro un sol genere di sostanza corporea, operante a caso; siccome in ciò ben conviene Renato con Epicuro, che tutte le infinite varie forme de’ corpi sono modificazioni della sostanza corporea, che in sostanza son nulla. Né la sua metafisica fruttò punto alcuna morale comoda alla cristiana religione, perché non solo non la compongono le poche cose che egli sparsamente ne ha scritto, e ’l trattato delle Passioni piú serve alla medicina che alla morale; ma neanche il padre Malebranche vi seppe lavorare sopra un sistema di moral cristiana, ed i Pensieri del Pascale sono pur lumi sparsi. Né dalla sua metafisica esce una logica propia, perché Arnaldo lavora la sua sulla pianta di quella di Aristotile. Né meno serve alla stessa medicina, perché l’uom di Renato dagli anatomici non si ritruova in natura, tanto che, a petto di quella di Renato, piú regge in un sistema la filosofia d’Epicuro, che non seppe nulla di mattematica. Per queste ragioni tutte, le quali avvertí il Vico, egli appresso molto godeva con esso seco che quanto con la lezion di Lucrezio si fe’ piú dalla parte della metafisica platonica, tanto con quella del Regio piú vi si confermó.
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Queste fisiche erano al Vico come divertimenti dalle meditazioni severe sopra i metafisici platonici e servivangli per ispaziarvi la fantasia negli usi di poetare, in che si esercitava sovente con lavorar canzoni, durando ancora il primo abito di comporre in italiana favella, ma sull’avvedimento di derivarvi idee luminose latine con la condotta de’ migliori poeti toscani. Come sul panegirico tessuto a Pompeo Magno da Cicerone nell’orazion della legge Manilia, della quale non vi ha in tal genere orazione piú grave in tutta la lingua latina, egli, ad imitazione delle «tre sorelle» del Petrarca, ordí un panegirico, diviso in tre canzoni, In lode dell’elettor Massimiliano di Baviera, le quali vanno nella Scelta de’ poeti italiani del signor Lippi, stampata in Lucca l’anno 1709. Ed in quella del signor Acampora de’ Poeti napoletani, stampata in Napoli l’anno 1701, va un’altra canzone nelle nozze della signora donna Ippolita Cantelmi de’ duchi di Popoli con don Vincenzo Carafa duca di Bruzzano ed or principe di Roccella; la quale esso compose sul confronto del leggiadrissimo carme di Catullo Vesper adest, il quale poi leggé aver imitato innanzi Torquato Tasso con una pur canzone in simigliante subietto, e ’l Vico godé non averne prima avuto contezza, tra per la riverenza di un tale e tanto poeta, e perché, ove avesse saputo che era stato giá prevenuto, non arebbe osato né goduto di lavorarla. Oltre a queste, sull’idea dell’«anno massimo» di Platone, sopra la quale aveva steso Virgilio la dottissima ecloga Sicelides musae, compose il Vico un’altra canzone nelle nozze del signor duca di Baviera con Teresa real di Polonia, la quale va nel primo tomo della Scelta de’ poeti napoletani del signor Albano, stampata in Napoli l’anno 1723.

Con questa dottrina e con questa erudizione il Vico si ricevé in Napoli come forestiero nella sua patria, e vi ritruovò sul piú bello celebrarsi dagli uomini letterati di conto la fisica di Renato. Quella di Aristotile, e per sé e molto piú per le alterazioni eccessive degli scolastici, era giá divenuta una favola. La metafisica — che nel Cinquecento aveva allogato nell’ordine piú sublime della letteratura i Marsili Ficini, i Pici della Mirandola, amendue gli Augustini e Nifo e Steuchio, i Giacopi Mazzoni, gli Alessandri

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Piccolomini, i Mattei Acquavivi, i Franceschi Patrizi, ed avea tanto conferito alla poesia, alla storia, all’eloquenza, che tutta Grecia, nel tempo che fu piú dotta e ben parlante, sembrava essere in Italia risurta — era ella riputata degna da star racchiusa ne’ chiostri; e di Platone soltanto si arrecava alcun luogo in uso della poesia, o per ostentare un’erudizion da memoria. Si condannava la logica scolastica, e si appruovava riporsi in di lei luogo gli Elementi di Euclide. La medicina, per le spesse mutazioni de’ sistemi di fisica, era decaduta nello scetticismo, ed i medici avevano incominciato a stare sull’acatalepsia o sia incomprendevolitá del vero circa la natura dei morbi, e sospendersi sull’epoca o sia sostentazion dell’assenso a darne i giudizi e adoperarvi efficaci rimedi; e la galenica, la quale, coltivata innanzi con la filosofia greca e con la greca lingua, aveva dato tanti medici incomparabili, per la grande ignoranza dei suoi seguaci di questi tempi era andata in un sommo disprezzo. Gl’interpetri antichi della ragion civile erano caduti dall’alta loro riputazione nell’accademia, e salitivi gli eruditi moderni con molto danno del fòro; perché quanto questi sono necessari per la critica delle leggi romane, altrettanto quelli bisognano per la topica legale nelle cause di dubbia equitá. Il dottissimo signor don Carlo Buragna aveva riportata la maniera lodevole del poetare; ma l’aveva ristretta in troppe angustie dentro l’imitazione di Giovanni della Casa, non derivando nulla o di delicato o di robusto da’ fonti greci o latini o da’ limpidi ruscelli delle rime del Petrarca o da’ gran torrenti delle canzoni di Dante. L’eruditissimo signor Lionardo da Capova aveva rimessa la buona favella toscana in prosa, vestita tutta di grazia e di leggiadria; ma con queste virtú non udivasi orazione o animata dalla sapienza greca nel maneggiare i costumi o invigorita dalla grandezza romana in commuover gli affetti. E, finalmente, il latinissimo signor Tomaso Cornelio co’ suoi purissimi Proginnasmi aveva piú tosto sbigottiti gl’ingegni de’ giovani che avvalorati a coltivar la lingua latina in appresso. Talché, per tutte queste cose, il Vico benedisse non aver lui avuto maestro nelle cui parole avesse egli giurato, e ringraziò quelle selve,
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fralle quali, dal suo buon genio guidato, aveva fatto il maggior corso dei suoi studi senza niun affetto di setta, e non nella cittá, nella quale, come moda di vesti, si cangiava ogni due o tre anni gusto di lettere. E dal comune traccuramento della buona prosa latina si determinò a maggiormente coltivarla. Ed avendo saputo che ’l Cornelio non era valuto in lingua greca, né curato aveva la toscana e nulla o pochissimo si era dilettato di critica — forse perché avvertito aveva che i poliglotti, per la moltiplicitá delle lingue che sanno, non ne usano mai una perfettamente, e i critici non consieguono le virtú delle lingue, perché sempre mai si trattengono a notare i difetti sopra gli scrittori — il Vico deliberò abbandonare la greca, in cui si era avvanzato dai Rudimenti del Gressero, che aveva appreso nella seconda de’ gesuiti, e la toscana favella (per la qual ragione non volle mai pur sapere la francesa), e tutto confermarsi nella latina. Ed avendo egli osservato altresí che con uscire alla luce i lessici e i comenti la lingua latina andò in decadenza, si risolvé non prender mai piú tal sorta di libri tra le mani, riserbandosi il solo Nomenclatore di Giunio per l’intelligenza delle voci delle arti, e leggere gli auttori latini schietti di note, con una critica filosofica entrando nel di loro spirito, siccome avevan fatto gli scrittori latini del Cinquecento, tra’ quali ammirava il Giovio per la facondia e ’l Naugero per la delicatezza, da quel poco che ne lasciò e, per lo di lui gusto troppo elegante, ne fa sospirare la gran perdita che si è fatta della sua Storia.

Per queste ragioni il Vico non solo viveva da straniero nella sua patria, ma anche sconosciuto. Non per tanto ch’egli era di questi sensi, di queste pratiche solitarie, non venerava da lontano come numi della sapienza gli uomini vecchi accreditati in iscienza di lettere e ne invidiava con onesto cruccio ad altri giovani la ventura di conversarvi. E, con questa disposizione, che è necessaria alla gioventú per piú profittare, e non sul detto de’ maestri o maliziosi o ignoranti restare per tutta la vita soddisfatti di un sapere a gusto ed a misura di altrui, venne egli primieramente in notizia a due uomini di conto. Il primo fu il padre don Gaetano di Andrea teatino, che poi morí santissimo

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vescovo, fratello de’ signori Francesco e Gennaio, entrambi di immortal nome; il quale, in un ragionamento che dentro una libreria con essolui tenne il Vico di storia di collezioni di canoni, li domandò se esso avesse menato moglie. E, rispondendogli il Vico che no, quello soggiunse: se egli si volesse far teatino; a cui questo rispondendo che esso non aveva natali nobili, quello replicò che ciò nulla importerebbe, perché esso ne arebbe ottenuta dispensa da Roma. Qui, vedendosi il Vico obbligato da tanta onoranza del padre, uscí colá che aveva parenti poveri e vecchi, privi di ogni altra speranza; e pure replicando il padre che gli uomini di lettere erano piuttosto di peso che di utilitá alle famiglie, il Vico conchiuse che forse in esso avverrebbe il contrario. Allora il padre finí con dire: — Non è questa la vostra vocazione. — L’altro fu il signor don Giuseppe Lucina, uomo di una immensa erudizione greca, latina e toscana in tutte le spezie del sapere umano e divino, il quale, avendo sperimentato il giovine quanto valesse, si doleva gentilmente che non se ne facesse alcun buon uso nella cittá, quando a lui si offerse una bella occasione di promuoverlo: che ’l signor don Niccolò Caravita, per acutezza d’ingegno, per severitá di giudizio e per puritá di toscano stile avvocato primario de’ tribunali e gran favoreggiatore de’ letterati, volle fare una raccolta di componimenti in lode del signor conte di Santostefano, viceré di Napoli, nella di lui dipartenza, la quale fu la prima che uscí in Napoli nella nostra memoria, e dentro le angustie di pochi giorni doveva ella essere giá stampata. Qui il Lucina, il quale era appo tutti di somma autoritá, proposegli il Vico per l’orazione che bisognava andare innanzi agli altri componimenti, e, ricevuto da quello l’impiego, il portò a essolui, mostrandogli l’opportunitá di venire con grado in cognizion di un protettor delle lettere, come esso lo sperimentò grandissimo suo, della qual cosa era esso giovane per se stesso desiderosissimo. E sí, perché aveva rinnonziato alle cose toscane, lavorò per quella raccolta una orazion latina sulle stampe medesime di Giuseppe Roselli, l’anno 1696. Quindi egli cominciò a salire in grido di letterato, e tra gli altri il signor Gregorio Calopreso, sopra da
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noi con onor mentovato, come fu detto di Epicuro, il soleva chiamare l’«autodidascalo» o sia il maestro di se medesimo. Dipoi nelle Pompe funerali di donna Caterina d’Aragona, madre del signor duca di Medinaceli, viceré di Napoli, nelle quali l’eruditissimo signor Carlo Rossi la greca, don Emmanuel Cicatelli, celebre orator sacro, la italiana, il Vico scrisse l’orazion latina, che va con gli altri componimenti in un libro in foglio stampato l’anno 1697.

Poco dopoi, essendo vacata la cattedra della rettorica per morte del professore, di rendita non piú che di cento scudi annui, con l’aggiunta di altra minor incerta somma che si ritragge dai diritti delle fedi con le quali tal professore abilita gli studenti allo studio legale; detto dal signor Caravita che egli illico vi concorresse, ed esso ricusando perché un’altra pretenzione, che pochi mesi innanzi esso aveva fatta, di segretario della cittá, gli era infelicemente riuscita; il signor don Nicolò, avendolo gentilmente ripreso come uomo di poco spirito (sí come infatti lo è d’intorno alle cose che riguardano le utilitá), li disse che egli attendesse solamente a farvi la lezione, perché esso ne farebbe la pretenzione. Cosí il Vico vi concorse con una lezione di un’ora sopra le prime righe di Fabio Quintiliano nel lunghissimo capo De statibus caussarum, contenendosi dentro l’etimologia e la distinzion dello «stato», ripiena di greca e latina erudizione e critica; per la quale meritò ottenerla con un numero abbondante di voti.

Frattanto il signor duca di Medinaceli viceré aveva restituito in Napoli il lustro delle buone lettere, non mai piú veduto fin da’ tempi di Alfonso di Aragona, con un’accademia per sua erudizione del fior fiore de’ letterati, propostagli da don Federico Pappacoda, cavalliere napoletano di buon gusto di lettere e grande estimatore de’ letterati, e da don Nicolò Caravita; onde, perché era cominciata a salire appo l’ordine de’ nobili in somma riputazione la piú colta letteratura, il Vico, spintovi di piú dall’onore di essere stato tra tali accademici annoverato, tutto applicossi a professare umane lettere.

Quindi è che la fortuna si dice esser amica de’ giovani, perché

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eleggono la lor sorta della vita sopra quelle arti o professioni che fioriscono nella loro gioventú; ma, il mondo di sua natura d’anni in anni cangiando gusti, si ritruovan poi, vecchi, valorosi di quel sapere che non piú piace e ’n conseguenza non frutta piú. Imperciocché ad un tratto si fa un gran rivolgimento di cose letterarie in Napoli, che, quando si credevano dovervisi per lunga etá ristabilire tutte le lettere migliori del Cinquecento, con la dipartenza del duca viceré vi surse un altro ordine di cose da mandarle tutte in brievissimo tempo in rovina contro ogni aspettazione; ché que’ valenti letterati, i quali due o tre anni avanti dicevano che le metafisiche dovevano star chiuse ne’ chiostri, presero essi a tutta voga a coltivarle, non giá sopra i Platoni e i Plotini coi Marsili, onde nel Cinquecento fruttarono tanti gran letterati, ma sopra le Meditazioni di Renato Delle Carte, delle quali è séguito il suo libro Del metodo, in cui egli disappruova gli studi delle lingue, degli oratori, degli storici e de’ poeti, e ponendo sú solamente la sua metafisica, fisica e mattematica, riduce la letteratura al sapere degli arabi, i quali in tutte e tre queste parti n’ebbero dottissimi, come gli Averroi in metafisica e tanti famosi astronomi e medici che ne hanno nell’una e nell’altra scienza lasciate anche le voci necessarie a spiegarvisi. Quindi ai quantunque dotti e grandi ingegni, perché si eran prima tutti e lungo tempo occupati in fisiche corpuscolari, in esperienze ed in macchine, dovettero le Meditazioni di Renato sembrar astrusissime, perché potessero ritrar da’ sensi le menti per meditarvi; onde l’elogio di gran filosofo era: — Costui intende le Meditazioni di Renato. — E in questi tempi, praticando spesso il Vico e ’l signor don Paolo Doria dal signor Caravita, la cui casa era ridotto di uomini di lettere, questo egualmente gran cavalliere e filosofo fu il primo con cui il Vico poté cominciare a ragionar di metafisica; e ciò che il Doria ammirava di sublime, grande e nuovo in Renato, il Vico avvertiva che era vecchio e volgar tra’ platonici. Ma da’ ragionamenti del Doria egli vi osservava una mente che spesso balenava lumi sfolgoranti di platonica divinitá, onde da quel tempo restaron congionti in una fida e signorile amicizia.
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Fino a questi tempi il Vico ammirava due soli sopra tutti gli altri dotti, che furono Platone e Tacito; perché con una mente metafisica incomparabile Tacito contempla l’uomo qual è, Platone qual dee essere; e come Platone con quella scienza universale si diffonde in tutte le parti dell’onestá che compiono l’uom sapiente d’idea, cosí Tacito discende a tutti i consigli dell’utilitá, perché tra gl’infiniti irregolari eventi della malizia e della fortuna si conduca a bene l’uom sapiente di pratica. E l’ammirazione con tal aspetto di questi due grandi auttori era nel Vico un abbozzo di quel disegno sul quale egli poi lavorò una storia ideale eterna sulla quale corrésse la storia universale di tutti i tempi, conducendovi, sopra certe eterne propietá delle cose civili, i surgimenti, stati, decadenze di tutte le nazioni, onde se ne formasse il sapiente insieme e di sapienza riposta, qual è quel di Platone, e di sapienza volgare, qual è quello di Tacito. Quando finalmente venne a lui in notizia Francesco Bacone signor di Verulamio, uomo ugualmente d’incomparabile sapienza e volgare e riposta, siccome quello che fu insieme insieme un uomo universale in dottrina ed in pratica, come raro filosofo e gran ministro di stato dell’Inghilterra. E, lasciando da parte stare gli altri suoi libri, nelle cui materie ebbe forse pari e migliori, in quelli De augumentis scientiarum l’apprese tanto che, come Platone è il principe del sapere de’ greci e un Tacito non hanno i greci, cosí un Bacone manca ed a’ latini ed a’ greci; che un sol uom vedesse quanto vi manchi nel mondo delle lettere che si dovrebbe ritruovare e promuovere, ed in ciò che vi ha, di quanti e quali difetti sia egli necessario emendarsi; né per affezione o di particolar professione o di propia setta, a riserva di poche cose che offendono la cattolica religione, faccia a tutte le scienze giustizia, e a tutte col consiglio che ciascuna conferisca del suo nella somma che costitovisce l’universal repubblica delle lettere. E, propostisi il Vico questi tre singolari auttori da sempre avergli avanti gli occhi nel meditare e nello scrivere, cosí andò dirozzando i suoi lavori d’ingegno, che poi portarono l’ultima opera De universi iuris uno principio, ecc.

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Imperciocché egli nelle sue orazioni fatte nell’aperture degli studi nella regia universitá usò sempre la pratica di proporre universali argomenti, scesi dalla metafisica in uso della civile; e con questo aspetto trattò o de’ fini degli studi, come nelle prime sei, o del metodo di studiare, come nella seconda parte della sesta e nell’intiera settima. Le prime tre trattano principalmente de’ fini convenevoli alla natura umana, le due altre principalmente de’ fini politici, la sesta del fine cristiano.

La prima, recitata li diciotto di ottobre 1699, propone che coltiviamo la forza della nostra mente divina in tutte le sue facoltá, su questo argomento: Suam ipsius cognitionem ad omnem doctrinarum orbem brevi absolvendum maximo cuique esse incitamento. E pruova la mente umana in via di proporzione esser il dio dell’uomo, come Iddio è la mente del tutto; dimostra le meraviglie della facoltá della mente partitamente, o sieno sensi o fantasia o memoria o ingegno o raziocinio, come operino con divine forze di speditezza, facilitá ed efficacia e ad un medesimo tempo diversissime cose e moltissime; che i fanciulli, vacui di pravi affetti e di vizi, di tre o quattro anni trastullando si ritruovano aver giá appresi gl’intieri lessici delle loro lingue native; che Socrate non tanto richiamò la morale filosofia dal cielo quanto esso v’innalzò l’animo nostro, e coloro i quali con le invenzioni furono sollevati in ciel tra gli dèi, quelli sono l’ingegno di ciascuno di noi; che sia meraviglia esservi tanti ignoranti, quando, come il fumo agli occhi, la puzza al naso, cosí sia contrario alla mente il non sapere, l’esser ingannato, il prender errore, onde sia da sommamente vituperarsi la negligenza; che non siamo dottissimi in tutto, unicamente perché non vogliamo esserlo, quando, col sol volere efficace, trasportati da estro, facciamo cose che, dopo fatte, l’ammiriamo come non da noi ma fatte da un dio. E perciò conchiude che, se in pochi anni un giovanetto non ha corso tutto l’orbe delle scienze, sia egli avvenuto o perché egli non ha voluto, o, se ha voluto, sia provvenuto per difetto de’ maestri o di buon ordine di studiare o di fine degli studi, altrove collocato che di coltivare una specie di divinitá dell’animo nostro.

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La seconda orazione, recitata l’anno 1700, contiene che informiamo l’animo delle virtú in conseguenza delle veritá della mente, sopra questo argomento: Hostem hosti infensiorem infestioremque quam stultum sibi esse neminem. E fa vedere questo universo una gran cittá, nella quale con una legge eterna Iddio condanna gli stolti a fare una guerra contro di se medesimi, cosí concepita: «Eius legis tot sunt digito omnipotenti perscripta capita, quot sunt rerum omnium naturae. Caput de homine recitemus. Homo mortali corpore, aeterno animo esto. Ad duas res, verum honestumque, sive adeo mihi uni, nascitor. Mens verum falsumque dignoscito. Sensus menti ne imponunto. Ratio vitae auspicium, ductum imperiumque habeto. Cupiditates rationi parento... Bonis animi artibus laudem sibi parato. Virtute et constantia humanam felicitatem indipiscitor. Si quis stultus, sive per malam malitiam sive per luxum sive per ignaviam sive adeo per impudentiam, secus faxit, perduellionis reus ipse secum bellum gerito», e vi descrive tragicamente la guerra. Dal qual luogo si vede apertamente che egli agitava fin da questo tempo nell’animo l’argomento, che poi trattò, del Dritto universale.

L’orazion terza, recitata l’anno 1701, è una come appendice pratica delle due innanzi, sopra questo argomento: A litteraria societate omnem malam fraudem abesse oportere, si vos vera non simulata, solida non vana, eruditione ornari studeatis. E dimostra che nella repubblica letteraria bisogna vivere con giustizia, e si condannano i critici a compiacenza, che esiggono con iniquitá i tributi di questo erario, gli ostinati delle sètte, che impediscono accrescersi l’erario, gl’impostori, che fraudano le loro contribuzioni all’erario delle lettere.

La quarta orazione, recitata l’anno 1704, propone questo argomento: Si quis ex litterarum studiis maximas utilitates easque semper cum honestate coniunctas percipere velit, is gloriae sive communi bono erudiatur. Ella è contra i falsi dotti che studiano per la sola utilitá, per la quale proccurano piú di parere che di esser tali, e, conseguita l’utilitá propostasi, s’infingardiscono ed usano pessime arti per durare in oppinione di dotti. Aveva il Vico giá recitata la metá di questo ragionamento,

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quando venne il signor don Felice Lanzina Ulloa, presidente del Sacro Consiglio, il Catone de’ ministri spagnuoli, in onor di cui egli con molto spirito diede altro torno e piú brieve al giá detto e attaccollo con ciò che restava a dire. Per una cui simile vivezza d’ingegno, che usò in lingua italiana Clemente undecimo, quando egli era abate, nell’accademia degli Umoristi in onore del cardinale d’Etré, suo protettore, cominciò appo Innocenzo decimosecondo le sue fortune, che il portarono al sommo ponteficato.

Nella quinta orazione, recitata l’anno 1705, proponsi: Respublicas tum maxime belli gloria inclytas et rerum imperio potentes, quum maxime litteris floruerunt. E si pruova vigorosamente con buone ragioni, e poi si conferma con questa perpetua successione di esempli. Nell’Assiria sursero i caldei, primi dotti del mondo e vi si stabilí la prima gran monarchia. Quando sfoggiò la Grecia piú che in tutti i tempi innanzi in sapere, la monarchia di Persia si rovesciò da Alessandro. Roma stabilí l’imperio del mondo sulle rovine di Cartagine sotto Scipione, che seppe tanto di filosofia, di eloquenza e di poesia quanto il dimostrano le inimitabili commedie di Terenzio, le quali egli insiem col suo amico Lelio lavorò, e, stimandole indegne di uscire sotto il suo gran nome, le fece pubblicare sotto quel di cui vanno, che vi dovette alcuna cosa contribuire del suo. Certamente la monarchia romana si fermò sotto Augusto, nel cui tempo risplendé in Roma tutta la sapienza di Grecia con lo splendore della lingua romana. Il piú luminoso regno d’Italia sfolgorò sotto Teodorico col consiglio de’ Cassiodori. In Carlo Magno risurse l’imperio romano in Germania, perché le lettere, giá affatto morte nelle corti reali d’Occidente, ricominciarono a surgere nella sua con gli Alcuini. Omero fece Alessandro, il quale tutto ardeva di conformarsi in valore all’essemplo di Achille, e Giulio Cesare si destò alle grandi imprese sull’essemplo di esso Alessandro; talché questi due gran capitani, de’ quali niuno ardí diffinire la maggioranza, sono scolari d’un eroe d’Omero. Due cardinali, entrambi grandissimi filosofi e teologi, ed uno, di piú, grande orator sacro, Simenes e Riscegliú, quello descrisse la pianta

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della monarchia di Spagna, questo quella di Francia. Il Turco ha fondato un grand’imperio sulla barbarie, ma col consiglio di un Sergio, dotto ed empio monaco cristiano, che allo stupido Maometto diede la legge sopra la quale il fondasse; e, mentre i greci, dall’Asia incominciando e poi dappertutto, erano andati nella barbarie, gli arabi coltivarono le metafisiche, le mattematiche, le astronomie, le medicine, e con questo sapere di dotti, quantunque non della piú colta umanitá, destarono a una somma gloria di conquiste gli Almanzorri tutti barbari e fieri, e servirono a stabilire al Turco un imperio nel quale fossero vietate tutte le lettere; il quale però, se non fosse per gli perfidi cristiani, prima greci e poi latini, che han loro somministrato di tempo in tempo le arti e i consigli della guerra, sarebbe il loro vasto imperio da se medesimo rovinato.

Nella orazion sesta, recitata l’anno 1707, tratta questo argomento mescolato di fine degli studi e di ordine di studiare: Corruptae hominum naturae cognitio ad universum ingenuarum artium scientiarumque absolvendum orbem invitat incitatque, ac rectum, facilem ac perpetuum in iis perdiscendis ordinem proponit exponitque. Qui egli fa entrar gli uditori in una meditazion di se medesimi, che l’uomo in pena del peccato è diviso dall’uomo con la lingua, con la mente e col cuore: con la lingua, che spesso non soccorre e spesso tradisce l’idee per le quali l’uomo vorrebbe e non può unirsi con l’uomo; con la mente, per la varietá delle opinioni nate dalla diversitá de’ gusti de’ sensi, ne’ quali uom non conviene con altr’uomo; e finalmente col cuore, per lo quale, corrotto, nemmeno l’uniformitá de’ vizi concilia l’uomo con l’uomo. Onde pruova che la pena della nostra corruzione si debba emendare con la virtú, con la scienza, con l’eloquenza, per le quali tre cose unicamente l’uomo sente lo stesso che altr’uomo. E ciò, per quello s’attiene al fine degli studi. Per quello riguarda l’ordine di studiare, pruova che, siccome le lingue furono il piú potente mezzo di fermare l’umana societá, cosí dalle lingue deono incominciarsi gli studi, poiché elle tutte s’attengono alla memoria, nella quale vale mirabilmente la fanciullezza. L’etá de’ fanciulli, debole di raziocinio,

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non con altro si regola che con gli essempli, che devono apprendersi con vivezza di fantasia per commuovere, nella quale la fanciullezza è meravigliosa; quindi i fanciulli si devono trattenere nella lezion della storia cosí favolosa come vera. È ragionevole la etá de’ fanciulli, ma non ha materia di ragionare: s’addestrino all’arte del buon raziocinio nelle scienze delle misure, che vogliono memoria e fantasia e, insieme insieme, spossan loro la corpolenta facoltá dell’immaginativa, che, robusta, è la madre di tutti i nostri errori e miserie. Nella prima gioventú prevagliono i sensi e ne trascinano la mente pura: si applichino alle fisiche, che portano alla contemplazione dell’universo de’ corpi ed han bisogno delle mattematiche per la scienza del sistema mondano. Quindi dalle vaste idee corpolente fisiche e dalle delicate delle linee e de’ numeri si dispongano ad intendere l’infinito astratto in metafisica con la scienza dell’ente e dell’uno, nella quale conoscendo i giovani la lor mente, si dispongano a ravvisare il loro animo, e in séguito di eterne veritá il vedan corrotto, per potersi disporre ad emendarlo naturalmente con la morale in etá che giá han fatto alcuna sperienza quanto mal conducano le passioni, le quali sono in fanciullezza violentissime. Ed ove conoscano che naturalmente la morale pagana non basti perché ammansisca e domi la filautia o sia l’amor propio, ed avendo in metafisica sperimentato intender essi piú certo l’infinito che il finito, la mente che ’l corpo, Iddio che l’uomo, il quale non sa le guise come esso si muova, come senta, come conosca, si dispongano con l’intelletto umiliato a ricevere la rivelata teologia, in conseguenza di cui discendano alla cristiana morale, e, cosí purgati, si portino finalmente alla cristiana giurisprudenza.

Fin dal tempo della prima orazione che si è rapportata, e per quella e per tutte l’altre seguenti, e piú di tutte per quest’ultima, apertamente si vede che ’l Vico agitava un qualche argomento e nuovo e grande nell’animo, che in un principio unisse egli tutto il sapere umano e divino; ma tutti questi da lui trattati n’eran troppo lontani. Ond’egli godé non aver dato alla luce queste orazioni, perché stimò non doversi gravare di

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piú libri la repubblica delle lettere, la quale per la tanta lor mole non regge, e solamente dovervi portare in mezzo libri d’importanti discoverte e di utilissimi ritrovati. Ma nell’anno 1708, avendo la regia universitá determinato fare un’apertura di studi pubblica solenne e dedicarla al re con un’orazione da dirsi alla presenza del cardinal Grimani viceré di Napoli, e che perciò si doveva dare alle stampe, venne felicemente fatto al Vico di meditare un argomento che portasse alcuna nuova scoverta ed utile al mondo delle lettere, che sarebbe stato un desiderio degno da esser noverato tra gli altri del Bacone nel suo Nuovo organo delle scienze. Egli si raggira d’intorno a’ vantaggi e disvantaggi della maniera di studiare nostra, messa al confronto di quella degli antichi in tutte le spezie del sapere, e quali svantaggi della nostra e con quali ragioni si potessero schivare, e quelli che schivar non si possono con quai vantaggi degli antichi si potessero compensare, tanto che un’intiera universitá di oggidí fosse, per essemplo, un solo Platone con tutto il di piú che noi godemo sopra gli antichi; perché tutto il sapere umano e divino reggesse dapertutto con uno spirito e costasse in tutte le parti sue, sí che si dassero le scienze l’un’all’altra la mano, né alcuna fusse d’impedimento a nessuna. La dissertazione uscí l’istesso anno in dodicesimo dalle stampe di Felice Mosca. Il quale argomento, in fatti, è un abbozzo dell’opera che poi lavorò: De universi iuris uno principio ecc., di cui è appendice l’altra De constantia iurisprudentis.

E perché egli il Vico sempre aveva la mira a farsi merito con l’universitá nella giurisprudenza per altra via che di leggerla a giovinetti, vi trattò molto dell’arcano delle leggi degli antichi giurisprudenti romani, e diede un saggio di un sistema di giurisprudenza d’interpretare le leggi, quantunque private, con l’aspetto della ragione del governo romano. Circa la qual parte monsignor Vincenzo Vidania, prefetto de’ regi studi, uomo dottissimo delle antichitá romane, specialmente intorno alle leggi, che in quei tempi era in Barcellona, con una onorevolissima dissertazione gli oppose in ciò che il Vico aveva fermo: che i giureconsulti romani

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antichi fossero stati tutti patrizi; alla quale il Vico allora privatamente rispose e poi soddisfece pubblicamente con l’opera De universi iuris ecc., a’ cui piedi si legge la dissertazione dell’illustrissimo Vidania con le risposte del Vico 3. Ma il signor Errico Brenckman, dottissimo giureconsulto olandese, molto si compiacque delle cose dal Vico meditate circa la giurisprudenza; e, mentre dimorava in Firenze a rileggere i Pandetti fiorentini, ne tenne onorevoli ragionamenti col signor Antonio di Rinaldo, da Napoli colá portato a patrocinarvi una causa di un napoletano magnate. Questa dissertazione uscita alla luce, accresciuta di ciò che non si poté dire alla presenza del cardinal viceré per non abusarsi del tempo, che molto bisogna a’ príncipi, fu ella cagione che ’l signor Domenico d’Aulisio, lettor primario vespertino di leggi, uomo universale delle lingue e delle scienze (il quale fino a quell’ora aveva mal visto il Vico nell’universitá, non giá per suo merito, ma perché egli era amico di que’ letterati i quali erano stati del partito del Capova contro di lui in una gran contesa litteraria, la quale molto innanzi aveva brucciato in Napoli, che qui non fa uopo di riferire), un giorno di pubblica funzione di concorsi di cattedre, a sé chiamò il Vico, invitandolo a sedere presso lui; a cui disse aver esso letto «quel libricciuolo» (perché egli, per contesa di precedenza col lettor primario de’ canoni, non interveniva nelle aperture), «e lo stimava di uomo che non voltava indici e del quale ogni pagina potrebbe dare altrui motivo di lavorare ampi volumi». Il qual atto sí cortese e giudizio cosí benigno di uomo per altro nel costume anzi aspro che no ed assai parco di lodi, appruovò al Vico una singolar grandezza d’animo di quello verso di lui; dal qual giorno vi contrasse una strettissima amicizia, la quale egli continovò fin che visse questo gran letterato.

Frattanto il Vico, con la lezione del piú ingegnoso e dotto che vero trattato di Bacone da Verulamio De sapientia veterum, si destò a ricercarne piú in lá i princípi che nelle favole de’ poeti, muovendolo a far ciò l’auttoritá di Platone, ch’era

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andato nel Cratilo ad investigargli dentro le origini della lingua greca; e, promuovendolo la disposizione, nella quale era giá entrato, che l’incominciavano a dispiacere l’etimologie de’ gramatici, s’applicò a rintracciargli dentro le origini delle voci latine, quando certamente il sapere della setta italica fiorí assai innanzi, nella scuola di Pittagora, piú profondo di quello che poi cominciò nella medesima Grecia. E dalla voce «coelum», che significa egualmente il «bolino» e ’l «gran corpo dell’aria», congetturava non forse gli egizi, da cui Pittagora aveva appreso, avessero oppinato che l’istromento, con cui la natura lavora tutto, egli sia il cuneo, e che ciò vollero significare gli egizi con le loro piramidi. E i latini la «natura» dissero «ingenium», di cui è principal propietá l’acutezza; sí che la natura formi e sformi ogni forma col bolino dell’aria; e che formi, leggiermente incavando, la materia; la sformi, profondandovi il suo bolino col quale l’aria depreda tutto; e la mano che muova questo istromento sia l’etere, la cui mente fu creduta da tutti Giove. E i latini l’«aria» dissero «anima», come principio onde l’universo abbia il moto e la vita, sopra cui, come femmina, operi come maschio l’etere, che, insinuato nell’animale, da’ latini fu detto «animus»; onde è quella volgar differenza di latine propietá: «anima vivimus, animo sentimus»; talché l’anima, o l’aria, insinuata nel sangue sia nell’uomo principio della vita, l’etere insinuato ne’ nervi sia principio del senso; ed a quella proporzione che l’etere è piú attivo dell’aria, cosí gli spiriti animali sieno piú mobili e presti che i vitali; e come sopra l’anima opera l’animo, cosí sopra l’animo operi quella che da’ latini si dice «mens», che tanto vale quanto «pensiero», onde restò a’ latini detta «mens animi»; e che ’l pensiero o mente sia agli uomini mandato da Giove, che è la mente dell’etere. Ché se egli fosse cosí, il principio operante di tutte le cose in natura dovrebbono essere corpicelli di figura piramidali; e certamente l’etere unito è fuoco. E su tali princípi un giorno, in casa del signor don Lucio di Sangro, il Vico ne tenne ragionamento col signor Doria: che forse quello che i fisici ammirano strani effetti nella calamita, eglino non si riflettono che sono assai
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volgari nel fuoco; de’ fenomeni della calamita tre essere i piú meravigliosi, l’attrazione del ferro, la comunicazione al ferro della virtú magnetica e l’addrizzamento al polo; e niuna cosa essere piú volgare che ’l fomento in proporzionata distanza concepisce il foco e, in arruotarsi, la fiamma, che ci comunica il lume, e che la fiamma s’addrizza al vertice del suo cielo: tanto che, se la calamita fosse rada come la fiamma e la fiamma spessa come la calamita, questa non si addrizzarebbe al polo ma al suo zenit, e la fiamma si addrizzarebbe al polo, non al suo vertice: che sarebbe se la calamita per ciò si addrizzi al polo perché quella sia la piú alta parte del cielo verso cui ella possa sforzarsi? Come apertamente si osserva nelle calamite poste in punte ad aghi alquanto lunghe, che, mentre s’addrizzano al polo, elleno apertamente si vedono sforzarsi d’ergere verso il zenit; talché forse la calamita osservata con questo aspetto, determinata da viaggiatori in qualche luogo dove ella piú che altrove si ergesse, potrebbe dare la misura certa delle larghezze delle terre, che cotanto si va cercando per portare alla sua perfezione la geografia.

Questo pensiero piacque sommamente al signor Doria, onde il Vico si diede a portarlo piú inoltre in uso della medicina, perché de’ medesimi egizi, i quali significarono la natura con la piramide, fu particolar medicina meccanica quella del lasco e dello stretto, che ’l dottissimo Prospero Alpino con somma dottrina ed erudizione adornò. E vedendo altresí il Vico che niun medico aveva fatto uso del caldo e del freddo quali li diffinisce il Cartesio: — che ’l freddo sia moto da fuori in dentro, il caldo, a roverscio, moto da dentro in fuori, — fu mosso a fondarvi sopra un sistema di medicina: non forse le febbri ardenti sieno d’aria nelle vene dal centro del cuore alla periferia, che piú di quel che conviene a star bene dilarghi i diametri de’ vasi sanguigni turati dalla parte opposta al di fuori; ed al contrario le febbri maligne sieno moto d’aria ne’ vasi sanguigni da fuori in dentro, che ne dilarghi oltre di quel che conviene a star bene i diametri de’ vasi turati nella parte opposta al di dentro; onde, mancando al cuore, ch’è ’l centro del corpo animato, l’aria che

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bisogna tanto muoverlo quanto convenga a star bene, infievolendosi il moto del cuore, se ne rappigli il sangue, in che principalmente le febbri acute consistono; e questo sia quello «quid divini» che Ippocrate diceva cagionare tai febbri. Vi concorrono da tutta la natura ragionevoli congetture, perché egualmente il freddo e ’l caldo conferiscono alla generazion delle cose: il freddo a germogliare le semenze delle biade e ne’ cadaveri alla ingenerazione de’ vermini, ne’ luoghi umidi e oscuri a quella d’altri animali, e l’eccessivo freddo egualmente che ’l foco cagiona delle gangrene, ed in Isvezia le gangrene si curan col ghiaccio; vi concorrono i segni, nelle maligne, del tatto freddo e de’ sudori colliquativi, che dánno a divedere un gran dilargamento de’ vasi escretòri; nelle ardenti, il tatto infocato ed aspro, che con l’asprezza significa troppo al di fuori essersi i vasi corrugati e stretti. Che sarebbe se quindi restò a’ latini, che riducessero tutti i morbi a questo sommo genere: «ruptum», che vi fosse stata una antica medicina in Italia, che stimasse tutti i mali cominciassero da vizio di solidi e che portino finalmente a quello che dicono i medesimi latini «corruptum»?

Quindi, per le ragioni arrecate in quel libricciuolo che poi ne diede alla luce, s’innalzò il Vico a stabilire questa fisica sopra una metafisica propia; e con la stessa condotta delle origini de’ latini favellari ripurgò i punti di Zenone dagli alterati rapporti di Aristotile, e mostrò che i punti zenonistici sieno l’unica ipotesi da scendere dalle cose astratte alle corpolente, siccome la geometria è l’unica via da portarsi con iscienza dalle cose corpolente alle cose astratte, di che costano i corpi; — e, diffinito il punto quello che non ha parti (che è tanto dire quanto fondare un principio infinito dell’estensione astratta), come il punto, che non è disteso, con un escorso faccia l’estension della linea, cosí vi sia una sostanza infinita che con un suo come escorso, che sarebbe la generazione, dia forma alle cose finite; — e come Pitagora, che vuole per ciò il mondo costar di numeri, che sono in un certo modo delle linee piú astratti, perché l’uno non è numero e genera il numero ed in ogni numero

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dissuguale vi sta dentro indivisibilmente (onde Aristotile disse l’essenze essere indivisibili siccome i numeri, ch’è tanto dividergli quanto distruggergli), cosí il punto, che sta egualmente sotto linee distese ineguali (onde la diagonale con la laterale del quadrato, per esemplo, che sono altrimente linee incommensurabili, si tagliano ne’ medesimi punti), sia egli un’ipotesi di una sostanza inestensa, che sotto corpi disuguali vi stia egualmente sotto ed egualmente li sostenga. Alla qual metafisica anderebbero di séguito cosí la logica degli stoici, nella quale s’addottrinavano a ragionare col sorite, che era una lor propia maniera di argomentare quasi con un metodo geometrico; come la fisica, la quale ponga per principio di tutte le forme corporee il cuneo, in quella guisa che la prima figura composta, che s’ingenera in geometria, è ’l triangolo, siccome la prima semplice è ’l cerchio, simbolo del perfettissimo Dio. E cosí ne uscirebbe comodamente la fisica degli egizi, che intesero la natura una piramide, che è un solido di quattro facce triangolari, e vi si accomoderebbe la medicina egiziana del lasco e dello stretto. Della quale egli un libro di pochi fogli col titolo De aequilibrio corporis animantis ne scrisse al signor Domenico d’Aulisio, dottissimo quant’altri mai delle cose di medicina; e ne tenne altresí spessi ragionamenti col signor Lucantonio Porzio, onde si conciliò appo questi un sommo credito congionto ad una stretta amicizia, la quale coltivò egli infino alla morte di questo ultimo filosofo italiano della scuola di Galileo, il quale soleva dir spesso con gli amici che le cose meditate dal Vico, per usare il suo detto, il ponevano in soggezione. Ma la Metafisica sola fu stampata in Napoli in dodicesimo l’anno 1710 presso Felice Mosca, indrizzata al signor don Paolo Doria, per primo libro del De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda. E vi si attaccò la contesa tra’ signori giornalisti di Vinegia e l’auttore, di cui ne vanno stampate in Napoli in dodicesimo pur dal Mosca una Risposta l’anno 1711 e una Replica l’anno 1712; la qual contesa da ambe le parti e onorevolmente si trattò, e con molta buona grazia si compose. Ma il dispiacimento delle etimologie gramatiche,
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che era incominciato a farsi sentire nel Vico, era un indizio di ciò onde poi, nell’opere ultime, ritruovò le origini delle lingue tratte da un principio di natura comune a tutte, sopra il quale stabilisce i princípi d’un etimologico universale da dar l’origini a tutte le lingue morte e viventi. E ’l poco compiacimento del libro del Verulamio, ove si dá a rintracciare la sapienza degli antichi dalle favole de’ poeti, fu un altro segno di quello onde il Vico, pur nell’ultime sue opere, ritruovò altri princípi della poesia di quelli che i greci e i latini e gli altri dopoi hanno finor creduto, sopra cui ne stabilisce altri di mitologia, co’ quali le favole unicamente portarono significati storici delle prime antichissime repubbliche greche, e ne spiega tutta la storia favolosa delle repubbliche eroiche.

Poco dopoi, fu onorevolmente richiesto dal signor don Adriano Caraffa duca di Traetto, nella cui erudizione era stato molti anni impiegato, che egli scrivesse la vita del maresciallo Antonio Caraffa suo zio; e ’l Vico, che aveva formato l’animo verace, ricevé il comando perché ébbene pronta dal duca una sformata copia di buone e sincere notizie, che ’l duca ne conservava. E dal tempo degli esercizi diurni rimanevagli la sola notte per lavorarla, e vi spese due anni, uno a disporne da quelle molto sparse e confuse notizie i comentari, un altro a tesserne l’istoria, in tutto il qual tempo fu travagliato da crudelissimi spasimi ippocondriaci nel braccio sinistro. E, come poteva ogniun vederlo, la sera, per tutto il tempo che la scrisse non ebbe giammai altro innanzi sul tavolino che i comentari, come se scrivesse in lingua nativa, ed in mezzo agli strepiti domestici e spesso in conversazion degli amici; e sí lavorolla temprata di onore del subbietto, di riverenza verso i príncipi e di giustizia che si dee aver per la veritá. L’opera uscí magnifica dalle stampe di Felice Mosca in quarto foglio in un giusto volume l’anno 1716, e fu il primo libro che con gusto di quelle di Olanda uscí dalle stampe di Napoli; e, mandata dal duca al sommo pontefice Clemente undecimo, in un brieve, con cui la gradí, meritò l’elogio di «storia immortale», e di piú conciliò

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al Vico la stima e l’amicizia di un chiarissimo letterato d’Italia, signor Gianvincenzo Gravina, col quale coltivò stretta corrispondenza infino che egli morí.

Nell’apparecchiarsi a scrivere questa vita, il Vico si vide in obbligo di leggere Ugon Grozio, De iure belli et pacis. E qui vide il quarto auttore da aggiugnersi agli tre altri che egli si aveva proposti. Perché Platone adorna piú tosto che ferma la sua sapienza riposta con la volgare di Omero; Tacito sparge la sua metafisica, morale e politica per gli fatti, come da’ tempi ad essolui vengono innanzi sparsi e confusi senza sistema; Bacone vede tutto il saper umano e divino, che vi era, doversi supplire in ciò che non ha ed emendare in ciò che ha, ma, intorno alle leggi, egli co’ suoi canoni non s’innalzò troppo all’universo delle cittá ed alla scorsa di tutti i tempi né alla distesa di tutte le nazioni. Ma Ugon Grozio pone in sistema di un dritto universale tutta la filosofia e la filologia in entrambe le parti di questa ultima, sí della storia delle cose o favolosa o certa, sí della storia delle tre lingue, ebrea, greca e latina, che sono le tre lingue dotte antiche che ci son pervenute per mano della cristiana religione. Ed egli molto piú poi si fe’ addentro in quest’opera del Grozio, quando, avendosi ella a ristampare, fu richiesto che vi scrivesse alcune note, che ’l Vico cominciò a scrivere, piú che al Grozio, in riprensione di quelle che vi aveva scritte il Gronovio, il quale le vi appiccò piú per compiacere a’ governi liberi che per far merito alla giustizia; e giá ne aveva scorso il primo libro e la metá del secondo, delle quali poi si rimase, sulla riflessione che non conveniva ad uom cattolico di religione adornare di note opera di auttore eretico.

Con questi studi, con queste cognizioni, con questi quattro auttori che egli ammirava sopra tutt’altri, con desiderio di piegargli in uso della cattolica religione, finalmente il Vico intese non esservi ancora nel mondo delle lettere un sistema, in cui accordasse la miglior filosofia, qual è la platonica subordinata alla cristiana religione, con una filologia che portasse necessitá di scienza in entrambe le sue parti, che sono le due storie, una

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delle lingue, l’altra delle cose; e dalla storia delle cose si accertasse quella delle lingue, di tal condotta che sí fatto sistema componesse amichevolmente e le massime de’ sapienti dell’accademie e le pratiche de’ sapienti delle repubbliche. Ed in questo intendimento egli tutto spiccossi dalla mente del Vico quello che egli era ito nella mente cercando nelle prime orazioni augurali ed aveva dirozzato pur grossolanamente nella dissertazione De nostri temporis studiorum ratione e, con un poco piú di affinamento, nella Metafisica. Ed in un’apertura di studi pubblica solenne dell’anno 1719 propose questo argomento: Omnis divinae atque humanae eruditionis elementa tria: nosse, velle, posse; quorum principium unum mens, cuius oculus ratio, cui aeterni veri lumen praebet Deus. E partí l’argomento cosí: «Nunc haec tria elementa, quae tam existere et nostra esse quam nos vivere certo scimus, una illa re de qua omnino dubitare non possumus, nimirum cogitatione, explicemus. Quod quo facilius faciamus, hanc tractationem universam divido in partes tres: in quarum prima omnia scientiarum principia a Deo esse; in secunda, divinum lumen sive aeternum verum per haec tria quae proposuimus elementa, omnes scientias permeare, easque omnes una arctissima complexione colligatas alias in alias dirigere et cunctas ad Deum, ipsarum principium, revocare: in tertia, quicquid usquam de divinae ac humanae eruditionis principiis scriptum dictumve sit quod cum his principiis congruerit, verum; quod dissenserit, falsum esse demonstremus. Atque adeo de divinarum atque humanarum rerum notitia haec agam tria: de origine, de circulo, de constantia; et ostendam origines omnes a Deo provenire, circulo ad Deum redire omnes, constantia omnes constare in Deo omnesque eas ipsas praeter Deum tenebras esse et errores». E vi ragionò sopra da un’ora e piú.

Sembrò a taluni l’argomento, particolarmente per la terza parte, piú magnifico che efficace, dicendo che non di tanto si era compromesso Pico della Mirandola quando propose sostenere «conclusiones de omni scibili», perché ne lasciò la grande e maggior parte della filologia, la quale, intorno a innumerabili cose delle religioni, lingue, leggi, costumi, domíni, commerzi, imperi,

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governi, ordini ed altre, è ne’ suoi incominciamenti mozza, oscura, irragionevole, incredibile e disperata affatto da potersi ridurre a princípi di scienza. Onde il Vico, per darne innanzi tempo un’idea che dimostrasse poter un tal sistema uscire all’effetto, ne diede fuora un saggio l’anno 1720, che corse per le mani de’ letterati d’Italia e d’oltremonti, sopra il quale alcuni diedero giudizi svantaggiosi; però, non gli avendo poi sostenuti quando l’opera uscí adornata di giudizi molto onorevoli di uomini letterati dottissimi, co’ quali efficacemente la lodarono, non sono costoro da essere qui mentovati. Il signor Anton Salvini, gran pregio dell’Italia, degnossi fargli contro alcune difficoltá filologiche (le quali fece a lui giugnere per lettera scritta al signor Francesco Valletta, uomo dottissimo e degno erede della celebre biblioteca vallettiana lasciata dal signor Gioseppe, suo avo), alle quali gentilmente rispose il Vico nella Constanza della filologia; altre filosofiche del signor Ulrico Ubero e del signor Cristiano Tomasio, uomini di rinomata letteratura della Germania, gliene portò il signor Luigi barone di Ghemminghen, alle quali egli si ritruovava giá aver soddisfatto con l’opera istessa, come si può vedere nel fine del libro De constantia iurisprudentis4.

Uscito il primo libro col titolo De uno universi iuris principio et fine uno l’istesso anno 1720, dalle stampe pur di Felice Mosca in quarto foglio, nel quale pruova la prima e la seconda parte della dissertazione, giunsero all’orecchio dell’auttore obbiezioni fatte a voce da sconosciuti ed altre da alcuno fatte pure privatamente, delle quali niuna convelleva il sistema, ma intorno a leggieri particolari cose, e la maggior parte in conseguenza delle vecchie oppinioni contro le quali si era meditato il sistema. A’quali opponitori, per non sembrare il Vico che esso s’infingesse i nemici per poi ferirgli, risponde senza nominargli nel libro che diede appresso: De constantia iurisprudentis, accioché cosí sconosciuti, se mai avessero in mano l’opera, tutti soli e secreti intendessero esser loro stato risposto. Uscí poi dalle

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medesime stampe del Mosca, pur in quarto foglio, l’anno appresso 1721, l’altro volume col titolo: De constantia iurisprudentis, nella quale piú a minuto si pruova la terza parte della dissertazione, la quale in questo libro si divide in due parti, una De constantia philosophiae, altra De constantia philologiae; e in questa seconda parte dispiacendo a taluni un capitolo cosí concepito: Nova scientia tentatur, donde s’incomincia la filologia a ridurre a princípi di scienza, e ritruovando infatti che la promessa fatta dal Vico nella terza parte della dissertazione non era punto vana non solo per la parte della filosofia, ma, quel che era piú, né meno per quella della filologia, anzi di piú che sopra tal sistema vi si facevano molte ed importanti scoverte di cose tutte nuove e tutte lontane dall’oppinione di tutti i dotti di tutti i tempi, non udí l’opera altra accusa: che ella non s’intendeva. Ma attestarono al mondo che ella s’intendesse benissimo uomini dottissimi della cittá, i quali l’approvarono pubblicamente e la lodarono con gravitá e con efficacia, i cui elogi si leggono nell’opera medesima 5.

Tra queste cose una lettera dal signor Giovan Clerico fu scritta all’auttore del tenore che siegue 6:

Accepi, vir clarissime, ante perpaucos dies ab ephoro illustrissimi comitis Wildenstein opus tuum de origine iuris et philologia, quod, cum essem Ultraiecti, vix leviter evolvere potui. Coactus enim negotiis quibusdam Amstelodamum redire, non satis mihi fuit temporis ut tam limpido fonte me proluere possem, Festinante tamen oculo vidi multa et egregia, tum philosophica tum etiam philologica, quae mihi occasionem praebebunt ostendendi nostris septentrionalibus eruditis acumen atque eruditionem non minus apud italos inveniri quam apud ipsos; imo vero doctiora et acutiora dici ab italis quam quae a frigidiorum orarum incolis expectari queant. Cras vero Ultraiectum rediturus sum, ut illic perpaucas

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hebdomadas morer utque me opere tuo satiem in illo secessu, in quo minus quam Amstelodami interpellor. Cum mentem tuam probe adsequutus fuero, tum vero in voluminis XVIII> Bibliotecae antiquae et hodiernae parte altera ostendam quanti sit faciendum 7. Vale, vir clarissime, meque inter egregiae tuae eruditionis iustos aestimatores numerato 8. Dabam, festinanti manu, Amstelodami, ad diem VIII septembris MDCCXXII.

Quanto questa lettera rallegrò i valenti uomini che avevano giudicato a pro dell’opera del Vico, altrettanto dispiacque a coloro che ne avevano sentito il contrario. Quindi si lusingavano che questo era un privato complimento del Clerico, ma, quando egli ne darebbe il giudizio pubblico nella Biblioteca, allora ne giudicherebbe conforme a essoloro pareva di giustizia; dicendo esser impossibile che con l’occasione di quest’opera del Vico volesse il Clerico cantare la palinodia di quello che egli, presso a cinquant’anni, ha sempre detto: che in Italia non si lavoravano opere le quali per ingegno e per dottrina potessero stare a petto di quelle che uscivano da oltramonti. E ’l Vico frattanto, per appruovare al mondo che esso amava sí la stima degli uomini eccellenti, ma non giá la faceva fine e méta de’ suoi travagli, lesse tutti e due i poemi d’Omero con l’aspetto de’ suoi princípi di filologia, e, per certi canoni mitologici che ne aveva concepiti, li fa vedere in altra comparsa di quello con la quale sono stati finora osservati, e divinamente esser tessuti sopra due subbietti due gruppi di greche istorie dei tempi oscuro ed eroico secondo la division di Varrone. Le quali lezioni omeriche,

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insieme con essi canoni, diede fuori pur dalle stampe del Mosca in quarto foglio l’anno seguente 1722, con questo titolo: Iohannis Baptistae Vici Notae in duos libros, alterum De universi iuris principio, alterum De constantia iurisprudentis.

Poco dipoi vacò la cattedra primaria mattutina di leggi, minor della vespertina, con salario di scudi seicento l’anno; e ’l Vico, destato in isperanza di conseguirla da questi meriti che si sono narrati particolarmente in materia di giurisprudenza, li quali egli si aveva perciò apparecchiati inverso la sua universitá, nella quale esso è il piú anziano di tutti per ragione di possesso di cattedre, perché esso solo possiede la sua per intestazione di Carlo secondo, e tutti gli altri le possiedono per intestazioni piú fresche; ed affidato nella vita che aveva menato nella sua patria, dove con le sue opere d’ingegno aveva onorato tutti, giovato a molti e nociuto a nessuno; il giorno avanti, come egli è uso, aperto il Digesto vecchio, sopra del quale dovevan sortire quella volta le leggi, egli ebbe in sorte queste tre: una sotto il titolo De rei vindicatione, un’altra sotto il titolo De peculio, e la terza fu la legge prima sotto il titolo De praescriptis verbis. E perché tutti e tre erano testi abbondanti, il Vico, per mostrare a monsignor Vidania, prefetto degli studi, una pronta facoltá di fare quel saggio, quantunque giammai avesse professato giurisprudenza, il priegò che avessegli fatto l’onore di determinargli l’un de’ tre luoghi ove a capo le ventiquattro ore doveva fare la lezione. Ma il prefetto scusandosene, esso si elesse l’ultima legge, dicendo il perché quella era di Papiniano, giureconsulto sopra tutt’altri di altissimi sensi, ed era in materia di diffinizioni di nomi di leggi, che è la piú difficile impresa da ben condursi in giurisprudenza; prevedendo che sarebbe stato audace ignorante colui che l’avesse avuto a calonniare perché si avesse eletto tal legge, perché tanto sarebbe stato quanto riprenderlo perché egli si avesse eletto materia cotanto difficile; talché Cuiacio, ove egli diffinisce nomi di legge, s’insuperbisce con merito e dice che vengan tutti ad impararlo da lui, come fa ne’ Paratitli de’ Digesti (De codicillis), e non per altro ei riputa Papiniano principe de’ giureconsulti romani che perché niuno meglio di

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lui diffinisca e niuno ne abbia portato in maggior copia migliori diffinizioni in giurisprudenza.

Avevano i competitori poste in quattro cose loro speranze, nelle quali come scogli il Vico dovesse rompere. Tutti, menati dalla interna stima che ne avevano, credevan certamente che egli avesse a fare una magnifica e lunga prefazion de’ suoi meriti inverso l’universitá. Pochi, i quali intendevano ciò che egli arebbe potuto, auguravano che egli ragionerebbe sul testo per gli suoi Princípi del dritto universale, onde con fremito dell’udienza arebbe rotte le leggi stabilite di concorrere in giurisprudenza. Gli piú, che stimano solamente maestri della facoltá coloro che l’insegnano a giovani, si lusingavano o che, ella essendo una legge dove Ottomano aveva detto di molta erudizione, egli con Ottomano vi facesse tutta la sua comparsa, o che, su questa legge avendo Fabbro attaccato tutti i primi lumi degl’interpetri e non essendovi stato alcuno appresso che avesse al Fabbro risposto, il Vico arebbe empiuta la lezione di Fabbro e non l’arebbe attaccato. Ma la lezione del Vico riuscí tutta fuori della loro aspettazione, perché egli vi entrò con una brieve, grave e toccante invocazione; recitò immediatamente il principio della legge, sul quale e non negli altri suoi paragrafi restrinse la sua lezione; e, doppo ridotta in somma e partita, immediatamente in una maniera quanto nuova ad udirsi in sí fatti saggi cotanto usata da’ romani giureconsulti, che da per tutto risuonano: «Ait lex», «Ait senatusconsultum», «Ait praetor», con somigliante formola «Ait iurisconsultus» interpetrò le parole della legge una per una partitamente, per ovviare a quell’accusa che spesse volte in tai concorsi si ode, che egli avesse punto dal testo divagato, perché sarebbe stato affatto ignorante maligno alcuno che avesse voluto scemarne il pregio perché egli l’avesse potuto fare sopra un principio di titolo, perché non sono giá le leggi ne’ Pandetti disposte con alcun metodo scolastico d’instituzioni, e, come egli fu in quel principio allogato Papiniano, poteva ben altro giureconsulto allogarsi, che con altre parole ed altri sentimenti avesse data la diffinizione dell’azione che ivi si tratta. Indi dalla interpetrazione delle parole

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tragge il sentimento della diffinizione papinianea, l’illustra con Cuiacio, indi la fa vedere conforme a quella degl’interpetri greci. Immediatamente appresso si fa incontro al Fabbro, e dimostra con quanto leggieri o cavillose o vane ragioni egli riprende Accursio, indi Paolo di Castro, poi gl’interpetri oltramontani antichi, appresso Andrea Alciato; ed avendo dinanzi, nell’ordine de’ ripresi da Fabbro, preposto Ottomano a Cuiacio, nel seguirlo si dimenticò di Ottomano e, dopo Alciato, prese Cuiacio a difendere; di che avvertito, trappose queste parole: «Sed memoria lapsus Cuiacium Othmano praeverti; at mox, Cuiacio absoluto, Hotmanum a Fabro vindicabimus». Tanto egli aveva poste speranze di fare con Ottomano il concorso! Finalmente, sul punto che veniva alla difesa di Ottomano, l’ora della lezione finí.

Egli la pensò fino alle cinque ore della notte antecedente, in ragionando con amici e tra lo strepito de’ suoi figliuoli, come ha uso di sempre o leggere o scrivere o meditare. Ridusse la lezione in sommi capi, che si chiudevano in una pagina, e la porse con tanta facilitá come se non altro avesse professato tutta la vita, con tanta copia di dire che altri v’arebbe aringato due ore, col fior fiore dell’eleganze legali della giurisprudenza piú colta e co’ termini dell’arte anche greci, ed ove ne abbisognava alcuno scolastico, piú tosto il disse greco che barbaro. Una sol volta, per la difficoltá della voce προγεγραμμένων, egli si fermò alquanto; ma poi soggiunse: «Ne miremini me substitisse, ipsa enim verbi ἀντιτυπία me remorata est»; tanto che parve a molti fatto a bella posta quel momentaneo sbalordimento, perché con un’altra voce greca sí propia ed elegante esso si fosse rimesso. Poi il giorno appresso la stese quale l’aveva recitata e ne diede essemplari, fra gli altri, al signor don Domenico Caravita, avvocato primario di questi suppremi tribunali, degnissimo figliuolo del signor don Nicolò, il quale non vi poté intervenire.

Stimò soltanto il Vico portare a questa pretensione i suoi meriti e ’l saggio della lezione, per lo cui universal applauso era stato posto in isperanza di certamente conseguire la cattedra; quando egli, fatto accorto dell’infelice evento, qual in fatti riuscí

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anche in persona di coloro che erano immediatamente per tal cattedra graduati, perché non sembrasse delicato o superbo di non andar attorno, di non priegare e fare gli altri doveri onesti de’ pretensori, col consiglio ed auttoritá di esso signor don Domenico Caravita, sapiente uomo e benvoglientissimo suo, che gli appruovò che a esso conveniva tirarsene, con grandezza di animo andò a professare che si ritraeva dal pretenderla.

Questa dissavventura del Vico, per la quale disperò per l’avvenire aver mai piú degno luogo nella sua patria, fu ella consolata dal giudizio del signor Giovan Clerico, il quale, come se avesse udite le accuse fatte da taluni alla di lui opera, cosí nella seconda parte del volume XVIII della Biblioteca antica e moderna, all’articolo VIII, con queste parole, puntualmente dal francese tradotte, per coloro che dicevano non intendersi, giudica generalmente: che l’opera è «ripiena di materie recondite, di considerazioni assai varie, scritta in istile molto serrato»; che infiniti luoghi avrebbono bisogno di ben lunghi estratti; è ordita con «metodo mattematico», che «da pochi princípi tragge infinitá di conseguenze»; che bisogna leggersi con attenzione, senza interrompimento, da capo a piedi, ed avvezzarsi alle sue idee ed al suo stile; cosí, col meditarvi sopra, i leggitori «vi truoveranno di piú, col maggiormente innoltrarsi, molte scoverte e curiose osservazioni fuor di loro aspettativa». Per quello onde fe’ tanto romore la terza parte della dissertazione, per quanto riguarda la filosofia dice cosí: «Tutto ciò che altre volte è stato detto de’ princípi della divina ed umana erudizione, che si truova uniforme a quanto è stato scritto nel libro precedente, egli è di necessitá vero». Per quanto riguarda alla filologia, egli cosí ne giudica: «Egli ci dá in accorcio le principali epoche dopo il diluvio infino al tempo che Annibale portò la guerra in Italia; perché egli discorre in tutto il corpo del libro sopra diverse cose che seguirono in questo spazio di tempo, e fa molte osservazioni di filologia sopra un gran numero di materie, emendando quantitá di errori vulgari, a’ quali uomini intendentissimi non hanno punto badato». E finalmente conchiude per tutti: «Vi si vede una

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mescolanza perpetua di materie filosofiche, giuridiche e filologiche, poiché il signor Vico si è particolarmente applicato a queste tre scienze e le ha ben meditate, come tutti coloro che leggeranno le sue opere converranno in ciò. Tra queste tre scienze vi ha un sí forte ligame che non può uom vantarsi di averne penetrata e conosciuta una in tutta la sua distesa senza averne altresí grandissima cognizione dell’altre. Quindi è che alla fine del volume vi si veggono gli elogi che i savi italiani han dato a quest’opera, per cui si può comprendere che riguardano l’auttore come intendentissimo della metafisica, della legge e della filologia, e la di lui opera come un originale pieno d’importanti discoverte».

Ma non altronde si può intendere apertamente che ’l Vico è nato per la gloria della patria e in conseguenza dell’Italia, perché quivi nato e non in Marocco esso riuscí letterato, che da questo colpo di avversa fortuna, onde altri arebbe rinunziato a tutte le lettere, se non pentito di averle mai coltivate, egli non si ritrasse punto di lavorare altre opere. Come in effetto ne aveva giá lavorata una divisa in due libri, ch’arebbono occupato due giusti volumi in quarto: nel primo de’ quali andava a ritrovare i princípi del diritto naturale delle genti dentro quegli dell’umanitá delle nazioni, per via d’inverisimiglianze, sconcezze ed impossibilitá di tutto ciò che ne avevano gli altri inanzi piú immaginato che raggionato; in conseguenza del quale, nel secondo, egli spiegava la generazione de’ costumi umani con una certa cronologia raggionata di tempi oscuro e favoloso de’ greci, da’ quali abbiamo tutto ciò ch’abbiamo delle antichitá gentilesche. E giá l’opera era stata riveduta dal signor don Giulio Torno, dottissimo teologo della chiesa napoletana, quando esso — riflettendo che tal maniera negativa di dimostrare quanto fa di strepito nella fantasia tanto è insuave all’intendimento, poiché con essa nulla piú si spiega la mente umana; ed altronde per un colpo di avversa fortuna, essendo stato messo in una necessitá di non poterla dare alle stampe, e perché pur troppo obbligato dal propio punto di darla fuori, ritrovandosi aver promesso di

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pubblicarla — ristrinse tutto il suo spirito in un’aspra meditazione per ritrovarne un metodo positivo, e sí piú stretto e quindi piú ancora efficace.

E nel fine dell’anno 1725 diede fuori in Napoli, dalle stampe di Felice Mosca, un libro in dodicesimo di dodeci fogli, non piú, in carattere di testino, con titolo: Princípi di una Scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, per li quali si ritruovano altri princípi del diritto naturale delle genti, e con uno elogio l’indirizza alle universitá dell’Europa. In quest’opera egli ritruova finalmente tutto spiegato quel principio, ch’esso ancor confusamente e non con tutta distinzione aveva inteso nelle sue opere antecedenti. Imperciocché egli appruova una indispensabile necessitá, anche umana, di ripetere le prime origini di tal Scienza da’ princípi della storia sacra, e, per una disperazione dimostrata cosí da’ filosofi come da’ filologi di ritrovarne i progressi ne’ primi auttori delle nazioni gentili, esso — facendo piú ampio, anzi un vasto uso di uno de’ giudizi che ’l signor Giovanni Clerico avea dato dell’opera antecedente, che ivi egli «per le principali epoche ivi date in accorcio dal diluvio universale fino alla seconda guerra di Cartagine, discorrendo sopra diverse cose che seguirono in questo spazio di tempo, fa molte osservazioni di filologia sopra un gran numero di materie, emendando quantitá di errori volgari, a’ quali uomini intendentissimi non hanno punto badato» — discuopre questa nuova Scienza in forza di una nuova arte critica da giudicare il vero negli auttori delle nazioni medesime dentro le tradizioni volgari delle nazioni che essi fondarono, appresso i quali doppo migliaia d’anni vennero gli scrittori, sopra i quali si ravvoglie questa critica usata; e, con la fiaccola di tal nuova arte critica, scuopre tutt’altre da quelle che sono state immaginate finora le origini di quasi tutte le discipline, sieno scienze o arti, che abbisognano per raggionare con idee schiarite e con parlari propi del diritto naturale delle nazioni. Quindi egli ne ripartisce i princípi in due parti, una delle idee, un’altra delle lingue. E per quella dell’idee, scuopre altri princípi storici di cronologia e geografia, che sono i due occhi della storia, e quindi i princípi

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della storia universale, c’han mancato finora. Scuopre altri princípi storici della filosofia, e primieramente una metafisica del genere umano, cioè una teologia naturale di tutte le nazioni, con la quale ciascun popolo naturalmente si finse da se stesso i suoi propi dèi per un certo istinto naturale che ha l’uomo della divinitá, col cui timore i primi auttori delle nazioni si andarono ad unire con certe donne in perpetua compagnia di vita, che fu la prima umana societá de’ matrimoni; e sí scuopre essere stato lo stesso il gran princípio della teologia de’ gentili e quello della poesia de’ poeti teologi, che furono i primi nel mondo e quelli di tutta l’umanitá gentilesca. Da cotal metafisica scuopre una morale e quindi una politica commune alle nazioni, sopra le quali fonda la giurisprudenza del genere umano variante per certe sètte de’ tempi, sí come esse nazioni vanno tuttavia piú spiegando l’idee della loro natura, in conseguenza delle quali piú spiegate vanno variando i governi, l’ultima forma de’ quali dimostra essere la monarchia, nella quale vanno finalmente per natura a riposare le nazioni. Cosí supplisce il gran vuoto che ne’ suoi princípi ne ha lasciato la storia universale, la quale incomincia in Nino dalla monarchia degli assiri. Per la parte delle lingue, scuopre altri princípi della poesia e del canto e de’ versi, e dimostra essere quella e questi nati per necessitá di natura uniforme in tutte le prime nazioni. In séguito di tai princípi scuopre altre origini dell’imprese eroiche, che fu un parlar mutolo di tutte le prime nazioni in tempi diformati di favelle articolate. Quindi scuopre altri princípi della scienza del blasone, che ritruova esser gli stessi che quegli della scienza delle medaglie, dove osserva eroiche di quattromill’anni di continuata sovranitá le origini delle due case d’Austria e di Francia. Fra gli effetti della discoverta delle origini delle lingue ritruova certi princípi communi a tutte, e per un saggio scuopre le vere cagioni della lingua latina, e al di lei essemplo lascia agli eruditi a farlo delle altre tutte; dá un’idea di un etimologico commune a tutte le lingue natie, un’altra di altro etimologico;
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delle voci di origine straniera, per ispiegare finalmente un’idea d’un etimologico universale per la scienza della lingua necessaria a raggionare con propietá del diritto naturale delle genti. Con sí fatti princípi sí d’idee come di lingue, che vuol dire con tal filosofia e filologia del gener umano, spiega una storia ideale eterna sull’idea della providenza, dalla quale per tutta l’opera dimostra il diritto naturale delle genti ordinato; sulla quale storia eterna corrono in tempo tutte le storie particolari delle nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini. Sí che esso dagli egizi, che motteggiavano i greci che non sapessero di antichitá, con dir loro che erano sempre fanciulli, prende e fa uso di due gran rottami di antichitá: uno, che tutti i tempi scorsi loro dinanzi essi divisero in tre epoche, una dell’etá degli dèi, l’altra dell’etá degli eroi, la terza di quella degli uomini; l’altro che con questo stesso ordine e numero di parti in altretanta distesa di secoli si parlarono inanzi ad essoloro tre lingue: una divina, muta, per geroglifici o sieno caratteri sacri; un’altra simbolica o sia per metafore, qual è la favella eroica; la terza epistolica per parlari convenuti negli usi presenti della vita. Quindi dimostra la prima epoca e lingua essere state nel tempo delle famiglie, che certamente furono appo tutte le nazioni inanzi delle cittá e sopra le quali ognun confessa che sorsero le cittá, le quali famiglie i padri da sovrani príncipi reggevano sotto il governo degli dèi, ordinando tutte le cose umane con gli auspíci divini, e con una somma naturalezza e semplicitá ne spiega la storia dentro le favole divine de’ greci. Quivi osservando che gli dèi d’Oriente, che poi da’ caldei furono innalzati alle stelle, portati da’ fenici in Grecia (lo che dimostra esser avvenuto dopo i tempi d’Omero), vi ritruovarono acconci i nomi dei dèi greci a ricevergli, sí come poi, portati nel Lazio, vi ritruovarono acconci i nomi dei dèi latini. Quindi dimostra cotale stato di cose, quantunque in altri dopo altri, essere corso egualmente tra latini, greci ed asiani. Appresso dimostra la seconda epoca con la seconda lingua simbolica essere state nel tempo de’ primi governi civili, che dimostra essere stati
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di certi regni eroici o sia d’ordini regnanti de’ nobili, che gli antichissimi greci dissero «razze erculee», riputate di origine divina sopra le prime plebi, tenute da quelli di origine bestiale; la cui storia egli spiega con somma facilitá descrittaci da’ greci tutta nel carattere del loro Ercole tebano, che certamente fu il massimo de’ greci eroi, della cui razza furono certamente gli Eraclidi, da’ quali sotto due re si governava il regno spartano, che senza contrasto fu aristocratico. Ed avendo egualmente gli egizi e greci osservato in ogni nazione un Ercole, come de’ latini ben quaranta ne giunse a numerare Varrone, dimostra dopo degli dèi aver regnato gli eroi da per tutte le nazioni gentili e, per un gran frantume di greca antichitá, che i cureti uscirono di Grecia in Creta, in Saturnia, o sia Italia, ed in Asia; scuopre questi essere stati i quiriti latini, di cui furono una spezie i quiriti romani, cioè uomini armati d’aste in adunanza; onde il diritto de’ quiriti fu il diritto di tutte le genti eroiche. E dimostrata la vanitá della favola della legge delle XII tavole venuta da Atene, scuopre che sopra tre diritti nativi delle genti eroiche del Lazio, introdotti ed osservati in Roma e poi fissi nelle tavole, reggono le cagioni del governo, virtú e giustizia romana in pace con le leggi e in guerra con le conquiste; altrimenti la romana storia antica, letta con l’idee presenti, ella sia piú incredibile di essa favolosa de’ greci; co’ quali lumi spiega i veri princípi della giurisprudenza romana. Finalmente dimostra la terza epoca dell’etá degli uomini e delle lingue volgari essere nei tempi dell’idee della natura umana tutta spiegata e ravisata quindi uniforme in tutti; onde tal natura si trasse dietro forme di governi umani, che pruova essere il popolare e ’l monarchico, della qual setta de’ tempi furono i giureconsulti romani sotto gl’imperadori. Tanto che viene a dimostrare le monarchie essere gli ultimi governi in che si ferman finalmente le nazioni; e che sulla fantasia che i primi re fussero stati monarchi quali sono i presenti, non abbiano affatto potuto incominciare le repubbliche; anzi con la froda e con la forza, come si è finora immaginato, non abbiano potuto affatto cominciare
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le nazioni. Con queste ed altre discoverte minori, fatte in gran numero, egli raggiona del diritto naturale delle genti, dimostrando a quali certi tempi e con quali determinate guise nacquero la prima volta i costumi che forniscono tutta l’iconomia di cotal diritto, che sono religioni, lingue, domíni, commerzi, ordini, imperi, leggi, armi, giudizi, pene, guerre, paci, alleanze, e da tali tempi e guise ne spiega l’eterne propietá che appruovano tale e non altra essere la loro natura o sia guisa e tempo di nascere; osservandovi sempre essenziali differenze tra gli ebrei e gentili: che quelli da principio sorsero e stieron fermi sopra pratiche di un giusto eterno, ma le pagane nazioni, conducendole assolutamente la providenza divina, vi sieno ite variando con costante uniformitá per tre spezie di diritti, corrispondenti alle tre epoche e lingue degli egizi: il primo, divino, sotto il governo del vero Dio appo gli ebrei e di falsi dèi tra’ gentili; il secondo, eroico, o propio degli eroi, posti in mezzo agli dèi e gli uomini; il terzo, umano, o della natura umana tutta spiegata e riconosciuta eguale in tutti, dal quale ultimo diritto possono unicamente provenire nelle nazioni i filosofi, i quali sappiano compierlo per raziocini sopra le massime di un giusto eterno. Nello che hanno errato di concerto Grozio, Seldeno e Pufendorfio, i quali per difetto di un’arte critica sopra gli autori delle nazioni medesime, credendogli sapienti di sapienza riposta, non videro che a’ gentili la providenza fu la divina maestra della sapienza volgare, dalla quale tra loro, a capo di secoli uscí la sapienza riposta; onde han confuso il diritto naturale delle nazioni, uscito coi costumi delle medesime, col diritto naturale de’ filosofi, che quello hanno inteso per forza de’ raziocini, senza distinguervi con un qualche privilegio un popolo eletto da Dio per lo suo vero culto, da tutte le altre nazioni perduto. Il qual difetto della stessa arte critica aveva tratto, inanzi, gl’interpetri eruditi della romana ragione che sulla favola delle leggi venute di Atene intrusero, contro il di lei genio, nella giurisprudenza romana le sètte de’ filosofi, e spezialmente degli stoici ed epicurei, de’ cui princípi non vi è cosa piú contraria a quelli, non che di essa giurisprudenza, di tutta
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la civiltá; e non seppero trattarla per le di lei sètte propie, che furono quelle de’ tempi, come apertamente professano averla trattata essi romani giureconsulti.

Con la qual opera il Vico, con gloria della cattolica religione, produce il vantaggio alla nostra Italia di non invidiare all’Olanda, l’Inghilterra e la Germania protestante i loro tre príncipi di questa scienza, e che in questa nostra etá nel grembo della vera Chiesa si scuoprissero i princípi di tutta l’umana e divina erudizione gentilesca. Per tutto ciò ha avuto il libro la fortuna di meritare dall’eminentissimo cardinale Lorenzo Corsini, a cui sta dedicato, il gradimento con questa non ultima lode: «Opera, al certo, che per antichitá di lingua e per solidezza di dottrina basta a far conoscere che vive anche oggi negl’italiani spiriti non meno la nativa particolarissima attitudine alla toscana eloquenza che il robusto felice ardimento a nuove produzioni nelle piú difficili discipline; onde io me ne congratulo con cotesta sua ornatissima patria».

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II Aggiunta fatta dal Vico alla sua Autobiografia. (1731)

Uscita alla luce la Scienza nuova, tra gli altri ebbe cura l’autore di mandarla al signor Giovanni Clerico ed eleggé via piú sicura per Livorno, ove l’inviò, con lettera a quello indiritta 9, in un pachetto al signor Giuseppe Attias, con cui aveva contratto amicizia qui in Napoli, il piú dotto riputato tra gli ebrei di questa etá nella scienza della lingua santa, come il dimostra il Testamento vecchio con la di lui lezione stampato in Amsterdam, opera fatta celebre nella repubblica delle lettere. Il quale con la seguente risposta 10 ne ricevé gentilmente l’impiego:

Non saprei esprimere il piacere da me provato nel ricevere l’amorevolissima lettera di V. S. illustrissima del 3 novembre, la quale mi ha rinovato la rimembranza del mio felice soggiorno in cotesta amenissima cittá: basta dire che costá mi trovai sempre colmo di favori e di grazie compartitemi da quei celebri letterati, e particolarmente dalla gentilissima sua persona, che mi ha onorato delle sue eccellenti e sublimi opere; vanto ch’io mi son dato con gli amici della mia conversazione e letterati che doppo ho praticato ne’ miei viaggi d’Italia e Francia 11. Manderò il pacchetto e lettera

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del signor Clerico, per fargliele recapitare in mano propria da un mio amico di Amsterdam; ed allora averò adempito i miei doveri ed eseguito i pregiati comandi di Vostra Signoria illustrissima, alla di cui gentilezza rendo infinite grazie per l’essemplare mi dona, il quale si è letto nella nostra conversazione, e ammirato la sublimitá della materia e copia di nuovi pensieri, che, come dice il signor Clerico [che doveva egli aver letto nell’accennata Biblioteca 12], oltre il diletto e proffitto che se ne ricava da tutte le sue opere lette attentamente, dá motivo di pensare a molte cose per raritá e sublimitá peregrine e grandi. Chiudo pregandola a portar i miei ossequiosi saluti al padre Sostegni.

Ma neppure 13 di questa il Vico ebbe alcuno riscontro, forse perché il signor Clerico o fusse morto o per la vecchiezza avesse rinnonziato alle lettere ed alle corrispondenze letterarie.

Tra questi studi severi non mancarono al Vico delle occasioni di esercitarsi anco negli ameni; come, venuto in Napoli il re Filippo quinto, ebbe egli ordine dal signor duca d’Ascalona, ch’allora governava il Regno di Napoli, portatogli dal signor Serafino Biscardi, innanzi sublime avvocato, allora regente di cancellaria, ch’esso, come regio lettore d’eloquenza, scrivesse una orazione nella venuta del re; e l’ebbe appena otto giorni avanti di dipartirsi, talché dovettela scrivere sulle stampe, che va in dodicesimo col titolo: Panegyricus Philippo V Hispaniarum regi inscriptus>.

Appresso, ricevutosi questo Reame al dominio austriaco, dal signor conte Wirrigo di Daun, allora governatore dell’armi cesaree in questo Regno, con questa onorevolissima lettera ebbe il seguente ordine:

Molto magnifico signor Giovan Battista di Vico, catedratico ne’ reali Studi di Napoli. — Avendomi ordinato S. M. cattolica

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(Dio guardi) di far celebrare i funerali alli signori don Giuseppe Capece e don Carlo di Sangro con pompa proporzionata alla sua reale magnificenza ed al sommo valore de’ cavalieri defonti, si è commesso al padre don Benedetto Laudati, priore benedettino, che vi componesse l’orazione funebre, e dovendosi fare gli altri componimenti per le iscrizioni, persuaso dello stile pregiato di Vostra Signoria, ho pensato di commettere al suo approvato ingegno tale materia, assicurandola che, oltre l’onore sará per conseguire in sí degna opera, mi resterá viva la memoria delle sue nobili fatiche. E desiderando d’essergli utile in qualche suo vantaggio, gli auguro dal cielo tutto il bene. Di Vostra Signoria, molto magnifico signore,

Da questo Palazzo in Napoli, a 11 ottobre 1707

(di propia mano)

affezionato servidore
Conte di Daun.

Cosí esso vi fece l’iscrizioni, gli emblemi e motti sentenziosi e la relazione di que’ funerali, e ’l padre prior Laudati, uomo d’aurei costumi e molto dotto di teologia e di canoni, vi recitò l’orazione, che vanno in un libro figurato in foglio, magnificamente stampato a spese del real erario col titolo: Acta funeris Caroli Sangrii et Iosephi Capycii.

Non passò lungo tempo che, per onorato comando del signor conte Carlo Borromeo viceré, fece l’iscrizioni ne’ funerali che nella real cappella si celebrarono per la morte di Giuseppe imperadore.

Quindi l’avversa fortuna volle ferirlo nella stima di letterato; ma, perché non era cosa di sua ragione, tal avversitá fruttògli un onore, il qual nemmeno è lecito desiderarsi da suddito sotto la monarchia. Dal signor cardinale Wolfango di Scrotembac, viceré, ne’ funerali dell’imperadrice Elionora fu comandato di fare le seguenti iscrizioni, le quali esso concepí con tal condotta che, sceverate, ognuna vi reggesse da sé e, tutte insieme, vi componessero una orazion funerale. Quella che

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doveva venire sopra la porta della real cappella, al di fuori, contiene il proemio:

Helionorae augustae — e ducum neoburgensium domo — Leopoldi caes. uxori lectissimae — Carolus VI Austrius roman. imperator Hispan. et Neap. rex — parenti optimae — iusta persolvit — reip. hilaritas princeps — luget — huc — publici luctus officia conferte — cives.

La prima delle quattro ch’avevano da fissarsi sopra i quattro archi della cappella, contiene le lodi:

Qui oculis hunc tumulum inanem spectas — re mente inanem cogita — namque inter regiae fortunae delicias fluxae voluptatis fuga — in fastigio muliebris dignitatis sui ad imam usque conditionem demissio — inter generis humani mortales cultus aeternarum rerum diligentia — quae — Helionora augusta defuncta — ubique in terris iacent — heic — supremis honoribus cumulantur.

La seconda spiega la grandezza della perdita:

Si digni in terris reges — qui exemplis magis quam legibus — populorum ac gentium corruptos emendant mores — et rebuspp. civilem conservant felicitatem — Helionora — ut augusti coniugii sorte ita virtute — foemina in orbe terrarum vere primaria — quae uxor materque caesarum — vitae sanctimonia imperii christiani beatitudini — pro muliebri parte quamplurimum contulit — animitus eheu dolenda optimo cuique iactura!

La terza desta il dolore:

Qui summam — ex Carolo caesare principe optimo — capitis voluptatem — cives — ex Helionora eius augusta matre defuncta — aeque tantum capiatis dolorem — quae felici foecunditate — quod erat optandum — ex Austria domo vobis principem dedit — et raris ac praeclaris regiarum virtutum exemplis — quod erat maxime optandum — vobis optimum dedit.

La quarta ed ultima porge la consolazione:

Cum lachrymis — nuncupate conceptissima vota — cives — ut — Helionorae — recepta coelo mens — qualem ex se dedit Leopoldo — talem ex Elisabetha augusta Carolo imp. — a summo Numine — impetret sobolem — ne sui desiderium perpetuo amarissimum — christiano terrarum orbi — relinquat.

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Sí fatte iscrizioni poi non si alzarono. Però, appena era passato il primo giorno de’ funerali, che il signor don Niccolò d’Afflitto, gentilissimo cavaliere napoletano, prima facondo avvocato ed allora auditor dell’esercito (e privava appo ’l signor cardinale, la quale gran confidenza, con le grandi fatighe, portògli appresso la morte, che fu da tutti i buoni compianta), egli volle in ogni conto dal Vico che la sera si facesse ritruovare in casa per fargli esso una visita, nella quale gli disse queste parole: — Io ho lasciato di trattare col signor viceré un affare gravissimo per venir qua, ed or quindi ritornerò in Palazzo per riattaccarlo; — e tra ’l ragionare, che durò molto poco, dissegli: — Il signor cardinale mi ha detto che grandemente gli dispiaceva questa disgrazia che vi è immeritevolmente accaduta. — Allo che questi rispose che rendeva infinite grazie al signor cardinale di tanta altezza d’animo, propia di grande, usata inverso d’un suddito, la cui maggior gloria è l’ossequio verso del principe.

Tra queste molte occasioni luttuose vennegli una lieta nelle nozze del signor don Giambattista Filomarino, cavaliere di pietá, di generositá, di gravi costumi e di senno ornatissimo, con donna Maria Vittoria Caracciolo de’ marchesi di Sant’Eramo; e nella raccolta de’ Componimenti per ciò fatti, stampata in quarto, vi compose un epitalamio di nuova idea, ch’è d’un poema dramatico monodico col titolo di Giunone in danza, nel quale la sola Giunone, dea delle nozze, parla ed invita gli altri dèi maggiori a danzare, e a proposito del subbietto ragiona sui princípi della mitologia istorica che si è tutta nella Scienza nuova spiegata.

Sui medesimi princípi tessé una canzone pindarica, però in verso sciolto, dell’Istoria della poesia, da che nacque infino a’ dí nostri, indirizzata alla valorosa e saggia donna Marina Della Torre, nobile genovese, duchessa di Carignano.

E qui lo studio de’ buoni scrittori volgari ch’aveva fatto giovine, quantunque per tanti anni interrotto, gli diede la facultá, essendo vecchio, in tal lingua come di lavorare queste poesie cosí di tessere due orazioni, e quindi di scrivere con

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isplendore di tal favella la Scienza nuova. Delle orazioni la prima fu nella morte di Anna d’Aspromonte contessa di Althan, madre del signor cardinale d’Althan, allora viceré; la qual egli scrisse per esser grato ad un beneficio che avevagli fatto il signor don Francesco Santoro, allora segretario del Regno. Il qual, essendo giudice di Vicaria civile e commessario d’una causa d’un suo genero, che vi si trattò a ruote giunte, ove, due giorni di mercordí l’uno immediato all’altro (ne’ quali la Vicaria criminale si porta nel regio Collateral Consiglio a riferire le cause), il signor don Antonio Caracciolo marchese dell’Amorosa, allor regente di Vicaria (il cui governo della cittá per la di lui interezza e prudenza piacque a ben quattro signori viceré), per favorire il Vico, a bella posta vi si portò; a cui il signor Santoro la riferí talmente piena, chiara ed esatta, che gli risparmiò l’appuramento de’ fatti, per lo quale sarebbesi di molto prolungata e strappata dall’avversario la causa. La qual esso Vico ragionò a braccio con tanta copia, che contro un istrumento di notaio vivente vi ritruovò ben trentasette congetture di falsitá, le quali dovette ridurre a certi capi per ragionarla con ordine e, in forza dell’ordine, ritenerle tutte a memoria. E la porse cosí tinta di passione, che tutti quei signori giudicanti per loro somma bontá non solo non aprirono bocca per tutto il tempo ch’egli ragionava la causa, ma non si guardarono in faccia l’uno con l’altro; e nel fine il signor regente sentissi cosí commuovere che, temprando l’affetto con la gravitá propia di sí gran maestrato, diede un segno degnamente mescolato e di compassione inverso il reo e di disdegno contro l’attore: laonde la Vicaria, la qual è alquanto ristretta in render ragione, senza essersi pruovata criminalmente la falsitá, assolvette il convenuto.

Per tal cagione il Vico scrisse la orazione sudetta, che va nella raccolta de’ Componimenti che ne fece esso signor Santoro, stampata in quarto foglio. Dove, con l’occasione di due signori figliuoli di sí santa principessa i quali s’impiegarono nella guerra fatta per la successione della monarchia di Spagna, vi fa una digressione con uno stile mezzo tra quello della prosa

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e quello del verso (qual dee essere lo stile istorico, secondo l’avviso di Cicerone nella brieve e succosa idea che dá di scriver la storia, che deve ella adoperare «verba ferme poëtarum», forse per mantenersi gli storici nell’antichissima loro possessione, la quale si è pienamente nella Scienza nuova dimostrata, che i primi storici delle nazioni furono i poeti); e la vi comprende tutta nelle sue cagioni, consigli, occasioni, fatti e conseguenze, e per tutte queste parti la pone ad esatto confronto della guerra cartaginese seconda, ch’è stata la piú grande fatta mai nella memoria de’ secoli, e la dimostra essere stata maggiore. Della qual digressione il principe signor don Giuseppe Caracciolo de’ marchesi di Sant’Eramo, cavaliero di gravi costumi e saviezza e di buon gusto di lettere, con molta grazia diceva voler esso chiuderla in un gran volume di carta bianca, intitolato al di fuori: Istoria della guerra fatta per la monarchia di Spagna.

L’altra orazione fu scritta nella morte di donna Angiola Cimini marchesana della Petrella, la qual valorosa e saggia donna, nelle conversazioni che ’n quella casa sono onestissime e ’n buona parte di dotti uomini, cosí negli atti come ne’ ragionamenti insensibilmente spirava ed ispirava gravissime virtú morali e civili; onde coloro che vi conversavano erano, senz’avvedersene, portati naturalmente a riverirla con amore ed amarla con riverenza. Laonde, per trattare con veritá e degnitá insieme tal privato argomento: «ch’ella con la sua vita insegnò il soave‐austero della virtú», il Vico vi volle fare sperienza quanto la dilicatezza de’ sensi greci potesse comportare il grande dell’espressioni romane, e dell’una e dell’altro fusse capace l’italiana favella. Va in una raccolta in quarto foglio ingegnosamente magnifica, dove le prime lettere di ciascun autore sono figurate in rame, con emblemi ritruovati dal Vico ch’alludono al subietto. Vi scrisse l’introduzione il padre don Roberto Sostegni, canonico lateranense fiorentino, uomo che e per le migliori lettere e per gli amabilissimi costumi fu la delizia di questa cittá; nel quale peccando di troppo l’umor della collera (che fecegli spesso mortali infermitá, e finalmente d’un ascesso

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fattogli nel fianco destro cagionògli la morte, con dolore universale di tutti che l’avevano conosciuto), egli l’emendava talmente con la sapienza che sembrava naturalmente esser mansuetissimo. Egli dal chiarissimo abate Anton Maria Salvini, di cui era stato scolare, sapeva di lingue orientali, della greca e molto valeva nella latina, particolarmente ne’ versi; nella toscana componeva con uno stile assai robusto alla maniera del Casa, e delle lingue viventi, oltre alla francese, ora fatta quasi comune, era inteso dell’inghilese, tedesca ed anche alquanto della turchesca; nella prosa era assai raziocinativo ed elegante. Portossi in Napoli con l’occasione, come pubblicamente per sua bontá il professava, d’aver letto il Diritto universale, che ’l Vico aveva mandato al Salvini; onde conobbe ch’in Napoli si coltiva una profonda e severa letteratura, e ’l Vico fu il primo che volle esso conoscere, con cui contrasse una stretta corrispondenza, per la quale or esso l’ha onorato di quest’elogio.

Circa questi tempi il signor conte Gianartico di Porcía, fratello del signor cardinale Leandro di Porcía, chiaro uomo e per letteratura e per nobiltá, avendo disegnato una via da indirizzarvi con piú sicurezza la gioventú nel corso degli studi, sulla vita letteraria di uomini celebri in erudizione e dottrina; egli tra’ napoletani che ne stimò degni, ch’erano al numero di otto (i quali non si nominano per non offender altri trallasciati dottissimi, i quali forse non erano venuti alla di lui cognizione), degnò d’annoverare il Vico, e con orrevolissima lettera scrittagli da Vinegia, tenendo la via di Roma per lo signor abate Giuseppe Luigi Esperti, mandò al signor Lorenzo Ciccarelli l’incombenza di proccurarlagli. Il Vico, tra per la sua modestia e per la sua fortuna, piú volte niegò di volerla scrivere; ma alle replicate gentil’istanze del signor Ciccarelli finalmente vi si dispose. E, come si vede, scrissela da filosofo; imperocché meditò nelle cagioni cosí naturali come morali e nell’occasioni della fortuna; meditò nelle sue, ch’ebbe fin da fanciullo, o inclinazioni o avversioni piú ad altre spezie di studi ch’ad altre; meditò nell’opportunitadi o nelle travversie onde fece o ritardò i suoi progressi; meditò, finalmente, in certi suoi sforzi

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di alcuni suoi sensi diritti, i quali poi avevangli a fruttare le riflessioni sulle quali lavorò l’ultima sua opera della Scienza nuova, la qual appruovasse tale e non altra aver dovuto essere la sua vita letteraria.

Frattanto la Scienza nuova si era giá fatta celebre per l’Italia, e particolarmente in Venezia, il cui signor residente in Napoli di quel tempo avevasi ritirato tutti gli esemplari ch’erano rimasti a Felice Mosca, che l’aveva stampata, con ingiognergli che quanti ne potesse piú avere, tutti gli portasse da essolui, per le molte richieste che ne aveva da quella cittá, laonde in tre anni era divenuta sí rada che un libretto di dodici fogli in dodicesimo fu comperato da molti due scudi ed ancor di vantaggio; quando finalmente il Vico riseppe che nella posta, la qual non solea frequentare, erano lettere a lui indiritte. Di queste una fu del padre Carlo Lodoli de’ Minori osservanti, teologo della serenissima repubblica di Venezia, che gli avea scritto in data de’ 15 di gennaio 1728, la qual si era nella posta trattenuta presso a sette ordinari. Con tal lettera egli lo invitava alla ristampa di cotal libro in Venezia nel seguente tenore:

Qui in Venezia con indicibil applauso corre per le mani de’ valentuomini il di lei profondissimo libro de’ Princípi di una Scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, e piú che ’l van leggendo, piú entrano in ammirazione e stima della vostra mente che l’ha composto. Con le lodi e col discorso andandosi sempre piú diffondendo la fama, viene piú ricercato, e, non trovandosene per cittá, se ne fa venire da Napoli qualch’esemplare; ma, riuscendo ciò troppo incomodo per la lontananza, son entrati in deliberazione alcuni di farla ristampar in Venezia. Concorrendo ancor io con tal parere, mi è parso proprio di prenderne innanzi lingua da Vostra Signoria, che è l’autore, prima per sapere se questo le fosse a grado, poi per veder ancora se avesse alcuna cosa da aggiungere o da mutare, e se compiacer si volesse benignamente comunicarmelo.

Avvalorò il padre cotal sua richiesta con altra acclusa alla sua del signor abate Antonio Conti nobile veneto, gran

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metafisico e mattematico, ricco di riposta erudizione e per gli viaggi letterari salito in alta stima di letteratura appo il Newton, il Leibnizio ed altri primi dotti della nostra etá, e per la sua tragedia del Cesare famoso nell’Italia, nella Francia, nell’Inghilterra. Il quale, con cortesia eguale a cotanta nobiltá, dottrina ed erudizione, in data degli 3 di gennaio 1728 14 cosí gli scrisse:

Non poteva Vostra Signoria illustrissima ritrovare un corrispondente piú versato in ogni genere di studi e piú autorevole co’ librari di quel che sia il reverendissimo padre Lodoli, che le offre di far stampare il libro dei Princípi di una Scienza nuova. Son io stato un de’ primi a leggerlo, a gustarlo e a farlo gustare agli amici miei, i quali concordemente convengono che dell’italiana favella non abbiamo un libro che contenga piú cose erudite e filosofiche, e queste tutte originali della spezie loro. Io ne ho mandato un picciolo estratto in Francia per far conoscere a’ francesi che molto può aggiungersi o molto correggersi sull’idee della cronologia e mitologia, non meno che della morale e della iurisprudenza, sulla quale hanno tanto studiato. Gl’inglesi saranno obligati a confessare lo stesso quando vedranno il libro; ma bisogna renderlo piú universale con la stampa e con la comoditá del carattere. Vostra Signoria illustrissima è a tempo di aggiungervi tutto quello stima piú a proposito, sia per accrescere l’erudizione e la dottrina, sia per isviluppare certe idee compendiosamente accennate. Io la consiglierei a mettere alla testa del libro una prefazione ch’esponesse i vari princípi delle varie materie che tratta e ’l sistema armonico che da essi risulta, sino ad estendersi alle cose future, che tutte dipendono dalle leggi di quell’istoria eterna, della qual è cosí sublime e cosí feconda l’idea che ne ha assegnata 15.

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L’altra lettera, che giaceva pur alla posta, era del signor conte Gian Artico di Porcía da noi sopra lodato, che da’ 14 dicembre 1727 li aveva cosí scritto:

Mi assicura il padre Lodoli (che col signor abate Conti riverisce Vostra Signoria e l’un l’altro l’accertano della stima ben grande che fanno della di lei virtú) che ritroverá chi stampi la di lei ammirabile opera de’ Princípi della Scienza nuova. Se Vostra Signoria volesse aggiungervi qualche cosa, è in pienissima libertá di farlo. Insomma Vostra Signoria ha ora un campo di poter dilatarsi in tal libro, in cui gli uomini scienziati affermano di capire da esso molto piú di quello si vede espresso e ’l considerano come capo d’opera. Io me ne congratulo con Vostra Signoria, e l’assicuro che ne ho un piacer infinito, vedendo che finalmente produzioni di spirito del nerbo e del fondo di che sono le sue vengon a qualche ora conosciute, e che ad esse non manca fortuna quando non mancano leggitori di discernimento e di mente 16.

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A’ gentil inviti ed autorevoli conforti di tali e tanti uomini si credette obbligato di acconsentir a cotal ristampa e di scrivervi l’annotazioni ed aggiunte. E dentro il tempo stesso che giugnessero in Venezia le prime risposte del Vico, perché, per la cagion sopra detta, avevano di troppo tardato, il signor abate Antonio Conti, per una particolar affezione inverso del Vico e le sue cose, l’onorò di quest’altra lettera in data de’ io marzo 1728:

Scrissi due mesi fa una lettera a Vostra Signoria illustrissima, che le sarà capitata, unita ad un’altra del reverendissimo padre Lodoli. Non avendo veduto alcuna risposta, ardisco d’incomodarla di nuovo, premendomi solamente che Vostra Signoria illustrissima sappia quanto io l’amiro e desidero di profittare de’ lumi che Ella abbondantemente sparse nel suo Principio d’una Nuova Scienza. Appena ritornato di Francia, io lo lessi con sommo piacere, e mi riuscirono le scoperte critiche, istoriche e morali non meno nuove che istruttive. Alcuni vogliono intraprendere la ristampa del medesimo libro ed imprimerlo con carattere più commodo ed in forma più acconcia. Il padre Lodoli aveva questo disegno, e mi disse d’averne a Vostra Signoria illustrissima scritto per suplicarla ad aggiungervi altre disertazioni su la stessa materia o illustrazione de’ capitoli del libro stesso, se per aventura ne avesse fatte. I1 signor conte di Porcia mandò allo stesso padre Lodoli la Vita che Ella di se stessa compose, e contiene varie erudizioni spettanti al progresso del sistema istorico e critico stabilito negli altri suoi libri. Quest’edizione è molto desiderata, e molti francesi, a’ quali ho data una compendiosa idea del libro istesso, la chiedono con premura.

Quindi il Vico tanto più si senti stimolato a scrivere delle note e commenti a quest’opera. E nel tempo che vi travagliava, che durò presso a due anni, prima avvenne che il signor conte di Porcia, in una occasione la qual non fa qui mestieri narrare, gli scrisse ch’esso voleva stampar un suo Progetto a’ signori letterati d’Italia più distinti o per l’opere date alla luce delle stampe o più chiari per rinomea d’erudizione e dottrina, come si è sopra pur detto, di scriver essi le loro Vite letterarie sopra una tal sua idea con la quale se ne promuovesse un altro

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metodo più accertato e più efficace da profittare nel corso de’ suoi studi la gioventù, e di volervi aggiugnere la sua per saggio, che egli gli aveva di già mandata, perché, delle molte che già glien’erano pervenute in potere, questa sembravagli come di getto caduta sulla forma del suo disegno. Quindi il Vico, il qual aveva creduto ch’esso la stampasse con le Vite di tutti ed in mandandogliela aveva professato che si recava a sommo onore d’esser l’ultimo di tutti in si gloriosa raccolta, si diede a tutto potere a scongiurarlo che nol facesse a niun patto del mondo, perché né esso conseguirebbe il suo fine ed il Vico senza sua colpa sarebbe oppresso dall’invidia. Ma, con tutto ciò, essendosi il signor conte fermo in tal suo proponimento, il Vico, oltre di essersene protestato da Roma per una via del signor abate Giuseppe Luigi Esperti, se ne protestò altresí da Venezia per altra di esso padre Lodoli, il qual aveva egli saputo da esso signor conte che vi promoveva la stampa e del di lui Progetto e della Vita di esso Vico; come il padre Calo-gerà, che l’ha stampato nel primo tomo della sua Raccolta degli opuscoli eruditi, l’ha pubblicato al mondo in una lettera al signor Vallisnieri, che vi tien luogo di prefazione; il quale quanto in ciò ha favorito il Vico, tanto dispiacer gli ha fatto lo stampatore, il quale con tanti errori anco ne’luoghi sostanziali n’ha strap-pazzato la stampa. Or nel fine del catalogo delle opere del Vico, che va in piedi di essa Vita, si è con le stampe pubblicato: « Principi d'una Scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, che si ristampano con l’Annotazioni dell’autore in Venezia ».

Di più, dentro il medesimo tempo avvenne che d’intorno alla Scienza nuova gli fu fatta una vile impostura, la quale sta ricevuta tra le Novelle letterarie degli Atti di Lipsia del mese di agosto dell’anno 1727. La qual tace il titolo del libro, ch’è il principal dovere de’ novellieri letterari (perocché dice solamente «Scienza nuova», né spiega dintorno a qual materia); falsa la forma del libro, che dice esser in ottavo (la qual è in dodicesimo); mentisce l’autore e dice che un lor amico italiano gli accerta che sia un « abate » di casa Vico (il qual è padre e per figliuoli e figliuole ancor avolo); narra che vi tratta un

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sistema o piuttosto «favole» del diritto naturale (né distingue quel delle genti, che ivi ragiona, da quel de’ filosofi che ragionano i nostri morali teologi, e come se questa fusse la materia della Scienza nuova, quando egli n’è un corollario); ragguaglia dedursi da principi altri da quelli da’ quali han soluto finor i filosofi (nello che, non volendo, confessa la verità, perché non sarebbe « scienza nuova » quella dalla quale si deducono tai principi); il nota che sia acconcia al gusto della Chiesa catolica romana (come se Tesser fondato sulla provvedenza divina non fusse di tutta la religion cristiana, anzi di ogni religione: nello che ed egli si accusa o epicureo o spinosista, e, ’n vece d’un’accusa, dá la più bella lode, ch’è quella d’esser pio, all’autore); osserva che molto vi si travaglia ad impugnare le dottrine di Grozio e di Pufendorfio (e tace il Seldeno, che fu il terzo prìncipe dì tal dottrina, forse perch’egli era dotto di lingua ebrea); giudica che compiaccia più all’ingegno che alla verità (quivi il Vico fa una digressione, ove tratta degli più profondi principi dell’ingegno, del riso e de’ detti acuti ed arguti: che l’ingegno sempre si ravvolge dintorno al vero ed è ’1 padre de’ detti acuti, e che la fantasia debole è la madre dell’argutezze, e pruova che la natura dei derisori sia, più che umana, di bestia); racconta che l’autore manca sotto la lunga mole delle sue congetture (e nello stesso tempo confessa esser lunga la mole delle di lui congetture), e che vi lavora con la sua nuova arte critica sopra gli autori delle nazioni (traile quali appena dopo un mille anni provenendovi gli scrittori, non può ella usarne l’autorità); finalmente conchiude che da essi italiani più con tedio che con applausi era ricevuta quell’opera (la qual dentro tre anni della sua stampa si era fatta rarissima per l’Italia e, se alcuna se ne ritruovava, comperavasi a carissimo prezzo, come si è sopra narrato; ed un italiano con empia bugia informò i signori letterati protestanti di Lipsia che a tutta la sua nazione dispiaceva un libro che contiene dottrina catolica!). Il Vico con un libricciuolo in dodicesimo, intitolato: Notae in Acta lipsiensia, vi dovette rispondere nel tempo che, per un’ulcera gangrenosa fattagli nella gola (perché in tal tempo n’ebbe
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la notizia), egli, essendo vecchio di sessantanni, fu costretto dal signor Domenico Vitolo, dottissimo e costumatissimo medico, d’abbandonarsi al pericoloso rimedio de’ fumi del cinabro, il qual anco a’ giovani, se per disgrazia tocca i nervi, porta l’apoplesia. Per molti e rilevanti riguardi, chiama l’orditore di tale impostura «vagabondo sconosciuto». Penetra nel fondo di tal laida calùnnia e pruova lui averla cosi tramata per cinque fini: il primo per far cosa che dispiacesse all’autore; il secondo per rendere i letterati lipsiensi neghittosi di ricercare un libro vano, falso, catolico, d’un autor sconosciuto; il terzo, se ne venisse lor il talento, col tacere e falsare il titolo, la forma e la condizion dell’autore, difficilmente il potessero ritruovare; il quarto, se pur mai il truovassero, da tante altre circostanze vere la stimassero opera d’altro autore; il quinto per seguitare d’esser creduto buon amico da que’ signori tedeschi17. Tratta i signori giornalisti di Lipsia con civiltà, come si dee con un ordine di letterati uomini d’un’intiera famosa nazione, e gli ammonisce che si guardino per l’avvenire di un tal amico, che rovina coloro co’ quali celebra l’amicizia e gli ha messi dentro due pessime circostanze: una, di accusarsi che mettono ne’ loro Atti i rapporti e i giudizi de’ libri senza vedergli; l’altra, di giudicare d’un’opera medesima con giudizi tra loro affatto contrari. Fa una grave esortazione a costui, che, poiché peggio tratta con gli amici che co’ nimici ed è falso infamatore della nazion sua e vil traditore delle nazioni straniere, esca dal mondo degli uomini e vada a vivere tralle fiere ne’ diserti dell’Affrica. Aveva destinato mandare in Lipsia un esemplare con la seguente lettera al signor Burcardo Menckenio, capo di quella assemblea, primo ministro del presente re di Polonia:

Praeclarissimo eruditorum lipsiensium collegio eiusque praefecto excellentissimo viro Burcardo Menckenio, Iohannes Baptista Vicus s. d.

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Satis graviter quidem indolui quod mea infelicitas vos quoque, clarissimi viri, in eam adversam fortunam pertraxisset, ut a vestro simulato amico italo decepti omnia vana, falsa, iniqua de me meoque libro cui titulus Principi d’una Scienza nuova dintorno all’umanitá, delle nazioni, in vestra eruditorum Acta referretis; sed dolorem ea mihi consolatio lenivit quod sua naturae sponte ita res nasceretur ut per vestram ipsorum innocentiam, magnanimitatem et bonam fidem, istius malitiam, invidiam perfidiamque punirem; et hic perexiguus liber, quem ad vos mitto, una opera et illius delicta et poenas et ipsas vestras civiles virtutes earumque laudes complecteretur. Cum itaque has Notas bona magnaque ex parte vestra eruditi nominis caussa evulgaverim, eas nedum nullius offensionis sed multae mihi vobiscum ineundae gratiae occasionem esse daturas spero, tecumque in primis, excellentissime Burcarde Menckeni, qui praestantissiinae eruditionis merito in isto praeclarissimo eruditorum collegio principem locum obtines. Bene agite plurimum. Dabam Neapoli, XIV kal. novembris anno MDCCXXIX.

La qual lettera, quantunque, come si vede, fusse condotta con tutta onorevolezza, però, riflettendo che pur cosi avrebbe come di faccia a faccia ripreso que’ letterati di grandi mancanze nel lor ufizio, e che essi, i quali attendono a far incetta de’ libri ch’escono nell’Europa tuttodí dalle stampe, devono sapere principalmente quelli che lor appartengono, per propia gentilezza si risto di mandare.

Or, per ritornare onde usci tal ragionamento, dovendo il Vico risponder a’ signori giornalisti lipsiani, perché nella risposta gli bisognava far menzione della ristampa che si promoveva di tal suo libro in Venezia, ne scrisse al padre Lodoli per averne il permesso (com’infatti nel riportò); onde nella sua risposta di nuovo con le stampe si pubblicò che i Principi della Scienza nuova con le annotazioni di esso autore erano ristampati in Venezia.

E quivi stampatori veneziani sotto maschere di letterati, per lo Gessari e ’1 Mosca, l’uno libraio, l’altro stampatore napoletani, gli avevano fatto richiedere di tutte l’opere sue, e stampate e inedite, descritte in cotal catalogo, di che volevan

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adornare i loro musei, com’fessi dicevano, ma in fatti per istamparle in un corpo, con la speranza che la Scienza nuova farebbe dato facile smaltimento. A’ quali per far loro vedere che gli conosceva quali essi erano, il Vico fece intendere che di tutte le deboli opere del suo affannato ingegno arebbe voluto che sola fusse restata al mondo la Scienza nuova, ch’essi potevano sapere che si ristampava in Venezia. Anzi, per una sua generosità, volendo assicurare anco dopo la sua morte lo stampatore di cotal ristampa, offerì al padre Lodoli un suo manoscritto di presso a cinquecento fogli, nel qual era il Vico andato cercando questi Principi per via negativa, dal quale se n’arebbe potuto di molto accrescere il libro della Scienza nuova, che ’l signor don Giulio Torno, canonico e dottissimo teologo di questa chiesa napoletana, per una sua altezza d’animo con cui guarda le cose del Vico, voleva far qui stampare con alquanti associati, ma lo stesso Vico priegandolo nel rimosse, avendo di già truovati questi Principi per la via positiva.

Finalmente dentro il mese d’ottobre dell’anno 1729 pervenne in Venezia, ricapitato al padre Lodoli, il compimento delle correzioni al libro stampato e dell’annotazioni e commenti, che fanno un manoscritto di presso a trecento fogli.

Or, ritruovandosi pubblicato con le stampe ben due volte che la Scienza nuova si ristampava con l’aggiunte in Venezia, ed essendo colà pervenuto tutto il manoscritto, colui che faceva la mercatanzia di cotal ristampa usci a trattar col Vico come con uomo che dovesse necessariamente farla ivi stampare. Per la qual cosa, entrato il Vico in un punto di propia stima, richiamò indietro tutto il suo ch’avea colà mandato; la qual restituzione fu fatta finalmente dopo sei mesi ch’era già stampato più della metta di quest’opera. E perché, per le testé narrate cagioni, l’opera non ritruovava stampatore né qui in Napoli né altrove che la stampasse a sue spese, il Vico si die’ a meditarne un’altra condotta, la qual è forse la propia che doveva ella avere, che senza questa necessità non arebbe altrimente pensato, che, col confronto del libro innanzi stampato, apertamente si scorge esser, dall’altra che aveva tenuto, a tutto cielo diversa. Ed in

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questa tutto ciò che nell’Annotazioni, per seguire il filo di quell’opera, distratto leggevasi e dissipato, ora con assai molto di nuovo aggiunto si osserva con uno spirito comporsi e reggere con uno spirito, con tal forza di ordine (il quale, oltre all’altra ch’è la propietà dello spiegarsi, è una principal cagione della brevità) che ’l libro di già stampato e ’l manoscritto non vi sono cresciuti che soli tre altri fogli di più. Dello che si può far sperienza, come, per cagion d’esempio, sulle propietà del diritto naturai delie genti, delle quali col primo metodo nel capo 1, § vii ragionò presso a sei fogli, ed in questa ne discorre con pochi versi.

Ma fu dal Vico lasciato intiero il libro prima stampato per tre luoghi de’ quali si truovò pienamente soddisfatto, per gli quali tre luoghi principalmente è necessario il libro della Scienza nuova la prima volta stampato, del quale intende parlare allorché cita la «Scienza nuova» o pure «l’opera con l’Annotazioni», a differenza di quando cita «altra opera sua», che intende per gli tre libri del Diritto universale. Laonde o essa Scienza nuova prima, ove si faccia altra ristampa della seconda, devi stamparlesi appresso, o almeno, per non fargli disiderare, vi si devono stampare detti tre luoghi. Anzi, acciocché nemmeno si desiderassero i libri del Diritto universale, de’ quali assai meno della Scienza nuova prima, siccome d’un abbozzo di quella, il Vico era contento, e gli stimava solamente necessari per gli due luoghi: —uno della favola d’intorno alla legge delle Xll Tavole venuta d’Atene, l’altro d’intorno alla favola della Legge regia di Triboniano, — anco li rapportò in due Ragionamenti, con più unità e maggior nerbo trattati. I quali due sono di quelli errori che '1 signor Giovanni Clerico, nella Biblioteca antica e moderna, in rapportando que’ libri, dice che « in un gran numero di materie vi si emendano quantità d’errori volgari, a’ quali uomini intendentissimi non hanno punto avvertito ».

Né già questo dee sembrar fasto a taluni: che il Vico, non contento de’ vantaggiosi giudizi da tali uomini dati alle sue opere, dopo le disappruovi e ne faccia rifiuto, perché questo è argomento della somma venerazione e stima che egli fa di tali uomini anzi che no. Imperciocché i rozzi ed orgogliosi scrit-

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tori sostengono le lor opere anche contro le giuste accuse e ragionevoli ammende d’altrui; altri che, per avventura, sono di cuor picciolo, s’empiono de’ favorevoli giudizi dati alle loro e, per quelli stessi, non piú s'avvanzano a perfezionarle. Ma al Vico le lodi degli uomini grandi ingrandirono l’animo di correggere, supplire ed anco in miglior forma di cangiar questa sua. Cosi condanna le Annotazioni, le quali per la via niegativa andavano truovando questi Principi, perocché quella fa le sue pruove per isconcezze, assurdi, impossibilità, le quali, co’ loro brutti aspetti, amareggiano piuttosto che pascono l’intendimento, al quale la via positiva si fa sentire soave, ché gli rappresenta l’acconcio, il convenevole, l’uniforme, che fanno la bellezza del vero, del quale unicamente si diletta e pasce la mente umana. Gli dispiacciono i libri del Diritto universale, perché in quelli dalla mente di Platone ed altri chiari filosofi tentava di scendere nelle menti balorde e scempie degli autori della gentilità, quando doveva tener il cammino tutto contrario; onde ivi prese errore in alquante materie. Nella Scienza nuova prima, se non nelle materie, errò certamente nell’ordine, perché trattò de’ principi dell’idee divisamente da’ principi delle lingue, ch’erano per natura tra lor uniti, e pur divisamente dagli uni e dagli altri ragionò del metodo con cui si conducessero le materie di questa Scienza, le quali, con altro metodo, dovevano fil filo uscire da entrambi i detti principi: onde vi avvennero molti errori nell’ordine.

Tutto ciò fu nella Scienza nuova seconda emendato. Ma il brevissimo tempo, dentro il qual il Vico fu costretto di meditar e scrivere, quasi sotto il torchio, quest’opera, con un estro quasi fatale, il quale lo strascinò a si prestamente meditarla ed a scrivere, che l’incominciò la mattina del santo Natale e fini ad ore ventuna della domenica di Pasqua di Resurrezione; — e pure, dopo essersi stampato più della mettá di quest’opera, un ultimo emergente, anco natogli da Venezia, lo costrinse di cangiare quarantatré fogli dello stampato, che contenevano una Novella letteraria (dove intiere e fil filo si rapportavano tutte le lettere e del padre Lodoli e sue d’intorno a cotal affare con

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le riflessioni che vi convenivano), e, ’n suo luogo, proporre la dipintura al frontispizio di quei libri, e della di lei Spiegazione scrivere altrettanti fogli ch’empiessero il vuoto di quel picciol volume; — di più, un lungo grave malore, contratto dall’epidemia del catarro, ch’allora scorse tutta l’Italia; — e finalmente la solitudine nella quale il Vico vive: — tutte queste cagioni non gli permisero d'usare la diligenza, la qual dee perdersi nel lavorare d’intorno ad argomenti c’hanno della grandezza, perocch’ella è una minuta e, perché minuta, anco tarda virtù. Per tutto ciò non poté avvertire ad alcune espressioni che dovevano o, turbate, ordinarsi o, abbozzate, polirsi o, corte, più dilungarsi; né ad una gran folla di numeri poetici, che si deon schifar nella prosa; né finalmente ad alquanti trasporti di memoria, i quali però non sono stati ch’errori di vocaboli, che di nulla han nuociuto all’ intendimento. Quindi nel fine di quei libri, con le Annotazioni prime, insieme con le correzioni degli errori anco della stampa (che, per le suddette cagioni, dovettero accadervi moltissimi), die’ con le lettere M ed A i miglioramenti e l’aggiunte; e sieguitò a farlo con le Annotazioni seconde, le quali, pochi giorni dopo esser uscita alla luce quell’opera, vi scrisse con l’occasione che’l signor don Francesco Spinelli principe di Scalea, sublime filosofo e di colta erudizione particolarmente greca adornato, lo aveva fatto accorto di tre errori, i quali aveva osservato nello scorrere in tre di tutta l’opera. Del qual benigno avviso il Vico gli professò generosamente le grazie nella seguente lettera stampata, ivi aggiunta, con cui tacitamente invitò altri dotti uomini a far il medesimo, perché arebbe con grado ricevuto le lor ammende:

Io debbo infinite grazie a Vostra Eccellenza, perocché, appena dopo tre giorni che le feci per un mio figliuolo presentar umilmente un esemplare della Scienza nuova ultimamente stampata, Ella, tolto il tempo che preziosamente spende o in sublimi meditazioni filosofiche o in lezioni di gravissimi scrittori particolarmente greci, l’aveva già tutta letta: che per la maravigliosa acutezza del vostro ingegno e per l’alta comprensione del vostro intendimento, tanto egli è stato averla quasi ad un fiato scorsa quanto averla fin

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al midollo penetrata e ’n tutta la sua estensione compresa. E, passando sotto un modesto silenzio i vantaggiosi giudizi ch’Ella ne diede per un’altezza d’animo propia del vostro alto stato, io mi professo sommamente dalla vostra bontà favorito, perocché Ella si degnò anco di mostrarmene i seguenti luoghi, ne’ quali aveva osservato alcuni errori che Vostra Eccellenza mi consolava essere stati trascorsi di memoria, i quali di nulla nuocevano al proposito delle materie che si trattano, ove son essi avvenuti.

Il primo è a p. 313, v. 19, ove io fo Briseide propia d’Agamennone e Criseide d’Achille, e che quegli avesse comandato restituirsi la Criseide a Crise di lei padre, sacerdote di Apollo, che perciò faceva scempio del greco esercito con la peste, e che questi non avesse voluto ubidire; il qual fatto da Omero si narra tutto contrario. Ma cotal error da noi preso era in fatti, senz’avvedercene, un’emenda d’Omero nella parte importantissima del costume: che anzi Achille non avesse voluto ubidire, e che Agamennone per la salvezza dell’esercito l’avesse comandato. Ma Omero in ciò veramente serbò il decoro, che, quale l’aveva fatto saggio, tale finse il suo capitano anco forte, che, avendo renduto Criseide come per forza fattagli da Achille, e stimando esserglici andato del punto suo, per rimettersi in onore tolse ingiustamente ad Achille la sua Briseide, col qual fatto andò a rovinare un’altra gran parte de’ greci: talché egli nell’Iliade vien a cantare uno stoltissimo capitano. Laonde cotal nostro errore ci nuoceva veramente in ciò: che non ci aveva fatto vedere quest’altra gran pruova della sapienza del finora creduto, che ci confermava la discoverta del vero Omero. Né pertanto Achille, che Omero con l’aggiunto perpetuo d’« irreprensibile » canta a’ popoli della Grecia in esemplo dell’eroica virtù, egli entra nell’idea dell’eroe quale ’1 diffiniscono i dotti, perché, quantunque fusse giusto il dolor d’Achille, però — dipartendosi con le sue genti dal campo e con le sue navi dalla comun’armata, fa quell’empio voto: ch’Ettorre disfacesse il resto de’ greci ch’erano dalla peste campati, e gode esaudirsi (siccome, nel ragionando insieme di queste cose, Vostra Eccellenza mi soggiunge quel luogo dove Achille con Patroclo desidera che morissero tutti i greci e troiani ed essi soli sopravi vesserò a quella guerra) — era la vendetta scelleratissima.

Il secondo errore è a pag. 314, v. 38, e pag. 315, v. 1, ove mi avvertiste che’l Manlio, il qual serbò la ròcca del Campidoglio da’ Galli, fu il Capitolino, dopo cui venne l’altro che si

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cognominò Torquato, il qual fece decapitar il figliuolo; e che non questi ma quegli, per aver voluto introdurre conto nuovo a pro della povera plebe, venuto in sospetto de’ nobili che col favor popolare volesse farsi tiranno di Roma, condennato, funne fatto precipitare dal monte Tarpeo. Il qual trasporto di memoria si che ci nuoceva in ciò: che ci aveva tolto questa vigorosa pruova dell’uniformità dello stato aristocratico di Roma antica e di Sparta, ove il valoroso e magnanimo re Agide, qual Manlio Capitolino di Lacedemone, per una stessa legge di conto nuovo, non già per alcuna legge agraria, e per un’altra testamentaria, fu fatto impiccare dagli efori.

Il terzo errore è nel fine del libro quinto, p. 445, v. 37, ove deve dir « numantini » (che tali sono quivi da esso ragionamento circoscritti).

Per gli quali vostri benigni avvisi mi son dato a rilegger l’opera, e vi ho scritto le correzioni, miglioramenti ed aggiunte seconde.

Le quali annotazioni prime e seconde, con altre poche ma importantissime, ch’è ito scrivendo interrottamente conte di tempo in tempo ragionava l’opera con amici, potranno incorporarlesi ne’ luoghi ove sono chiamate, quando si ristampi la terza volta.

Mentre il Vico scriveva e stampava la Scienza nuova seconda, fu promosso al sommo pontificato il signor Cardinal Corsini, al qual era stata la prima, essendo cardinale, dedicata, e si dovette a Sua Santità anco questa dedicarsi. Il quale, essendogli stata presentata, volle, come gli venne scritto, che ’1 signor cardinale Neri Corsini suo nipote, quando ringraziava l’autore dell’esemplare che questi, senza accompagnarlo con lettera, gli aveva mandato, gli rispondesse in suo nome con la seguente:

Molto illustre signore

L’opera di Vostra Signoria de’ Principi di una Nuova Scienza aveva già esatto tutta la lode nella prima sua edizione da Nostro Signore, essendo allora cardinale; ed ora tornata alle stampe, accresciuta di maggiori lumi ed erudizione dal di lei chiaro ingegno, ha incontrato nel clementissimo animo di Sua Santità tutto il gradimento. Ho voluto dar a lei la consolazione di questa notizia nell’atto istesso che mi muovo a ringraziarla del libro fattomene

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presentare, del quale ho tutta la considerazione che merita, ed esibendole in ogni congiontura di suo servizio tutta la mia parzialità, prego Dio che la prosperi. Di Vostra Signoria

Roma, 6 gennaio 1731

affez. sempre N. card. Corsini.

Colmato il Vico di tanto onore, non ebbe cosa al mondo più da sperare; onde per l’avvanzata età, logora da tante fatighe, afflitta da tante domestiche cure e tormentata da spasimosi dolori nelle cosce e nelle gambe e da uno stravagante male che gli ha divorato quasi tutto ciò ch’è al di dentro tra l’osso inferior della testa e '1 palato, rinnonziò affatto agli studi. Ed al padre Domenico Lodovici, incomparabile latin poeta elegiaco e di candidissimi costumi, donò il manoscritto delle annotazioni scritte alla Scienza nuova prima con la seguente iscrizione:

Al Tibullo cristiano — padre Domenico Lodovici —questi — dell’infelice SCIENZA NUOVA — miseri —e per terra e per mare SBATTUTI —AVVANZI— DALLA CONTINOVA TEMPESTOSA FORTUNA — AGGITATO ED AFFLITTO — COME AD ULTIMO SICURO PORTO — GIAMBATTISTA Vico — lacero e stanco — finalmente ritragge18.

Egli nel professare la sua facultá fu interessatissimo del profitto de’ giovani, e, per disingannargli o non fargli cadere negl’inganni de’ falsi dottori, nulla curò di contrarre l’inimicizie de’ dotti di professione. Non ragionò mai delle cose dell’eloquenza se non in séguito della sapienza, dicendo che l’eloquenza altro non è che la sapienza che parla, e perciò la sua cattedra esser quella che doveva indirizzare gl’ingegni e fargli univer-

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sali, e che l’altre attendevano alle parti, questa doveva insegnare l’intiero sapere, per cui le parti ben si corrispondan tra loro e ben s’intendan nel tutto. Onde d’ogni particolar materia dintorno al ben parlare discorreva talmente ch’ella fusse animata, come da uno spirito, da tutte quelle scienze ch’avevan con quella rapporto: ch’era ciò ch’aveva scritto nel libro De ratìone studiorum, ch’un Platone, per cagion di chiarissimo esemplo, appo gli antichi era una nostra intiera università di studi tutta in un sistema accordata. Talché ogni giorno ragionava con tal splendore e profondità di varia erudizione e dottrina, come se si (ussero portati nella sua scuola chiari letterati stranieri ad udirlo. Egli peccò nella collera, della quale guardossi a tutto poter nello scrivere; ed in ciò confessava pubblicamente esser difettuoso: che con maniere troppo risentite inveiva contro o gli errori d’ingegno o di dottrina o ’l mal costume de’ letterati suoi emoli, che doveva con cristiana carità e da vero filosofo o dissimulare o compatirgli. Però quanto fu acre contro coloro i quali proccuravano di scemargliele, tanto fu ossequioso inverso quelli che di esso e delle sue opere facevano giusta stima, i quali sempre furono i migliori e gli più dotti della città. De’ mezzi o falsi, e gli uni e gli altri perché cattivi dotti, la parte più perduta il chiamava pazzo, o con vocaboli alquanto più civili, il dicevano essere stravagante e d’idee singolari od oscuro. La parte più maliziosa l’oppresse con queste lodi: altri dicevano che ’l Vico era buono ad insegnar a’ giovani dopo aver fatto tutto il corso de’ loro studi, cioè quando erano stati da essi già resi appagati del lor sapere, come se fusse falso quel voto di Quintiliano, il qual desiderava ch’i figliuoli de’grandi, come Alessandro Magno, da bambini (ussero messi in grembo agli Aristotili; altri s’avvanzavano ad una lode quanto più grande tanto più rovinosa: ch’egli valeva a dar buoni indirizzi ad essi maestri19. Ma egli tutte queste avversità benediceva come oc-
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casioni per le quali esso, come a sua alta inespugnabil ròcca, si ritirava al tavolino per meditar e scriver altre opere, le quali chiamava « generose vendette de’ suoi detrattori »; le quali finalmente il condussero a ritruovare la Scienza nuova. Dopo la quale, godendo vita, libertà ed onore, si teneva per più fortunato di Socrate, del quale, faccendo menzione il buon Fedro, fece quel magnanimo voto:

cuius non fugio mortem, si famam assequar,
et cedo invidiae, dummodo absolvar cinis.

II. Carteggio

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I
Ad Antonio Magliabechi
Invia gli Affetti di un disperato.

Perché chiunque da bel disio di gloria non frale vien stimolato, le orme di coloro, li quali, nel sentiero onde al vero onore si avvia, tutti gli altri dietro lungo spazio lasciaronsi, è vago di riverire; io, con quelli sensi che la reverenzia a lei dovuta mi detta, una mia canzone mandandole, vengo a dichiararmi servitore di Vostra Signoria illustrissima, la quale, gli ameni studi delle buone lettere coltivando, con iscorno de’ passati, con invidia de’ presenti e con meraviglia de’ posteri, fatto ha ’l suo nome orrevole ed immortale. Non isdegni Vostra Signoria illustrissima e di annoverarmi tra quelli che amano di servirla, poiché la gentilezza del corpo della vertú una indivisibil ombra suol essere; e con l’alta sua mente, la quale di concetti non piú in umano intelletto caduti è felicemente feconda, di questo mio debil componimento render giudizio.

E di bel nuovo dichiaromi, ecc.

Napoli, 11 aprile 1693.

II
Allo stesso
Invia la Canzone in morte di Antonio Caraffa.

La pregiatissima di Vostra Signoria illustrissima de’ 28 aprile mi ha destato nell’animo non so che superbia. Io non meglio ispiegargliela posso se non dallo effetto che in me produce, poiché mi vado sopramodo altiero della mia umilissima servitú, che Ella ha degnato gradire. Laonde, per maggiormente

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avvanzarmici, ora invio a Vostra Signoria illustrissima una canzone, la quale in morte del signor general Caraffa, onor e lume della nostra patria, a richiesta del mio dolcissimo signor Giuseppe Valletta, ho mandato alle stampe. Priego adunque Vostra Signoria illustrissima ed a compassionar quella e ad essercitar me co’ favori de’ suoi riveritissimi comandamenti.

E mi confermo di Vostra Signoria illustrissima, ecc.

Napoli, primo giugno 1693.

III
Di Massimiliano Emanuele
elettore di Baviera
Ringrazia per l’invio del panegirico in tre canzoni.

Signor Giovan Battista de Vico, nell’erudite sue composizioni scorgo la sua virtú e ’l suo studio ben disposto alle mie lodi. Ringraziandola però affettuosamente, l’assicuro che le dimostrerò nelle occasioni la mia ben inclinata volontá, e le desidero dal Signore ogni bene.

Da Bruselles, a dí 25 giugno 1694.

Per farle piacere

Emmanuele Elettore.

IV
Al conte Antonio Coppola
Difende un costrutto latino nel titolo di un libro di Serafino Biscardi.

Iohannes Baptista Vicus Antonio Coppolae comiti s. d.

Duo mihi videntur dubietatum genera, amice suavissime, et alterum ex ingenii acumine, alterum ex rerum ignoratione, proficisci. At vereor ne tua percontatio de biscardiani responsi epigraphe in hac postrema κατηγορίᾳ contineatur. Eius enim libri epigramma ita conceptum est: Epistola pro augustissimo Philippo

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Hispaniarum rege, in qua et ius ei assertum et omnia confutantur, quae pro investitura Regni Neapolitani ab Austriacis afferuntur: in quo sane, si pars illa orationis «et ius ei assertum» vulgari ellipsi verbi «est» suppleatur, in Latio prorsus peregrinari videtur qui ex iis verbis hanc non assequatur sententiam: quod ea epistola et ius in hispaniensem monarchiam Philippo asseritur et omnia confutantur etc., quae ab Austriacis afferuntur; eoque magis quod «epistola» paullo ante dicitur «pro Philippo» scripta. Quamobrem tantum abest ut quid absurdi in eo titulo subsit, ut qui eius vicii Biscardum insimulare velit, ipse mihi mentis omnino absurdae videatur. At, si dixeris librorum propositiones quam maxime perspicuas esse oportere, ne lector offendat in ipso limine, in re atque natura recte dixeris, ut in proposito nullus dixeris. Nam eiusmodi ellipsis adeo frequens apud probatos scriptores est usus, ut ubique prostet. Atque in eius rei argumento, cum mihi literae tuae datae sunt, tum ego initium libri XXXI historiae livianae animi caussa legebam, et numero Hannibalis iconem eiusque primam expeditionem, ubi auctor scribit: «Cibi potionisque desiderio naturali, non voluptate, modus finitus», supple: «erat»; quam mox: «id quod rebus gerendis superesset, quieti datum», supple: «erat»; et e vestigio: «eaque neque molli strato neque silentio accersita», supple: «erat»; et paucis interiectis: «vere primo in Vaccaeos permotum bellum», supple: «est». Atque haec intra unius pagellae ambitum apud scriptorem, qui neque ut Tacitus loquitur praefinito, neque caesim uti Sallustius, sed qui scriptionis genere excellit maxime perspicuo et affluenti. Proinde desinas nodum in scirpo quaerere, ut aiunt, et te digna et magis ex usu disputanda porro proponas.

Vale multumque vale, et qua plurima salute ego te, tu meo nomine praeclarissimos viros patrem avulumque tuum impertias.

Neapoli, III kal. septembris MDCCIII.

P. S. Amo te plurimum de optimis pomis et affatim ad me missis.

142 ―

Ingeniosam a te, clarissime vir et karissime, recitatam orationem 20 perlegi, in qua eloquentiae sophum, professorem vere regium 21 ita miratus sum ut ex dissertationis elegantia, candore

145 ―

P. Licinius Crassus Dives alterum tuae dissertationis etiam effatum 22 pungit. De eo Livius [lxxx in princ.]: «Facundissimus.

146 ―
. . . .nominis iurisconsultus. Caeteros non persequor: sufficiunt hi, quia multi, quia primi; et aliqui a Pomponio iurisconsulto omissi 23.
147 ―

VI
All’abate Giovan Mario Crescimbeni

Ringrazia per la propria nomina ad accademico arcade, preannunzia il De antiquissima Italorum sapientia e invia il sonetto «Donna bella e gentil, pregio ed onore».

Rendo infinite grazie e professo eterne obligazioni a tutta cotesta preclarissima accademia, e specialmente a Vostra Signoria illustrissima, che mi ha promosso all’onore di esservi annoverato; che è tanto dire quanto di avermi distinto con un carattere di protestata letteratura: quando in me non riconosco altro pregio se non che un desiderio di conseguirla ed una riverenza verso coloro che l’hanno aggiunta. Talché, avvisandomene immeritevole e conoscendo che non temerariamente vogliate decorare alcuno e farlo degno della vostra dottissima adunanza, stimo che, avendo forse le Signorie Vostre illustrissime veduto qualche mia debole fatiga, dalla quale abbiate fatto congettura che io potessi tentare cosa maggiore, me ne abbiate, con onorarmi sí fattamente, voluto dare uno stimolo. Se la mia avversa fortuna e le mie indisposizioni me ’l permetteranno, m’adoprarò che affatto non vada in vano cotesto vostro giudizio: se potrò mai ridurre a fine un’opera che mi ritruovo aver meditato in onore della veneranda nazione d’Italia, nella quale, ad esempio di Platone nel Cratilo, vado rintracciando dalle origini delle voci latine la sapienza degli antichi italiani, la quale conspira in un nuovo sistema di tutte e tre le filosofie, che professarono gli antichi toscani principalmente e gli ioni, dalle quali due nazioni ha le sue origini la latina favella. In particolar nome poi mi professo a Vostra Signoria illustrissima sommamente dovuto per l’onore

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di che mi degna, disegnando di rappresentarmi tra’ poeti viventi ornati di stile, da’ quali possa prendersi esempio. Ma, perché queste amenitá se ne andarono via da me con l’etá serena, mando a Vostra Signoria illustrissima un sonetto che si ritruova nella Raccolta dell’Acampora, che trascrivo qui indietro. Del rimanente, sí come Vostra Signoria illustrissima ha tanta bontá di onorarmi di sí segnalati favori, cosí veda in che possa io mai esserle di utile o di grado, e mi v’impieghi co’ suoi riveriti comandi. E le fo umilissima riverenza, ecc.

[Napoli, 5 o 12 luglio 1710].

VII
Allo stesso
Si giustifica dell’accusa d’aver aderito agli Arcadi dissidenti.

Lo strepito che ha fatto la novella giunta costá ch’io, avendo prima data parola di onore in iscritto non dividermi dalla vecchia Arcadia, abbia dapoi dato il nome alla nuova del signor Gravina, mi fece per qualche ora vivere vanamente lusingato che io forse sia da molto piú di quello che mi reputo. Ma finalmente, lasciando di ricercarmi fuori, trovai in fatti che, a riguardo degli altri, ai quali questo affare poco o nulla importa, ella è un’arte che usano i piú avveduti e ben parlanti, i quali, per aggravare un uomo che ha fallito, ne esagerano la prudenza e la gravitá.

Ma, per quello che si appartiene a Vostra Signoria illustrissima ed al signor Gravina, cotesta grave opinione di me è nata dall’affetto che amendue le Signorie Loro portano a me, e ciascuno alla propria causa. Però cotesta medesima affezione vostra ha fatto e che Vostra Signoria illustrissima, benché con tante riserbe quante gliene poteva dettare la sua gran civiltá, è caduta in sospetto che io sia mancato a lei; e il signor Gravina ha creduto che io in ogni modo e senza alcuna riserba mi sia dato a lui. Ma io sono quello istesso che pochi mesi fa.

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Essendo qua venuto un tal signor Nardini con incommessa di fondar qui una nuova colonia di arcadi, mi ci opposi fortemente, come il signor Avitabile potrá ragguagliarla. Non ha molti giorni che il signor abate Belvedere, uomo onesto e grave quant’altri mai e di assai buon gusto delle lettere e degli uomini letterati, in presenza del signor Giuseppe Macrini, testimonio di intera fede, mi disse che il signor Gravina volea fondare un’accademia nella quale convenissero uomini di prima letteratura. Io, dopo di aver risposto ciò che il mio poco merito mi ammoniva, dissi che era tenuto per obbligo di parola data in iscritto non dividermi dalla antica Arcadia. Egli replicommi che questa era altra cosa, come quella nella quale non era legge di comporre e recitare in genere pastorale, e che qui non avrebbe a dedursi colonia alcuna. Io riflettei che queste erano due cose le quali rendevano affatto diversa questa nuova accademia, quanto altra è una repubblica incivilita da una comunitá di pastori, ed un imperio che si chiude dentro certi confini da quello che si diffonde con disuguali alleanze per le colonie. A questo aggiunsi fra meco che, dovendosi in questa annoverare letterati di primo rango, non potea esser giá quella che il signor Gravina volea promovere col nome di Nuova Arcadia, a cagione che il Nardini vi avea qui ascritto uomini giovanetti di grande forza ma non giá conosciuta letteratura. Perciò mi mossi a dare al signor Belvedere il mio nome. Che se poi il signor Gravina ha l’istessa mente che pochi mesi fa di fondare nuova Arcadia con tanti pastori, mancando una principal circostanza del rappresentatomi dal signor Belvedere e cadendo la faccenda nel caso al quale mi era innanzi apertamente opposto, non ha dubbio che giustamente manchi in me la volontá di esservi annoverato.

Prego Vostra Signoria illustrissima a ricevere benignamente questa mia giustificazione e farne copia a chi vuole per sincerare la mia puntualitá. Ed a Vostra Signoria illustrissima bacio riverentemente le mani, ecc.

Napoli, 11 giugno 1712.

150 ―

VIII
Al padre Bernardo Maria Giacco
Manda la Sinopsi del Diritto universale.

Se vi fusse questa legge che l’opere letterarie si dovessero a que’ dotti uomini soli rigalare che abbiano come renderne il controcambio, e se ne riportarebbero giudizi piú equi ed ogniuno si studiarebbe piú di far che di dire, per rendersi veramente degni di doni sí fatti; come degnissima è Vostra Paternitá reverendissima, che di tempo in tempo ne fa godere le opere ammirabili del suo divinissimo ingegno. Le mando un mezzo foglio di carta, che ha fatto nell’una e nell’altra parte de’ gran movimenti in questa cittá. Ha truovato favore appo dottissimi uomini, perché i potenti sempre furono generosi, come i poveri sempre ínvidi. Io mi sono sforzato lavorare un sistema della civiltá, delle repubbliche, delle leggi, della poesia, della istoria e, in una parola, di tutta l’umanitá, e in conseguenza di una filologia ragionata; e di tutto ciò che fin da’ primi greci ci è pervenuto cosí o vano o incerto o assurdo (come vi fossero stati tempi che gli uomini o parlassero senza idee o per non esser intesi o per cianciare da senno) io ne rendo ragioni tali e sí fatte, che, con quelle altre innumerabili convenendo, vi riposa sopra sodisfatta la mente, fin tanto che o non mi si arrechi un sistema migliore o non vogliamo pur seguitare a pensare di sí fatte cose cosí sconciamente come si è fatto per lo passato. Frattanto temo del vostro giudizio raffinato cotanto nella buona critica, e per ciò cotanto raffinato perché arricchito prima di una sceltissima topica; e temo che non mi troviate in fallo o nelle posizioni o nelle conseguenze. Che se io ne riporto favorevole giudizio, che altro vado cercando che piacere ad un uomo dotto, che è in ammirazion de’ dottissimi? Ed a Vostra Paternitá reverendissima fo divotissima riverenza, ecc.

Napoli, 14 luglio 1720.

151 ―

IX
Di Luigi di Ghemmingen 24
al padre Tommaso Alfani 25
Intorno ad alcuni punti della Sinopsi.

Il disegno del libro del signore Vico mi ha fatto molto piacere, perché propone molte cose belle e curiose. Ma è difficile di ragionare sopra un disegno, quando le prove non sono messe appresso, e molto più intorno una materia che l’autore deve aver meditato meglio che qualsisia altro. Di modo che, più tosto per contentarla che per altro, le voglio dire quanto mi è venuto in mente leggendolo.

Primieramente sto curioso di vedere come l’autore, trattando della ragione umana corrotta, la possa connettere con la moral cristiana, a far quella principio di questa 26.

Se Iddio sia il fine della virtú, che vuol dire se sia il sommo bene, è stato contrastato in Germania dal signor Cristiano Tomasio, il quale dice che la tranquillitá dell’animo sia il sommo bene; ma questa tranquillitá non si trova che con Dio e in Dio, e desidero che l’autore il dimostri 27.

Ulrico Ubero nelle sue prelezioni delle Instituzioni ha mostrato

152 ―
che la divisione della giustizia in aritmetica e geometrica non è adequata, come anche la commutativa e la distributiva 28.

Non tutti i romani hanno fatto attenzione alla litteratura eroica che dice l’autore; ma solamente gli stoici, che si divertivano con questi giuochi di parole 29.

Quello che dice l’autore dell’uso della lingua eroica è una bella osservazione, che si trova fondata in molti passi dell’istoria; perché anche fra i tedeschi i sacerdoti soli intendevano « litterarum secreta », come dice Tacito; e i leggisti dei romani antichi hanno avuto certi caratteri e certe formole per loro, che gli altri non intendevano 30.

In questa e in molte aitre cose mi piace lo spirito e l’erudizione dell’autore; ma io spero che il libro stesso spiegherà la sua mente in molte cose che la brevità di questo disegno rende scure.

Mi raccomando al suo solito favoree le bacio affettuosamente le mani.

Roma, 31 di agosto 1720.

153 ―

X
Del padre Giacco 31
Elogia il De uno.

Oggi appunto sono sei giorni da che mi venne fra mani il libro di Vostra Signoria, mio riveritissimo signor Giambattista; e, quantunque in tempo si corto, anzi che letto, me l’abbia io piuttosto per grandissima avidità divorato, nientedimeno non fa dubbio di affermare esser la vostra un’opera che appena crederanno i dotti esser opera di un uomo solo. Se voi, alla foggia del Verulamio, imitata da molti del secol nostro, aveste disegnato soltanto il sublime vastissimo argomento, pur sarebbe stata la vostra un’impresa degnissima di ammirazione e di lode: or che dovran dire i savi in veggendolo oltre la speranza e ’l desiderio a tanta perfezion condotto a quanta è a voi riuscito di felicissimamente condurlo? Certamente, se l’invidia lor non torce il giudizio, dovran tutti concordemente lodare e benedire il Signore Dio per aver fornita la vostra mente di tanta luce che basta ad illustrare la nostra etá non che la patria nostra, e rendere a voi quell’onore che deesi a valentuomo benemeritissimo della republica de’ letterati. Priego Vostra Signoria, mio pregiatissimo signore, a voler gradire questo mio schietto sentimento con quella generosità onde vi siete degnato di farmi il gran dono, e con esso la grazia di potermi giustamente dichiarare per tutta mia vita, ecc.

Arienzo, 19 settembre 1720.

154 ―

XI
Al padre Giacco
Ringrazia per le lodi al Diritto universale e accenna ai suoi detrattori.

Non attribuisca Vostra Paternitá reverendissima a poca attenzion mia peroché dopo ben molti giorni io risponda alla vostra pregiatissima lettera, perché io l’ho riputata tanto superiore al mio merito, che ho stimato ben fatto portarvene almeno le lodi delle quali piú lodati uomini l’avessero prima adornata. Io, per mio sommo pregio, l’ho letta a molti miei signori ed amici, ammiratori insieme dell’altissimo valor vostro; tra’ quali il signor don Francesco Ventura, il signor don Muzio di Maio, ’l signor don Aniello Spagnuolo, che vi mandano mille riverenti saluti, ne hanno sommamente lodato la proprietá del giudizio (se pur l’opra mia fosse tale, quale voi con quella vostra solita maniera grande l’avete appresa) e ne hanno ammirato il sublime torno di concepire, dal quale esce come da sé il gran parlare con la rara nota di una eroica naturalezza. Onde il signor don Marcello Filomarino, che va in ricerca di lettere d’ottima idea, me ne ha richiesto un essemplare. Per la cittá se ne parla come si suole di ciò che dicono uomini di grandissima auttoritá, ed amici ne vorrebbero copia affine di opporla all’altrui maladicenza; ma non ho voluta darla, perché non amo innalzarla come bandiera di una inutil guerra con uomini de’ quali piuttosto si dee avere pietá, e, se si vuole giudicar dritto, è anzi loro da farsi ragione. Imperciocché io ho scritto a voi, uomini di altissimo rango, per riceverne censure, opposizioni ed emende; conforme in fatti sommamente mi pregio che ’l signor Anton Salvini, per confessione di tutta Europa un de’ primi letterati d’Italia, abbia degnato di sue particolari difficoltá l’istesso saggio che ne diedi e che soltanto aveva veduto. Per costoro ho scritto, affine di ricredergli da un numero presso che infinito d’errori in tutta la distesa de’ princípi della profana erudizione.

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Ma son cittadino, e molto per miei bisogni conversevole; si ricordan di me, fin dalla mia prima giovinezza, e debolezze ed errori, i quali come gravemente avvertimo in altrui, cosí altamente ci rimangon fissi nella memoria, e per la nostra corrotta natura diventano criteri eterni da giudicare di tutto il bello e compíto che per avventura altri faccia dopoi. Io non ho ricchezze né dignitá, e sí mi mancano due potenti mezzi da conciliarsi la stima della moltitudine. Talché costoro nulla curano di leggere quest’opera, e cosí il travaglio che dovrebbero durare in meditarla si fa loro innanzi in comparsa di uno schivo disdegno di farle onore; o se pure la leggono, perché non le precede la stima, non le prestano l’attenzione dovuta, e sí, non comprendendola tutta insieme, gli si presentano a brani tante novitá tutte difformi dalle loro preconcepite opinioni, che veramente fan lor sembiante di mostri. Onde i dotti cattivi, che amano piú l’erudizione che la veritá, perché quella gli distingue, questa gli accomuna con tutti, prendono volontieri occasione col colore di patrocinare l’auttoritá de’ passati, tanto plausibile quanto è grandissima quella di tutti i tempi; mi concitano contro degli odii mortali, perché le lodi, di che i veri savi, come voi siete, per vostra bontá me ne date, gli ritengono a cagionarmi disprezzo. Ed in effetto le prime voci, che in Napoli ho sentito contro di me da coloro che han voluto troppo in fretta accusarmi dal medesimo saggio che ne avea dato, erano tinte di una simulata pietá, che nel fondo nasconde una crudel voglia d’opprimermi con quelle arti, con le quali sempre han soluto gli ostinati delle antiche o piú tosto loro opinioni rovinare coloro che hanno fatto nuove discoverte nel mondo de’ letterati.

Però il grande Iddio ha permesso per sua infinita bontá che la religione istessa mi servisse di scudo, e che un padre Giacchi, primo lume del piú severo e piú santo ordine de’ religiosi, dasse tal giudizio per bontá sua delle mie debolezze. Vedete, reverendissimo padre, quanto mi onora, quanto mi rinfranca, quanto mi sostiene e difende la vostra pregiatissima lettera. Il sommo Iddio ve ’l riponga con secondare tutti i vostri

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voti, che non possono essere che di vera felicitá, poiché sono voti di savio. E, priegandovi che seguitiate ad amarmi e proteggermi, come mi amate e mi proteggete, vi fo umilissima riverenza, ecc.

Napoli, 12 ottobre 1720.

XII
Di Anton Maria Salvini 32
al marchese Rinuccini 33
Ringrazia per il libro anzidetto.

Mi è giunta la cortesissima di Vostra Signoria illustrissima insieme col prezioso regalo del dottissimo libro del signore de Vico, il quale ho divorato con avidità grandissima, essendo per tutto ripieno di considerazioni sode e nobili e tessuto con ma-raviglioso ordine e chiarezza. Ci dà speranza in esso della seconda parte, la quale non ho dubbio che da chi ha avuto il saggio di questa non sia aspettata con impazienza.

Priego Vostra Signoria illustrissima a rappresentare all’autore degnissimo la mia obbligata devozione e portare i miei umili ringraziamenti, accompagnati da un vivo desiderio che ho di servirlo. E, supplicandolo instantissimamente a compartirmi l’onore de’ suoi riveriti comandi, mi rassegno devotamente, ecc.

Firenze, 3 dicembre 1720.

157 ―

XIII
Al padre Giacco
Manda la raccolta nuziale contenente la Giunone in danza.

Con tutto il rispetto dovuto al vostro alto e raro valore, reverendissimo padre, vi mando questa raccolta di vari componimenti, nella quale leggerá un mio, che in lavorando, io mi proposi Vostra Paternitá reverendissima, come quella che, de’ viventi che io conosca, sa pensar grande, affine che avvalorasse i miei sforzi; né ho temuto il raffinatissimo giudizio per emendarne l’ardire; mi ho lusingato di una qualche vostra pregevolissima lode per consolarne il travaglio. Sicché, se contiene alcuna cosa di buono, ella cosí certamente è vostra come i difetti son miei. Il riceva dunque come suo, in quanto è lavoro di mente; come mio, in quanto è un picciol dono che vi fa l’animo in segno della grandissima stima che io fo del vostro singolarissimo merito. E, pregandola a conservarmi nella sua memoria, parte della piú bell’anima di che Iddio adorni oggi la nostra nazione, vi fo divotamente umilissima riverenza, ecc.

Napoli, 4 febbraio 1721.

XIV

del padre Giacco
Ringrazia per l’invio anzidetto.

Il quasi niun commercio che oggimai ho io col secolo, mio gentilissimo signor Giambattista, come mi ha fatto il ritarda-mento delle grazie vostre, cosi cagiona quello del mio rispondervi. Or a farlo con l’ingenuità che co’ valentuomini dell’ indole vostra usar si dee, sul primo ricevere della vostra pregiatissima raccolta non senza qualche riprezzo mi son messo io a leggerne i componimenti, timoroso che, per aggirarsi al torno di argomento non maschio, non avesse a risentirsene la severitá

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troppo gelosa del mio instituto; ma ben tosto al mio scrupoloso timore è succeduto il ragionevol contento di vedere con tanta onestà e decoro trattata una passione alla nostra inferma natura anche troppo pericolosa, che, sii trasportata l’anima dall’altezza de’ sentimenti e dalla signoria dell’espressioni, perde di vista affatto ciò che è terra e fango. La piú parte di questa lode deesi a Vostra Signoria, mio signore, per la scelta non meno da voi fatta di muse cosi savie e pudiche, che per essersi infra di esse segnalata a meraviglia la vostra nel rischiarare con tanta grazia e bellezza il buio più folto della poetica teologia, innestando cosi a soggetto ameno cotanto e festevole, con magistero degno di voi, il serio e ’l grave della più riposta erudizione. Que’ virtuosissimi signori, i cui nomi a rendere, com’è dovere, immortali, celebraste voi per la lingua di un nume, sapran fare al valor vostro quella giustizia che ogni amatore delle buone lettere dee interessarsi a farvi per fomentare in voi quel sublime felicissimo genio onde ricevono novello pregio e splendore le lettere e i letterati. Del rimanente io, che sono obligato a Vostra Signoria assai piú che non sa tollerare la mia picciolezza, vi userò giustizia e gratitudine col pregarvi da quel Signore, che vi ha data anima cosi nobile, a riempiervela di que’ doni onde divien l’uomo santo non meno che savio. E qui, col solito profondissimo rispetto, mi dico, ecc.

Arienzo, 10 marzo 1721.

XV
Di Goffredo Filippi
a Paolo Mattia Doria 34
Si vale dell’autoritá del Vico per una controversia su una formula latina.

Nei giorni caduti passò all’altra vita un cavaliere spagnolo, il quale, dopo parecchie funzioni d’inviato e d’imbasciatore, ha

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fatto piú volte la sua dimora in questa cittá, aspettando gli ordini della corte per qualche altro ministero. Mercé le grandi sue virtú e meriti tanto in risguardo del pubblico quanto del privato, egli è stato compianto universalmente; ed alcuni suoi amici, ottimati genovesi, gli hanno fatto porre sulla tomba l’epitafio che qui acchiudo e che per l’appunto mi fornisce l’occasione d’importunarla con questa lettera. La quistione sta in sapere se « ordo populusque genuensis » significhi latinamente ed elegantemente « la nobiltà e il popolo genovese ». Alcuni hanno preteso che « ordo », trovandosi solitario e da altro epiteto distintivo sprovveduto, non importi piú l’ordine dei nobili che di un altro genere di persone. L’autore all’ incontro pretende che, parlandosi di una repubblica di ottimati, « ordo » in compagnia di « populusque » non possa arrecare a una mente accorta altra idea che quella di nobiltá. Ma quello che piú d’ogni altra cosa il conferma nel suo sentimento si è l’autorità dell’eccellentissimo espositore del ius universale, Giovan Battista dei Vico, il quale nel suo stimabilissimo trattato De universi iuris uno principio et fine uno ben venti volte si serve della voce « ordo » in quella significanza, principalmente alla carta 123: « romana civitas erat ordo et plebs: ordo qui imperaret, plebs quae parerei ».

Per vero dire, questa sola autorità corroborata dalla ragione è bastata all’autore e a quei cavalieri che hanno fatto scolpire l’epitafio. Supplico ora umilmente Vostra Signoria di avvertirmi se io avessi preso abbaglio, per disingannarmi con la cortese sua risposta. E, baciandole riverentemente la mano, mi dedico 35, ecc.

Genova, 11 maggio 1721.

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XVI
Di Aniello Spagnuolo 36
Ringrazia pel dono del De constantia iurisprudentis
ed elogia l’opera del Vico.

Gentilissimo amico e signor mio,

Ricevetti a di passati la seconda parte della dotta opera da Vostra Signoria composta De universi iuris uno principio et fine uno; e perché, essendo io più volte venuto in sua casa, non ho avuto la ventura di trovarvela e sono stato privo dell’onore di sua presenzia nella mia, ho riputato mio debito renderle con questo foglio le maggiori grazie che debbo per si pregiato dono e per l’amorevolezza dimostratami. Com’ebbi il libro, mi posi attentamente a leggerlo con mio grande piacere ed utilità. Per certo egli è un di que’ rari volumi che, quanto piú si volgono, sempre nuove lor bellezze danno ad ammirare. Voi, signor Gio-van Battista, gloriar vi potete non solo di avere inutile renduto ciò che per l'investigazion del dritto naturale e delle genti scrissero Beclero, Guglielmo Grozio, Seldeno, Pufendorfio ed altri, ma di avere fornita quella grande opera che ombreggiò e sforzossi di fare il dotto Ugon Grozio nel suo trattato De iure belli et pacis. Loda ben degna di voi, che gareggiate con lui nella profonda lezione de’ filosofi, giuristi, storici, poeti ed oratori, ma lo superate nella metafisica. Senzaché egli non poche cose tolse da Baltasarre Ayala, che scrisse De iure, officiis bellicis et disciplina militari, e l’immagine con altre assai cose tolse da’ tre libri De iure belli scritti da Alberigo Gentile anconitano; ma a voi è stato sol di aiuto la vostra gran mente, la quale ha in sé abituato un si saldo e luminoso

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raziocinare, che quanto investigar vi brigate intorno alle piú antiche età, lo rinvenite con tanta felicità che par propio che voi foste in ciascuna di esse fiorito. Gran ventura di noi e di coloro che verranno, da che per lo vostro libro ci possiamo dar vanto di avere chiaramente veduto tanti e si ’ntrigati fatti di tempi lontanissimi, senza essere sottoposti allo scempio degli anni !

Mi permetta la modestia di Vostra Signoria che io alquanto piú mi distenda. Avete tolta ed egregiamente fornita una impresa non ancor tentata da teologo e metafisico veruno; impercioché dimostrano costoro l’esistenza di Dio dall’esistenza delle sustanzie, ma voi, con lume non men evidente, il dimostrate dal-l’indifferenti modificazioni, cioè dall’idee e fatti di coloro che fondarono l’antiche ragunanze, repubbliche, imperi e leggi; e, per quantunque regnasse fra lor sovente il disordine e Io scompiglio, pur voi sempre vi ravvisate un raggio di ordine bastante a manifestare l’infinito ordine, che si è Dio. A ragion dunque egli è da affermare che a voi dee molto la giurisprudenzia, peroché l’assimigliate alle piú nobili facultà, che sono la teologia e la metafisica, dandole il medesimo principio ed ultimo fine. Vi dee la poesia il conoscimento della sua vera origine, la mitologia il rischiaramento, la filologia la consonanza ed unitá, ond’ella ne acquista tanta certezza che può annoverarsi fra le scienze. Vi dee (siami lecito cosi dire) la religione, da che stabilite con irrefragabile chiarezza le sue fondamentali veritá e strozzate l’insano ateismo. E finalmente vi dee l’Italia, peroché manifestate col solenne testimonio della vostra immortai opera il lodevolissimo costume che ne’ letterati di essa, e spezialmente della nostra Napoli, fiorisce, cioè di fare l’umana dottrina serva della cattolica credenza, e dirizzare la mente armata di umile e pio agume a trovare e rischiarare (quando però e ’n quanto all’umano intendimento è ciò permesso) le verità che quella n’insegna; nel che il vero savere consiste. Taccio la bellezza del vostro stile, che ravviva il tempo di Augusto, e taccio altre considerazioni, parte delle quali le riservo alla viva voce, peroché a volere dir tutto più tosto mancherebbe il tempo che le cose.

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vi bacio la mano, ecc.

Casa, a di 15 di agosto 1721.

XVII
Di Giovanni Chiaiese
a Nicola Geremia
Disserta in elogio del Diritto universale.

Iohannes Chiaiesus 37 Nicola Ieremiae suo s. d.

Ex quo tantopere commendasti, Nicolaé, non mihi modo sed et musis diarissime, opus egregium viri usquequaque literati lohannis Baptistae Vici, ingens me cupido incessit in tuae esse admirationis parte, ipsa, quam propediem pollicebaris, optimi libri lectione, auctore iam sub manu editionem habente. Augebat desiderium inscriptio, idem propemodum aut certe affine quod mea ἀρχαιονομογονία praeseferens argumentum; nec gravabar quod huic anteverteret et locum ne primus novae commentationis et iampridem a me occupatae auctor essem praeriperet; quin mihi vehementer gratulabar quod ille conspiraverit mecum, tantumque virum antesignanum ducemque haberem. Has habui caussas cur saepius te interpellaverim ut quam ocissime librum mitteres, cuius lectione possem aestivis hisce diebus in hoc suburbano, ab amicis librisque fere omnibus procul, moram trahere longiorem. Iam enim solitudinis inertisque ocii adeo pertaesum erat, ut, spretis medicorum praeceptis, de remigrando in urbem crebro cogitarem. Sed ecce tibi, quae me taedio omni levarunt et in secessu continuerunt, iucundissimae literae tuae cususque liber, adhuc typographica opera calens, quam confestim avide legi et devoravi. Et, mirum, quantum admirationis voluptatisque perceperim!

163 ―

Perfecisse auctorem animadverti quod Cicero libris De legibus desiderabat. Non ille ex Duodecim Tabulis, ut Sextus Aelius aliique superiores, neque a praetoris edicto, ut plerique suo aevo, sed altius, et, ut ipse ex persona Pomponii Attici, a capite ius civile accersivit disciplinamque eius ex intima hausit philosophia: quod profecto munus est optimi jurisconsulti; et qui aliter ius illud tradit, in tenui iurisconsulti officio versari ait. Verum, hoc neglecto munere, ad altiora maioraque aspirans, auctor illud longe praestantius inire voluit promittitque ipsa libri inscriptione: De uno universi iuris principio et fine uno. Quam longe lateque pateat haec suscepta provincia in universali occupata jurisprudentia, vel ipso libri titulo animadvertis, quo idem pollicetur quod sic eo loci Cicero: « Sed nobis ita complectenda in hac disputatione tota caussa est universi iuris ac legum, ut hoc civile, quod dicimus, in parvum quemdam et angustum locum concludatur ». Intra hos romani iuris cancellos angustiasque ille se continere noluit; non quod ius istud aliis aliarum civitatum iuribus collatum minime amplum inagnumque sit, sed quod, collatum cum iure universo, maximi et amplissimi iuris quota sit portio, quemodmodum respublica romana universali mundanaeque comparata reipublicae 38. Audi Senecam: «Duas respublicas animo complectamur: alteram magnam et vere publicam, qua dii atque homines continentur, in qua non ad hunc angulum respicimus aut ad illum, sed terminos civitatis nostrae cum sole metimur; alteram cui adscripsit nos conditio nascendi ». Magno animo auctor magnam hanc complectens rempublicam, magnitudinem eius legis ac iuris contemplatur admiraturque. Nihil enim contemplanti admirabilius, testimonio Manilii:

Nec quicquam in tanta magis est admirabile mole,
Quam ratio et certis quod legibus omnia parent.

164 ―

Hinc ad eiusdem reipublicae magnique iuris conditorem gradum faciens et in pulcherrimas aeternasque eius mentis ideas 39 pro humano captu animum intendens, rutilantem illam iustitiae iurisque agnoscit, itidemque uberrimum universi fontem iuris, cui caeli, terrae, maria, elementa et quae his continentur obtemperant, undeque minora iura deducuntur; adeoque ad ipsum fontem digitum intendit cum ciceroniano Scipione, qui ius dicebat de iustitiae fonte manasse, et cum Ulpiano, qui per speciem etymologine et more stoico affirmat « iuris » nomen a « iustitia » descendisse, hoc est ab eius idea quam platonici ipsam « iusti-tiam » vocant; estque vera et altissima iuris omnis origo, tradita libro primo Pandectarum, titulo primo, cuius prior pars inscripta est: De iustitia. Et quidem optima methodo, qua decebat ut summum caput iuris in ipso librorum capite esset collocatum, eadem-que via et ratione primus titulus primi libri Codicis inscriptus est: De Summa Trinitate etc., quia Christiana religio aliam veram justitiam aliudve summum caput iuris non agnoscit nisi Summam Trinitatem 40, in cuius lucis libro leges scriptae sunt recte vivendi et inde a legislatoribus haustae, adstipulante Augustino (De Trinitate, XIV, 15), cuius verba digna relatu sunt: « Ubinam sunt istae regulae scriptae? ubi quid sit iustum et iniustus agnoscit? ubi cernit habendum esse quod ipse non habet? ubi ergo scriptae sunt, nisi in libro lucis illius, quae Veritas dicitur, unde omnis lex iusta describitur?», etc. Quae vero iustitia finis est iuris, non illa est, sed illius imitatio effigiesque, crebris iustis illique similibus factis habituque voluntatis expressa et quidem mutabilis: sive hominis voluntatem spectaveris, quae in dies et horas mutatur, sive eius habitum, qui vix quidem et aegre deletur, non autem est indelebilis, constans, perpetuus, vicio humanae imbecillitatis; atqui illa aeterna est, immobilis, immutabilis, praestantia et constantia divinae mentis. Quamobrem

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haec definita est illic ab Ulpiano: « constans et perpetua voluntas », et proposita a Triboniano et compilatoribus, ut esset exemplar ad quod quisque, tanquam ad cynosuram, respicere debeat habeatque optimum quod sequatur, tametsi non assequatur; prima enim sequentem, honestum est in secundis tertiisque consistere, et magna sunt ea quae sunt optimis proxima. Itaque respicit ad hanc cum primis legislator condendo leges, dein eas exequendo magistratus, interpretando respondendove iurisconsultus, cives obtemperando, quorum varia licet sit imitatio, unam tamen eandemque refert iustitiam archetypam, sed quam formant obtemperantes cives imaginem ea sola finis est iuris; quam vero exprimit legislator suis peculiaribus legibus vel secundum illas magistratus ius dicens vel respondens in-terpretansque iurisconsultus, haud finis iuris est, sed ad hunc finem adipiscendum obtinendumque, instrumentum 41. Nulla ergo harum imaginum ipsissima iustitia est, quam finivit Ulpianus et ab omnibus spectandam proposuit romanus legislator initio suae Nomothesiae, cuius votum fuit ut quisque contenderet ad eam, et inde imaginem eius duceret quo pulchrior ac similior esset exemplari, haud ignorans paucis quos aequus amavit Iupiter id datum; iccirco multitudini, cui negatum, suis legibus descriptam iustitiae imaginem, cognitu facilem, omnibus obviam exhibuit, ne difficultatis obtentu ab illius cultu retraherentur, mediis contentus officiis, quae laudabiles reddunt obtemperantes cives. An etiam laudandi sunt jurisconsulti, qui solam iustitiam in legibus descriptam venantur, germanam vero atque ideam eius ignorant! Certe hoc dat Cicero primo De legibus nemini, iurisconsultos exagitans, qui magna professi in parvis versantur, et alibi Servium Sulpicium commendans, qui non magis iuris consultus quae iustitiae fuit et quae proficiscebantur a legibus semper ad aequitatem referebat. Et haec, quam legibus opponit, aequitas, non alia est nisi quae nullis scriptis legibus continetur, non alia nisi summa ratio insita in natura atque
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confecta et confirmata in mente sapientis; iusque naturale dicitur a Paullo, Ad Sabinum, « quod semper aequum et bonum est » nempe universe, illi soli notum iurisconsulto, qui universam adeptus est jurisprudentiam ex scientia divinarum et humanarum rerum, quarum sua aeterna lege iureque universo moderator est Deus. Ad hanc legem universumque ius mentis suae aciem, tanquam ad caput et originem omnis iuris, convertit auctor, plane iutelligens quantum haec origo illi praestet origini, quae traditur sequenti titulo secundo Pandectarum, qui quoniam diserte inscribitur: De origine iuris, arbitrati sunt interpretes in eo omnem omnino originem tradi, praecedentemque primum titulum iuris duntaxat finem indicare et ob eam rem in eius enarratione praestantiorein originem silentio transmisere. At auctor maxime huic incumbit aliamque de qua titulo secundo, qui primi est appendix, secundae notae habet et gradum duntaxat esse in ascensu ad germanam originem persentit. Coepit enim ab Urbe condita, auctorem habuit populum romanum, profectaque est a quibusdam adiectionibus et detractationibus factis iuri communi, auctore Ulpiano in lege 6 Digesti, De iustitia et iure. Atque adeo iuris romani ουσία καί ηγεμονικόν, proxime a iure communi universoque derivatum, altiorem habet originem aeternamque, accuratiori indagine sane dignam. Memini hac de re verborum Ciceronis ex secundo De legibus·. « Et haec et alia iussa ac vetita populorum vim non habere ad recte facta vocandi et a peccatis avocandi: quae vis non modo senior est quam aetas populorum et civitatum, sed aequalis illius, caelum atque terras tuentis et regentis Dei. Neque enim esse inens divina sine ratione potest; nec ratio divina non hanc vim in rectis pravisque sanciendis habet; nec, quia nusquam erat scriptum ut contra omnes hostium copias in ponte unus assisteret a tergoque pontem interscindi iuberet, iccirco minus Coclitem illum rem gessisse tantam fortitudinis lege atque imperio putabimus; nec si, regnante L. Tarquinio, nulla erat Romae lex de stupris, iccirco non contra illam legem sempiternam Sext. Tarquinius vim Lucretiae, Tricipitini filiae, attulit: erat enim ratio profecta a rerum natura et ad recte faciendum impellens
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et a delicto avocans, quae non tum denique incipit lex esse cum scripta est, sed cum orta est; orta est autem simul cum mente divina. Quamobrem lex vera atque princeps, apta ad iubendum et ad vetandum, ratio est recta summi Iovis ». Commemini etiam ex Philippica XI, concinnae definitionis huiusmodi: « Est lex nihil aliud nisi recta et a numine deorum tracta ratio, iubens honesta et prohibens contraria ». Non apparatus atque ornatus gratia dixit Cicero «nihil aliud », sed ut discluderet quicquid non est tractum a numine, sed aliunde ascitum et accersitum; nec quia adiunctum est legi, iccirco cum illa confusum est; nam, ut ita dicam, adplumbatum est non ferruminatum: quare eiusdem legislatoris arbitrio replumbari et abrogari potest, et magis favore, ut idem secundo De legibus ait, quam re legis nomen tenet. Non ita vera lex, quae non a legislatoris arbitrio et auctoritate, sed ab aeterna numinis mente profecta est; quae figi refigique nullo tempore nulloque potest modo, vivitque vita numinis sempiterna, obliteratisque tabulis quibus continebatur, mutataque voluntate eius qui eam scripsit, deletaque republica cui scripta fuit, ipsa nihilominus permanet, aeternumque manebit in suo principio, de quo scriptum est: έν αύτφ ζωή ήν. Et hoc est quod edisserit auctor et a vestigiis indagat; quandoquidem omnem mente dilucida orbem collustrat versatque omnia tempora vel obscurissima et pleraque reticentiae tenebris obducta novo lumine ab oblivione vindicat; nam in quibus omnis deficit historia, in iis praesto est ei philosophia 42, cuius alis ad sublimia et aeterna ascendit principiumque iuris invenit universi; cuius semina, ceu sparsa quaedam vestigia in priscis poetarum sermonibus, in antiquissimarum rerumpublicarum primordiis, in vetustissimarum gentium moribus et Duodecim Tabularum fragminibus quamplurimum iuris primarum gentium continentia, praelucente metaphysica face deprehendit, ut nihil dicere possis quod in ea indagine non vestigatum reliquerit. Vide quantum a ceteris originis iuris civilis vestigatoribus distet! Illi in unis cunabulis
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et urbem et ius quiritum velut geminam prolem simul vagivisse arbitrati sunt; hic nullam aliam iuris romani infantiam praeter imposititiam agnoscit, originemque eius aeternitate metitur aequalemque esse intelligit origini anus fatidicae Stoicorum. Eapropter in suo optimo opere fundamenta non modo Romae transcendit, sed et aliarum, quae usquam et unquam fuerunt, civitatum, vel ultimarum; et, ne quidem in illarum consistit vetustissimis initiis, sed ultra progreditur ad segreges primasque recens nati mundi familias, inquiritque in iis minima obscuraque iuris civilis semina, a natura quidem subserviente iacta, a principe vero natura humano generi praeclaro munere, auctore etiam Marciano, donata, hoc est, a Deo, qui verbis Senecae «totus ratio est», huiusque nobis donatam particulam nostri partem meliorem esse voluit, quique solus est Unum, solus Principium ύπεροχικώς, de quo Plato, pythagorissans in Parmenide, sed verius ipsemet suo pronunciavit oraculo: ενός’ δε έστι χρεία, et Iohannis ore: Έγώ εἰμι τὸ Α καὶ τὸ Ω, ἀρχὴ καὶ τέλος 43, et ab omni uno omnique principio sua eminentia distat, de qua Dionysius Areopagita, De divinis nominibus, cap. 13, § 2: έν δέ, δτι πάντα ένιαιώς έστί κατά μιας ένότητος ύπεριοχήν. Quamobrem veteres theologi, quoties quid de Deo affirmabant, praepositione utebantur υπέρ, et αὐτό, quam loquenti formulam explicat Pachymera in paraphrasi eiusdem libri De divinis nominibus, capite i 44. An non propterea dicam, eandem ferme laudem auctorem inter iuris interpretes promereri, quam prae aliis Evangeliorum scriptoribus meritus est Iohannes, qui sacrosanctum novumque foedus, non a Davide, ut Mathaeus, non a Zacharia, ut Lucas, non a Praecursore, ut Marcus, sed ab hoc, quod dicebam, principio exorsus est: έν αρχή ό Λόγος etc., et ob id aquilae a sacris interpretibus comparatur. Eas mihi sit analogia quadam eandem comparationem ad auctorem optimi huius operis traducere: cum videam alios interpretes,
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qui iuris originem commentariis alioquin doctissimis ornarunt, non altius urbis Romae initiis mentis aciem intendisse, ipsum vero usque ad altissimum caput iuris pervenisse, unde omnes iegum civilium nervi et, ut ita dicam, sensus originem capiunt; eoque inspecto, leges veras de facie agnovisse ac discrevisse ab assimilatis; caput, inquam, veri iuris, in quo germanae jurisprudentiae oculi micant, vidisse, sine quibus haec caeca est et palpat in tenebris; nec alia ratione « divina avis » appellata est aquila nisi quia locis nidulatur celsioribus volatque sublimius et longe eminus cernit: similia in auctore admirabere, si mentis acumen sublimitatemque suspexeris illamque ad aeterna et caelestia subvolantem. Quid quod non suae mentis modo celsitudinem acumenque ostendit; sed discentium etiam inertes hebescentesque mentes quasi ophtalmacis quibusdam pharmacis adeo acuit, ut remotissiman caligineque antiquitatis et aeternitatis offusam iuris stirpem claro cernere possint intuitu? A quo etiam medicamine aquilam commendat Aelianus: Εί ων μελιτί τις Άττικω την χολήν αύτοϋ διαλαβών ύπαλείφοιτο αμβλυνόμενος οψεται, καί ύξυτάτους γοϋν Ιδεΐν έξει τούς οφθαλμούς. Et quamvis nihil in auctore fellei, nihil amarulenti invenias, inest tamen singularis ingenii acrimonia, quae aliorum ingeniis quasdam adfert utilitates illis persimiles, quas nostro corpori χολή, quippe frigida excalefacit, ignava excitat, crudas incoctasque doctrinas digerit expurgatque ab omni faece erroris et falsae persuasionis, unde valeant sanam inde haustam eruditionem in succum sanguinemque convertere 45. Accedit lepos mellitusque stylus, quo quicquid in eius erudito opere traditur attico meile conspersum dixeris.

Pluribus fortasse, quam par erat, oneravi epistolam; sed quid sentirem de libro, ut dicerem, efflagitasti: dixi ex animo, nec potui brevius coetera coram. Gratias tibi de mirifico munere maximas ago: salutem multam auctori dicito. Vale.

In Antiniano, id. augusti mdccxxi.

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XVIII
Al padre Giacco
Manda il De constantia iurisprudentis.

Mando tutto altiero e poco men che baldanzoso a Vostra Paternitá reverendissima il secondo libro, perché sopra degli altri, onde si pregia, il mando ornato del vostro gravissimo giudizio, col quale Ella parlò di tutta l’opera come giá compiuta sopra tutto il suo dissegno; perché con quel suo altissimo intendimento giá avvisava ne’ princípi del primo, come ne’ semi i frutti, contenersi i corollari di questo secondo. Gl’ingegni corti o limitati ne dubbitavano, e la piú parte tenevan per certissimo che io a mezzo il corso mancassi. Spero in Dio (e ne avrò di questa sua divina grazia manifestissimo segno dal vostro temuto giudizio) di aver io complito ed al mio debito ed alla vostra mallevadoria, con la quale Ella assicurò il pubblico de’ letterati, con avvalorar me a soddisfare al mio debito. Io tanto anzioso ne attendo i riscontri quanto bramoso vivo dell’onore de’ suoi pregiati comandi; e mi rassegno, ecc.

Napoli, 9 settembre 1721.

XIX
DI BIAGIO GAROFALO
Ringrazia per l’invio del libro anzidetto.

Il dottissimo libro, che Vostra Signoria illustrissima mi ha fatto capitare nelle mani per mezzo di mio nipote, mi è stato assai caro, perché, oltre l’onore ch’Ella mi ha voluto dispensare con questo suo pregiatissimo dono, si è compiaciuta altresì darmi l’occasione di approfittarmi in poco tempo di tante belle e nuove idee di somma sapienza. Per quanto ho potuto osservare in due giorni da che 1’ ho ricevuto, vi veggo per dentro

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un metodo geometrico col quale tratta di materie cotanto varie e difficili, le quali sono regolate da una vera e soda metafisica, e spiegate in istile a cui la brevità e ’l laconismo che usa non toglie la chiarezza e la perspicuità d’intendere ciò che volete esprimere; a segno che mi sono rallegrato fra meco stesso dell'altissima riputazione in cui Ella è salita per tale opera non men fatigosa che dotta, ed in cui fa sormontare eziandio la nostra città, sempre mai feconda di sublimi e divini ingegni, i quali in ogni tempo l’hanno resa celebre e gloriosa sopra le altre di Europa. Non mancherò di leggerla ordinatamente e con maggior attenzione per trarne quel profitto e giovamento che mi sarà conceduto dal mio tardo ingegno, con comunicarla ad altri miei amici i quali su detta materia han buon gusto e pensano assai bene. Per ora rendo a Vostra Signoria illustrissima le maggiori grazie che posso di si raro e pregiato dono, che Ella si è degnata di farmi, conservandogliene le mie grandissime obbligazioni, le quali non posso abbastanza spiegare. Intanto, desideroso di un suo comando, le rinovo le mie premurose istanze e l’eterne obligazioni che le professo, confermandomi per sempre, ecc.

Roma, 13 settembre 1721.

XX
DEL PADRE TOMMASO MARIA MINORELLI
Ringrazia per l’invio del Diritto universale.

Il nome del signor Vico, il di cui merito nella repubblica delle più erudite lettere è già in pieno possesso di una riputazione che è somma, non ha bisogno di esser lodato principalmente da chi non ha capacità per degnamente lodarlo. Io perciò consigliatamente m’astengo dall 'esprimermi con sentimenti di lode intorno la sua dottissima opera, perché questa distingue col più glorioso credito il suo chiarissimo auttore da tutti gli altri che sono lontani dall’essergli uguali nel tanto sapere. Mi

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restringo dunque solamente a rendergli umilissime grazie per l’onore con cui ha voluto favorire questa nostra biblioteca 46, arricchendola col suo eruditissimo libro, che senza dubbio sará un de’ piú degni ornamenti di questo sacrerio di lettere. Tengo per certo che i letterati di miglior gusto uniranno con l’approvazione dell’opera Pavidamente approfittarsene. Quanto a me, ne formo un cosi risoluto giudizio, perché a cosi giudicarne mi obliga il conoscerla e giustamente ammirarla cosi ben ricca di profonda dottrina e della più scelta erudizione: pregi che s’incontrano in pochi quantunque de’ più celebri e de’ più rinomati. Pertanto, col solamente attestarle la più ossequiosa cognizione de’ miei obligati doveri, aggiungo il rassegnarmi, ecc.

Roma, 27 settembre 1721.

XXI
DEL PADRE GIACCO
Ringrazia per l’invio del De constantia iurisprudentis, che elogia.

Per mezo del signor don Alfonso Carfora, mio genialissimo padrone ed estimatore assai parziale del valor vostro, inio riveritissimo signor Giambattista, mi fu reso giorni addietro il secondo libro della grande opera vostra. Io l’ho letto con quel gran piacere che sentirebbonvi certamente tutti gli addottrinati, se usar volessero, in leggendolo, o d'un tantino di ragionevol passione, o veramente di una indifferenza, fui per dire, affatto scettica; imperocché una delle due, se io non abbaglio, fa mestieri a ben ricevere e restar persuaso di certe verità, come sono non poche di quelle che voi venite maravigliosamente dimostrando, opposte anche troppo alla comune invecchiata credenza e a quella malnata ritrosaggine che noi uomini abbiamo a disimparare con profitto e con lode ciò che dopo lunga stagione -e fatica ci venne Iddio sa come imparato. Aggiugnete che, essendo

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le tante belle cose che voi mettete jn luce si fattamente infra di loro attaccate che mal può divisarsi il vero dell’una senza por gli occhi a quello delle altre, uom che non abbia e ampiezza di mente per comprenderle tutte insieme e la fortezza necessaria a tener giù l’audacia tiranna di nostre torte prevenzioni, difficilissimamente potrà formarne dritto ed uguale il giudizio; e conciossiaché ad assai pochi toccò dal cielo si bella grazia e ventura, ei non è quinci per niente da maravigliare se pochi siano gli approvatoti della maravìgliosa opera vostra. Ma ben voi, signor mio, che siete savio non meno che scienziato, devete soddisfarvi dell’approvazion di tai pochi, e, in mancanza eziandio di costoro, soddisfarvi soltanto di voi medesimo; che ben la Dio mercé avete in voi solo di che pienamente esser pago e contento, cioè dire di quel gran fondo di sapienza verace ond’è ricca la mente vostra, col divino genio di farne, qual pur ne fate, altrui graziosissima copia. Del rimanente io vi rendo, signor mio, grazie infinite dell’onore segnalatissimo che vi è piaciuto di farmi del palesare al publico l’unico pregio onde io vado giustamente altero, di esser, qual sarò sempre, ecc.

Arienzo, 3 ottobre 1721.

XXII
Al padre Giacco
Narra le accoglienze fatte dai letterati napoletani al giudizio del Giacco
(lettera X) e ringrazia della lettera precedente (XXI).

Quinci può Vostra Paternitá reverendissima facilmente conoscere quanto sia grande l’auttoritá che nella repubblica de’ letterati Ella hassi meritevolmente acquistato, che non sono mancati di alcuni a’ quali la mia opera dispiace, che sono iti dicendo il padre Giacchi mal soffrire che io mi fussi onorato col pubblico del suo giudizio che per sommo onor mio con la sua prima lettera ne aveva dato. Ma quanto sono perversi i pensieri degli stolti! Nello stesso tempo che essi fan sí gran

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conto di una sola vostra testimonianza, v’appiccano una di voi indegnissima taccia di simulato, e che non sia Ella quel padre Bernardo Maria ornato a meraviglia di una santa spartana gravitá, con la quale tal si porterebbe se vivesse tutto solo nel mondo, quale pur si porta pieno di splendore in mezzo alla pubblica luce di rigidissimi religiosi e di gravissimi letterati. Ma la virtú, per lo sentiero che indispensabilmente solo le apre la veritá, tien sí dritto in mezzo agli errori dell’ignoranza e le traversie del vizio, che in brieve spazio aggiunge tutti i lontani e corre la sterminata lunghezza dell’avvenire; onde è che i cuori de’ sapienti son creduti indovini e che essi abbian forza e potere sopra le stelle. Vostra Paternitá reverendissima, come se le fosse gionta all’orecchio questa falsa voce, con quanta grandezza d’animo con altrettanta gentilezza d’espressione ha pubblicato al mondo la sua buona grazia di ciò che io, non per presonzione o congettura, ma perché conosceva il vostro petto veracissimo e la vostra anima generosa, come per espressa ordinazion vostra, aveva giá fatto, adornandomi con tutta la letteratura della vostra prima onorevolissima lettera.

Ora scenda Ella con l’alta sua mente nel profondo dell’animo mio, e veda quanto sono umili le grazie che sopra la prima io le conservo per la seconda vostra risposta. Io, per mio sommo pregio, ne ho dato copie ad altri signori approvatori dell’opera mia, i quali l’hanno letta con istima e piacere egualmente sommi, e sopra tutti il signor don Agnello Spagnuolo, che umilissimamente vi saluta; il quale ben tre volte attentissimamente la rilesse, e finalmente, con un bacio che con singolar rispetto v’impresse, proruppe in queste parole: — Lettera degna d’esser trascelta tra i piú colti scrittori del Cinquecento, la quale, non che ’l vestito e ’l corpo, ha tutta l’anima del favellar grande toscano! — Io invero, se fosse ad altrui toccata la sorte di tanto onore che Vostra Paternitá reverendissima ha fatto a me, direi che la vostra lettera può servire di regola e di norma a chiunque vuole imparare tutte ad un tempo due difficilissime cose, cioè uscire da vecchi errori e apprendere veritá non piú udite; che gli faccia mestieri o d’una prudente

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oppenione di credito inverso di chi l’insegna, come la si acquistarono tutti gli altri filosofi che, insegnando pubblicamente, tratto tratto andarono salendo in grido di valenti maestri e si stabilirono le loro nuove dottrine, o di vestire un temporario scetticismo col quale vadano a leggere o, per meglio dire, a meditare attentamente libri di nuove scoverte, con animo risoluto e fermo di niegar tutto che non gli costringa la forza d’una invitta evidenza a riceverlo; come troppo accortamente volle che seco si usasse da’ leggitori della sua Metafisica Renato delle Carte, il quale per questa unica altra strada previdde poter fondare una filosofia tutta nuova da’ suoi riposti ritiri, senza pubblicamente professarla nell’academie. E quindi è incomparabile la delicatezza dell’apparecchio col quale presentate magnificamente la lode a’ signori letterati che han degnato per loro bontá lodare l’opera mia, e dell’alta comprensione delle loro menti e della libera signoria sopra le passioni villane. Tal meravigliosa destrezza vi fu dettata, cred’io, dalla vostra eroica modestia, essendo Ella uno di loro.

Ma, intorno a ciò che Ella dice dover io quinci contentarmi dell’approvazion di que’ pochi a’ quali stea ben tal vostra loda, i quali sono pochissimi, egli non mel detta la moderazion dell’animo, ma una certa superba necessitá, nella quale io volontariamente entrai quando nella mia vita letteraria mi proposi una volta unicamente piacere ad uomini in grado eccellente dotti e per valor singolari, tra’ quali Ella, come un primo personaggio, mi è sempre stata fissa dinanzi gli occhi della mente in tutta la maestá la quale spiega in porgendo le sue divinissime dicerie. E, concedendo a voi la rara grandezza di animo, con la quale, sulla vostra coscienza di aver ben oprato, fate immortal teatro alla vostra virtú, io, che per la bassezza del mio spirito mi vo cercando di fuori, rendo infinite grazie al sommo Iddio, dator d’ogni bene, perché io non restassi abbattuto e vinto da quest’ultimo colpo di rea fortuna che avessi dispiaciuto a coloro a’ quali sonmi sempre studiato unicamente piacere. Onde ora i rabbiosi morsi, co’ quali mi lacera la maliziosa ignoranza, consolo gustando il soavissimo frutto d’aver piaciuto a voi soli,

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com’egli è una coppia di lettere (perché finora non ho mandato fuora ad altri i miei libri), una del signor Biagio Garofalo, l’altra del padre Tommaso Minorelli, nomi che Ella ben sa assai distinti in Italia per la lor grande letteratura, le quali ora le ’nvio perché Ella goda sentirsi alla sua censura far eco uomini di tal rango.

E, con ogni ossequio baciandole la riveritissima mano, mi confermo, quale mi glorio essere, ecc.

Napoli, 27 ottobre 1721.

XXIII
Al principe Eugenio di Savoia
Invia un esemplare postillato del De uno e del De constantia.

I sane codex — faustissimo auspicio lucubratus — qui — omnium quotquot fuerunt, quot sunt eruntque — maximum belli imperatorem — quem omnes orbis terrarum longinque videre desiderant — omnes omnium aetatum posteri vidisse desiderabunt — musaeque nunquam satis collaudant — et sapientia libris expressa semper admiratur maiorem — musarum sapientiaeque opera versantem — ubi a bellicis curis ociari licet — de imo ipsius regiae bibliothecae loco — fortunatus videbis — si is te conspexerit fortunatior — si in manus sumpserit fortunatissimus — at si te forte legerit — paries immortalitatem auctori 47.

[Napoli, fine del 1721 o princípi del 1722.]

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XXIV
A Giovanni Leclerc
Invia il De uno e il De constantia.

Il piú forte, anzi l’unico stimolo, che mi ha portato a meditare questi libri è stata la fama di Vostra Signoria illustrissima sparsa per tutta l’Europa, che la celebra prencipe de’ letterati di nostra etá; e in conseguenza mi ha acceso di farmi alcun merito, quantunque picciolo, di venire alla vostra cognizione e godere della vostra riputatissima padronanza. E poiché egli va cosí, che, proponendosi un grande essemplo, possa alcun fare qualche cosa mediocre, se questa mia debolissima fatica contiene alcuna cosa che meriti qualche lode, ella essendo da Vostra Signoria illustrissima provenuta, ragion vuole che a lei stessa ritorni. Il reverendissimo padre Tomaso Alfani, nostro chiarissimo letterato, che gode la vostra corrispondenza, mi ha dato una nobile occasione di dedicare la mia servitú all’eccellentissimo signor conte di Wildenstein e di priegarlo che di Lovanio, ove si porta agli studi, generosamente mi favorisse usar bontá fargli ricapitare in vostro potere; e cosí il pregio, che l’opera non ha in se stessa, il riceva dalla chiarezza del personaggio dal quale verrá nelle vostre pregiatissime mani. Ora, per quanto io devo temere del vostro da per tutta Europa riverito giudizio, tanto confido nella vostra somma umanitá a compatirne gli errori, nati dalla mia debolezza dell’ingegno, scarsezza di erudizione e finalmente dall’avversa fortuna, che non mai mi ha conceduto un poco d’agio necessario per la meditazione. Priegola dunque umilmente che voglia gradire nel picciolo e rozzo dono l’animo di uno che, facendole profonda riverenza, con tutto ossequio si dichiara e rassegna, ecc. ecc. 48.

Napoli, 9 gennaio 1722.

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XXV
Al padre Giacco
Manda la raccolta contenente l’orazione in morte della contessa d’Althann.

Prendo invero un grand’ardimento d’inviare a Vostra Paternitá reverendissima questa mia orazione tessuta in italiana favella; ma che aveva io a fare, se me ne faceva forza una certa giustizia? Poiché, se questa contiene alcuna particella di buono, tutta è dovuta a voi, che siete la norma somma e sovrana dell’eloquenza de’ nostri tempi, la quale io unicamente mi ho proposta in meditar questa diceria e come se l’avessi a porgere alla vostra presenza; onde, se trall’ombre de’ suoi difetti risalta alcun buon lume, egli vien da voi come di riflesso e torna a voi medesimo di riverbero. Ella non voleva affatto venirvi innanzi; ma finalmente ve l’ho indotta, persuadendogliele sí dalla necessitá fattami dal comando che io n’ebbi di vestirla in questo idioma, e che voi, tra ’l brieve spazio che la degnarete leggere, scendereste da quella rara sublimitá delle vostre maravigliose divine ideee e la guardareste col solo aspetto dell’umano vostro gentilissimo animo, col quale l’aveste da scusare e da compatire. Arei forse fatto meglio non inviarlavi; ma ho temuto che ’l sommo amor vostro verso di me non lo avesse attribuito piú tosto ad atto di poca attenzione che di modestia. Però, siami io pure sfacciato, giugnendo questa da voi, vi dirá esser lei un segno manifesto che io non ambisco altro al mondo che di piacere a voi, a cui facendo umilissima riverenza mi rassegno, qual per mio sommo pregio appo tutti mi professo, di Vostra Paternitá riveritissima, ecc.

A cui rispettosamente soggiungo di avermi presa con lei sola la licenza d’aggiugnere all’orazione un tratto, che per certi riguardi ho temuto d’esporlo al pubblico.

Napoli, 3 giugno 1724.

179 ―

XXVI
DEL PADRE GIACCO
Risponde, ringraziando, alla lettera precedente.

Il crudo spettacolo di morte che per lungo spazio ho io qui avuto sugli occhi in un nostro religioso fratello, che finalmente è passato dal tempo all’eternità, mi ha riempiuto per modo l’animo, che non mi ha permesso di prima rendere a Vostra Signoria, mio signore, quelle grazie che ora vi rendo moltissime della orazione, di cui vi siete degnato di farmi il pregiatissimo dono. Io l’ho letta non una ma ben tre e quattro volte, e sempre con quel piacere che ad animo ingenuo e sincero recar suole il maschio e verace bello di una eloquenza grande e signorevole. Mi piace di credere che un pari affetto avrà cagionato in tutti coloro che sono giudici competenti di simigliami difficilissimi lavori, e che perciò ve n’abbian data quella lode alla quale voi generosamente sovrastate per la secura coscienza di meritarla lungamente maggiore. Cosi aveste voi, signor mio, più spesse le occasioni di essercitare in opere si fatte il vostro conosciuto valore, come non arebbe la italiana favella, in questa parte che a lei manca, di che invidiare alla latina! Ma l’infelicità del nostro secolo tradisce l’adempimento di un desiderio che, se non ispunta in cuore a molti, la è colpa o della negligenza o della malizia. Godete voi, signor mio, di voi stesso e di que’ doni ond’è ricca la vostra grand’anima, e facciànci a sperare dalla Provvidenza ciò che a torto ci vien dinegato dagli uomini, poco o nulla estimatori della virtù quando che sposata non sia ad una splendida fortuna. Del rimanente, continovatemi, vi priego, la vostra buona grazia e datemi il come giustamente godere del per me troppo onorevol titolo di vostro, ecc. —

Arienzo, 15 luglio 1724.

180 ―

XXVII
DEL PRINCIPE EUGENIO DI SAVOIA
Ringrazia per l’orazione in morte della contessa d’Althann.

Siccome il signor abate Garofalo ha, in conformità di quanto lo incaricai, passati presso di lei in mio nome gli uffici di ringraziamento per l’opera virtuosa di cui ha voluto favorirmi la cortesia sua, cosí con la presente le ne confermo l’obbligo mi corre seco e ne la ringrazio nuovamente, anche per le espressioni particolari che leggo nella lettera sua in data de’ 25 scaduto. E qui desiderando aperture di potermi impiegare nelle di lei occorrenze, le bramo frattanto ogni più compiuto bene, e sono con parzialità, ecc.

Vienna, 29 agosto 1724.

XXVIII
A monsignor Filippo Maria Monti
Lo prega di far gradire al cardinale Lorenzo Corsini la dedica
della Scienza nuova in forma negativa, della quale espone il disegno.

Il mio pregiatissimo signor abbate Garofalo mi ha mostrato una lettera di Vostra Signoria illustrissima a esso lui di risposta, piena di sommo onore e singolar cortesia vostra verso di me e della consaputa opera da me lavorata, che Ella gentilmente si profferisce promuovere alla protezione dell’eminentissimo signor cardinal Corsini; da’ quali vostri distinti favori sopra ogni mio merito io ora prendo ardire di dedicare a Vostra Signoria illustrissima la mia servitú e di professargliela quanto piú so e posso obbligata, e d’inviarle in una cassetta per lo procaccio le mie seriose deboli fatighe giá edite: primieramente perché sieno onorate di aver luogo nel vostro dotto museo, dipoi in picciol segno dell’animo mio obbligato, e in

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fine perché, se ’l signor cardinale per fortuna la richiedesse di vedere altre mie opere, Ella ne abbia copia di dimostrargliele.

Di piú è nella cassetta, frapposta tra due libri, la lettera dedicatoria a Sua Eminenza. Ella è aperta perché Vostra Signoria illustrissima, prima di farmi l’onore di presentargliela, la legga, se la stimi degna: altrimente, la priego a comunicarmi il suo oracolo, che mi sia regola nel migliorarla.

Se finalmente a Sua Eminenza venisse in talento di sapere l’idea dell’opera, acciocché Vostra Signoria illustrissima possa dargliene un saggio, ella tratta de’ princípi del diritto naturale, che si è andato dalle sue prime origini spiegando tratto tratto coi costumi delle nazioni; e serba quest’ordine. Si confutano innanzi i tre sistemi, prima del Grozio, il quale, come sociniano, pone la natural innocenza in una semplicitá di natura umana; dipoi quello del Seldeno, perché di fatto non ebbe mai uso alcuno appo le altre nazioni; finalmente quello di Pufendorfio, che pone un’ipotesi scandalosa dell’uom gittato nel mondo senza cura o aiuto d’altrui; e si riprendono tutti e tre per due ragioni comuni: una, perché niuno vi stabilisce per propio e primo principio la Provvidenza; l’altra, perché le auttoritá, con le quali ciascuno conferma il suo, almeno circa i tempi oscuro, favoloso e istorico vicino alle favole, non han certezza di significazione. Quindi i princípi di tal dritto si vanno a ritrovare dentro quelli della sacra storia, che anche per umana credenza è la piú antica di tutte che a noi son giunte, anche la favolosa de’ greci; e quivi umanamente si stabiliscono con la dottrina platonica che serve alla Provvidenza, e si difendono contro il fato degli stoici, il caso degli epicurei, e si confermano contro Obbes, Spinoza, Bayle ed ultimamente Locke, i quali tutti, con quelle stesse loro dottrine con le quali oppugnano le massime civili cattoliche, si dimostrano andar essi a distruggere, quanto è per loro, tutta l’umana societá. Finalmente, per tre epoche poste dagli egizi di tutti i tempi scorsi loro dinanzi, che sono le tre etá degli dèi, degli eroi, degli uomini, sí fatti princípi si scuovrono di fatto dentro le favole de’ greci, e si spiegano con necessitá filologica nel carattere o sia istoria favolosa del

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loro Ercole tebano; ed osservando e i greci e gli egizi in ogni antica nazione un Ercole fondatore, come Varrone ne giunse a numerar ben quaranta, si ravvisano tai princípi uniformi in tutte le nazioni antiche, e sono gli stessi sopra li quali i romani si governarono nelle cose sí della pace come della guerra.

E, pregando Vostra Signoria illustrissima umilmente ad iscusarmi se l’ho travagliata di molto ed a seguitare a favorirmi come sí generosamente ha Ella incominciato, con farle ossequiosissima riverenza mi dichiaro, ecc.

Napoli, 18 novembre 1724.

XXIX
Al cardinal Lorenzo Corsini
Abbozzo di lettera non spedita per ringraziare il Corsini
di avere accettato la dedica della predetta opera.

Con l’umiliazione piú ossequiosa m’inchino a professare a Vostra Eminenza gl’infiniti obblighi per l’altezza dell’animo onde ha Ella degnato con sensi sí generosi e propi della vostra grandezza di gradire una mia umile e riverente offerta, che io, non avendo l’ardire da me stesso, m’avvanzai d’umiliargliela per mezzo del signor don Francesco Boncore. Talché benedico tutte le mie lunghe e penose fatighe che per lo spazio di tanti anni ho speso nella meditazione di questa mia opera che sta per uscir alla luce, ed in mezzo alle avversitá della mia fortuna abbia menato tant’oltre la vita, che portassi a compimento questo lavoro che mi ha prodotto il merito o, per meglio dire, la buona ventura di compiacersene un principe di Santa Chiesa di tanta sapienza e grandezza di quanto la fama da per tutto con immortali laudi la celebra. Onde, per non perdere una tanto per me onorevole occasione, con l’istessa umiltá di spirito mi fo ardito di dare a Vostra Eminenza una piena testimonianza dell’animo mio grato e riverente, di annunciare propizio questo giorno tanto nella Chiesa segnalato e memorabile...

[Napoli, 26 dicembre 1724].

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XXX
Al cardinal Lorenzo Corsini
Rifacimento della lettera precedente.

Il chiaro e distinto onore di cui l’Eminenza Vostra benignamente si è degnata colmarmi, essendosi compiaciuta di gradire con una generositá propia della vostra grandezza un mio umile ed ossequioso desiderio di consagrare sotto l’alto e potente vostro patrocinio un debol parto del mio scarso ingegno che sta per uscire alla luce, acciocché quel credito, che l’opera in se stessa non ha per il poco pregio dell’autore, possa sicuramente conseguirlo col portare nella sua fronte lo splendore del luminoso nome vostro, mi dá ora lo spirito di non perdere un’onorevole occasione di dare a Vostra Eminenza una piena testimonianza del mio animo umile e riverente, di annunziarle propizio questo giorno tanto per noi segnalato e memorabile, augurandoglielo con que’ piú fervidi voti che l’animo mio può concepire, continuato da una lunghissima serie d’anni per la felicitá della cristiana repubblica; sperando che l’Eminenza Vostra, con quell’istessa grandezza d’animo colla quale anticipatamente si è compiaciuta della mia tenue ossequiosa offerta, voglia gradire questi miei sinceri sentimenti, mentre io, profondamente inchinandola, mi rassegno umilmente per sempre, ecc.

Napoli, 26 dicembre 1724.

XXXI
DEL CARDINALE LORENZO CORSINI
Si scusa di non poter contribuire alle spese di stampa dell’opera anzidetta.

Nella visita che io feci ultimamente della mia diocesi di Frascati, mi occorse di metter mano a molte esorbitanti spese, per le quali ho fin dovuto restringere alcune altre che qua prima

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io soleva usare con qualche larghezza. Su questo confidenzial motivo, che apro alla buona estimativa di Vostra Signoria, mi prometto il di lei cortese compatimento se non ho modo, come per altro bramerei, di secondare la sua istanza. Gradirò bensì eh’ Ella me ne porga l’adeguato compenso coll’ impiegarmi in altre occasioni di suo vantaggio, e le auguro per fine ogni maggior prosperitá.

Roma, 20 luglio 1725.

XXXII
DEL CONTE GIOVAN ARTICO DI PORCIA
all’abate GIUSEPPE LUIGI ESPERTI IN ROMA
Discorred’un’ideata serie di Vite letterarie e di quella già ricevuta dal Vico.

Il foglio di Vostra Signoria illustrissima segnata sotto il di de’ 23 del giugno scaduto m’è solamente arrivato il di 6 corrente. Questo ritardo mi ha riempiuto d’una giusta confusione, vedendo a ragione che ’l soprassedere mio nel rispondere potesse presso di lei passare per una poco attenta mia riflessione e pensiere verso la di lei generosa condiscendenza per le mie premure. In mia discolpa io non posso che addurre un fatto di cui io non ho testimonio che la mia pontualità, e che io non addurrei per prova se non avessi a trattare con un cavaliere dell’ indole di Vostra Signoria illustrissima, vale a dire propenso non solo a far del bene ma a crederlo in prò’ de’ suoi servidori, tra i quali io mi protesto il più obbligato, quantunque inutile, e ’l piú ossequioso.

Rendendole intanto le grazie che per me si ponno maggiori per li favori da lei procuratimi appresso i signori letterati napoletani, io la supplico a continuarmi in questo proposito la sua

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possente protezione e in Napoli stesso e in Roma. Ella mi dice che in Napoli vi sono de’ medici, letterati anche oltre l’arte loro, e di questi io volentieri riceverò le notizie della lor vita e de' loro studi, supplicando essi signori a stendere le notizie stesse col metodo usato dal signor don Giambattista de Vico, che più d’ogni altro a quest’ora ha intesa la mia idea e l’ha ottimamente posta in pratica. Insomma, io mi metto nelle mani di Vostra Signoria illustrissima, essendo sicuro che né più onorevole né più generoso protettore di lei io non poteva mai scegliere per l’avanzamento di questo mio divisamento, ch’è tutto diretto alla gloria delle lettere italiane.

Veda Ella intanto se niente io posso contribuire a ubbidirla, e creda che sono con tutta l’ambizione e con tutto il rispetto, ecc.

Porcia, 16 settembre 1725.

XXXIII
Al padre abate Celestino Galiani
professore alla Sapienza di Roma
Raccomanda un candidato di esami e invia la prima Scienza nuova.

Il grido che qui corre de’ gentili costumi che a maraviglia adornano Vostra Paternitá riveritissima al pari della vostra grande letteratura, m’incoraggia, innanzi che io abbia con esso lei nemmeno professato il nome di servitore, a priegarla umilmente delle sue grazie e della sua protezione nella persona del padre Mattia Petagna, frate conventuale, che si porta costá all’esame per entrare nel collegio che essi dicono di San Bonaventura, per cui Vostra Paternitá riveritissima è uno degli esaminatori destinati. Io sono interessato per lo merito di questo padre, tanto piú perché egli non altro desidera che li sia fatta sua ragione, né per compiacenza sia posposto ad altri di minor merito. Perché fossero soddisfatte cosí giuste preghiere, non

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poteva avvenir meglio che nel numero degli esaminatori fosse sortita Vostra Paternitá riveritissima.

In questo stesso ordinario mando al signor abate Esperti una cassetta di esemplari di una mia opera dedicata a Sua Eminenza Corsini, uno de’ quali è indirizzato a Vostra Paternitá riveritissima. Ella ha di bisogno di valent’uomini della vostra fatta, cioè letterati di una erudizione universale, di una critica filosofica e di corrispondente pietá, nelle quali tre doti Ella è appo tutti i migliori riputatissima. Io gliela raccomando come un mio parto che vorrei solo mi sopravvivesse, perché mi costa tutto il corso migliore della mia vita.

E, confidando nella vostra singolare sapienza e dottrina di quanto l’ho supplicata, resto con professarmi, ecc.

Napoli, 18 ottobre 1725.

XXXIV
All’abate Esperti
Sull’invio d’una cassetta con esemplari della Scienza nuova
da distribuire in Roma.
Circa la Vita letteraria che il Porcía desiderava dal Cirillo.

Ho ricevuto altra pregiatissima sua, nella quale Vostra Signoria illustrissima mi dá parte della sua villeggiatura, che io le auguro salutevole. Però con questo ordinario mando la consaputa cassetta, ove dentro è la nota di quelli che Ella avrá la bontá ripartire a’ destinati soggetti. Il padre Mattia Petagna sará a la di lei casa a dar la notizia di essere ricapitata in cotesta posta, e quando Vostra Signoria illustrissima il primo di decembre con sua salute sará in Roma ritornata, esso sará a priegarla delle vostre grazie per lui proffertemi. Priegola adoperarsi col signor segretario di Sua Eminenza che egli consegni a Vostra Signoria illustrissima la risposta di che Sua Eccellenza mi sará degna, la quale Ella avrá la bontá mandare al signor don Saverio Mastellone, perché mi giunga piú sicura; e mi

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favorirá scrivermi la fortuna che quest’opera incontrerá costí, e sopratutto sulla discoverta dei princípi della scienza del blasone e delle medaglie, particolarmente per le origini eroiche delle due case di Francia e d’Austria. L’incomoderò appresso di quelli che devono andare per l’Italia.

Non ho potuto vedere il signor don Marcello Filomarino, per servirla con esso lui e dargliene ora risposta. Io e il signor Ciccarelli non molto speriamo che il signor Cirillo voglia incomodarsi per la sua gloria.

Le invio un duplicato di questa per la posta, e, bramoso de’ suoi riveriti comandi, con farle divotamente riverenza, mi confermo, ecc.

Napoli, 18 ottobre 1725.

XXXV
Al padre Giacco
Manda la prima Scienza nuova.

Accompagnata dal sommo amore che le porto e da tutta la riverenza che Ella merita, invio a Vostra Paternitá riveritissima la consaputa opera de’ Princípi dell’umanitá. In cotesto eremo ella goderá tanta pubblica luce quanta mai ne potrebbe nella piú celebre delle universitá dell’Europa, alle quali è indirizzata. In questa cittá sí io fo conto di averla mandata al diserto, e sfuggo tutti i luoghi celebri per non abbattermi in coloro a’ quali l’ho io mandata, che, se per necessitá egli addivenga, di sfuggita li saluto: nel quale atto non dandomi essi né pure un riscontro di averla ricevuta, mi confermano l’oppenione di averla io mandata al diserto. Io poi devo tutte le altre mie deboli opere d’ingegno a me medesimo, perché le ho lavorate per mie utilitá propostemi, affine di meritare alcun luogo decoroso nella mia cittá; ma, poiché questa universitá me ne ha riputato immeritevole, io certamente debbo questa sola opera tutta a questa universitá, la quale, non avendomi voluto occupato

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a legger paragrafi, mi ha dato l’agio di meditarla. Posso io avergliene piú grado di questo? che mi spiace non potergliele professare che in cotesta vostra solitudine, dove gridando dico che vorrei non aver lavorate tutte le altre mie deboli opere d’ingegno, e che rimanesse di me questa sola; perché le altre erano state da me lavorate per avere io alcuna cattedra prima in questa universitá, ed ella, giudicandomene indegno, mi ha in un tacito modo comandato che io travagliassi questa sola, alla quale dovevano menarmi tutte le altre opere innanzi della mia vita. Sia per sempre lodata la Provedenza, che, quando agli infermi occhi mortali sembra ella tutta rigor di giustizia, allora piú che mai è impiegata in una somma benignitá! Perché da quest’opera io mi sento avere vestito un nuovo uomo, e pruovo rintuzzati quegli stimoli di piú lamentarmi della mia avversa fortuna, e di piú inveire contro alla corrotta moda delle lettere, che mi ha fatto tale avversa fortuna, perché questa moda, questa fortuna mi hanno avvalorato ed assistito a lavorare quest’opera. Anzi (non sará per avventura egli vero, ma mi piace stimarlo vero) quest’opera mi ha informato di un certo spirito eroico, per lo quale non piú mi perturba alcuno timore della morte e sperimento l’animo non piú curante di parlare degli emoli. Finalmente mi ha fermato, come sopra un’alta adamantina ròcca, il giudizio di Dio, il quale fa giustizia alle opere d’ingegno con la stima de’ saggi, i quali, sempre e da per tutto, furono pochissimi: non giá uomini recitatori de’ libri altrui; non quei che marciscono le notti nella venere e ’l vino, o sono agitati da infeste meditazioni, come, con insidiare alla veritá ed alla virtú, debbano covrire le scempiezze o le ribalderie commesse nel dí passato per seguitare di parere e dotti e buoni nel giorno appresso; non finalmente infingardi, che, stando tutti sicuri all’ombra della loro negghienza, anzi scorrendo sconosciuti nella densa notte de’ loro nomi, van latrocinando l’onor dovuto al merito degli uomini valorosi ed ardiscono in ogni modo di scannare l’altrui credito, benché, tra le tenebre della loro nera passione dell’invidia, avventino e profondino nelle loro propie viscere gli avvelenatissimi colpi.
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Ma sapienti sono uomini di altissimo intendimento, di erudizione tutta propia, generosi e magnanimi, che non altro studiano che conferire opere immortali nel comune delle lettere. Tra’ quali o ’l primo o tra’ primi è Vostra Paternitá riveritissima, la quale ora io divotamente priego ad accogliere con la sua solita altezza d’animo, siccome ha fatto degli altri, questo mio forse ultimo, ma certamente piú di tutti tenero parto, il quale con la buona vostra grazia sará piú agiato tra le vostre rozzissime lane che non tra le porpore e i dilicati bissi de’ grandi.

E, faccendole umilissima riverenza, mi confermo, ecc.

Napoli, 25 ottobre 1725.

XXXVI
A Giovanni Leclerc
Manda l’opera anzidetta.

La risposta 49, pienissima di degnazione, rendutami tre anni fa per mano del signor principe d’Avellino, con la quale Vostra Signoria illustrissima mi accusava la ricevuta de’ due miei libri De uno universi iuris principio et fine e De constantia iurisprudentis, che io per lo signor conte Wildenstein l’aveva dentro l’istesso anno inviati, ed il luminoso luogo ch’Ella favorí l’anno appresso dar loro nella sua immortale Biblioteca, sono stati come due mantici, onde io formassi il getto di quest’altra opera, la quale, pieno di riverenza e rispetto, presentemente l’invio. Questa, a dir vero, è unicamente figliuola della vostra generositá, la quale va sempre di séguito alla grandezza di stato di chi la usa, siccome con meco la usaste voi, che per la vostra stupenda erudizione ed ammirabil sapienza siete da per tutto riverito principe de’ dotti uomini del nostro secolo. Io pure apertamente

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in questo libro il professo col mondo, particolarmente nell’Indice delle volgari tradizioni, ove, perché facesse meno a me d’invidia il vostro chiarissimo nome appo i meno dotti, e appo gl’intendenti la vostra autoritá piú di peso, vi cito senza alcun titolo o lode, riferendo una particella del vostro giudizio dato di quell’opera antecedente, per dimostrare in effetto che egli mi ha dato tutto il valore di meditare ne’ Princípi di questa Scienza. Tanta è la ragione de’ miei debiti con la vostra altezza d’animo usata verso di me! Questo sí ch’io pregio di porre a conto di soddisfazione, quantunque menoma, al moltissimo che vi debbo: di aver dimostro a Roma che un vostro giudizio mi ha servito di fondamento a lavorare quest’opera, che il cardinal Fabroni, tra gli altri, pubblicamente dice aver bisognato alla cristiana religione incontro le massime della civiltá di Tomasso Obbes e contro la pratica de’ governi di Bayle, che vorrebbe senza religioni poter reggere le nazioni. Laonde rendo infinite grazie a Vostra Signoria illustrissima di cotanti benefizi fattimi: ché, nel valicare quest’oceano, Ella mi ha servito di tramontana; perdendomi spesse volte di animo, Ella mi ha spirato il vento favorevole a seguitare il cammino; e, nelle tempeste della contraria fortuna e della corruzione del secolo, Ella mi difende da porto.

Oltre al suo, accompagno un altro esemplare, il quale è indirizzato alla vostra celebre universitá di Utrecht, che io non dubito vi anderá con tutto il corteggio, se ’l vi condurrá Vostra Signoria illustrissima, che è di lei il sommo ornamento. E, umilissimamente inchinandola, mi confermo di Vostra Signoria illustrissima, a cui riverentemente soggiugno che voglia indirizzare la risposta, di che mi degnerá, al signor Giuseppe Atias in Livorno, uomo conosciuto in codeste vostre parti per la sua lezion biblica, ecc.

Napoli, 5 novembre 1725.

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XXXVII
Al cardinale Lorenzo Corsini in Roma
Lettera di accompagnamento della prima Scienza nuova.

Riflettendo io al mio sommo onore, che Vostra Eminenza mi aveva giá compartito per mezzo di monsignor Monti, di aver ricevuta nella vostra alta protezione l’opera da me scritta in due libri, nella quale per via di dubbi e desidèri, maniera la qual fa piú tosto forza che soddisfa la mente umana, si andavano ritruovando i princípi dell’umanitá delle nazioni, e quindi quei del diritto naturale delle genti, la qual opera giá era alla mano per istamparsi; e considerando altresí la mia avvanzata e cagionevole etá; mi determinai finalmente affatto abbandonar quella, e consacrare a Vostra Eminenza quest’opera, piú picciola in vero, ma, se non vado errato, di gran lunga piú efficace della prima. Nella quale, per mezzo di tre veritá positive, sperimentate dall’universale delle nazioni, che si prendono per princípi e per un gran séguito di rilevantissime discoverte, dando altro ordine e piú brieve e piú spedito a quelle medesime cose che si dubitavan e si ricercavano nella prima, si truovano tali princípi convincere di falso e i filosofi obbesiani e i filologi baileani, con dimostrar loro che ’l mondo delle nazioni non abbia retto pur un momento senza la religione d’una divinitá provedente, e nello stesso tempo si rovesciano i tre sistemi del diritto naturale delle genti, che fondano Grozio e Pufendorff con ipotesi, e Seldeno, benché di fatto, ma niuno degli tre gli stabiliscono sulla Provedenza divina, siccome meglio di loro fecero i romani giureconsulti. Sí fatta opera aveva io destinato dare alla luce qualche anno dopoi, come per soluzione della prima, quasi d’un problema innanzi proposto. Cosí ho io terminato nell’Eminenza Vostra l’ultima delle mie fatiche, spese ben venticinque anni di continova ed aspra meditazione sopra questo argomento; o almeno, se me ne resteranno altre a fare, saranno quelle come corollari di questa. In sí fatta mia ben avventurosa occasione

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di aver sortito per sommo onor mio Vostra Eminenza gran protettore di tal opera, il cui nome è veneratissimo appo tutti i letterati di Europa, all’ombra della vostra gloria l’ho indirizzata a tutte le di lei accademie; lo che non poteva io fare dell’altra, perché il costume è nelle sole materie mattematiche di proporre problemi. Avrei dovuto mandarla a Vostra Eminenza stampata in forma grande e magnifica, particolarmente nello splendore delle stampe di questo secolo; ma me l’hanno impedito le mie anguste fortune. Di che però mi consolano la vostra grandezza e sapienza: questa che estima le opere di lettere dalla dottrina, quella che col gradimento fa grandi i quantunque piccioli doni. Laonde per mano del signor abbate Giuseppe Luigi Esperti, il quale, nell’assenza di monsignor Monti, mi ha favorito costí riceverla e in mio nome con tutto il dovuto ossequio gliela presenta, supplico umilmente l’Eminenza Vostra a riceverla e gradirla col solito regale animo vostro, ed a proteggerla con quella gravitá ond’è cotanto ammirata e riverita da tutto il mondo cristiano.

E, profondandomi in inchinarla, mi rassegno, ecc.

Napoli, 20 novembre 1725.

XXXVIII
DEL CARDINALE LORENZO CORSINI
Risposta alla precedente lettera.

Con quel gradimento che può Vostra Signoria creder maggiore, ho ricevuto gli essemplari ch’Ella gentilmente ha voluto inviarmi de’ Principi della nuova scienza intorno alla natura delle nazioni da lei ultimamente dati alla luce: opera al certo che per antica dignità dì lingua e per solidezza di dottrina basta a far conoscere che vive anche oggi negl’italiani spiriti non meno la nativa particolarissima attidudine alla buona eloquenza che il robusto felice ardimento a nuove produzioni nelle

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piú difficili discipline. Io però, nell’istesso tempo che seco me ne congratulo e con cotesta sua ornatissima patria, posso ancora assicurarla ch’io già ho incominciato a leggerla con quella attenzione e diletto che merita la gravità istessa dell’argomento ed il credito del riguardevole autore, verso cui l’affezione, già in me nata da preventiva stima, ha preso anche nuovo augumento per legge di gratitudine, dacché egli, non contento d’indirizzare a me la dedica di opera di tanta fama, ha voluto anche mostrarmisi cortese nella largità del dono di essi esemplari. Da questi sentimenti può Vostra Signoria ben ravvisare la qualità della grata mia riconoscenza e ripromettersene altresì i proporzionati effetti, ove mi somministri Ella, come desidero, le convenevoli aperture d’impiegarmi in cose di suo servigio. E le auguro intanto ogni maggior felicità, ecc.

Roma, 8 dicembre 1725.

XXXIX
Al cardinal Lorenzo Corsini
Replica alla precedente lettera.

Con l’umiliazione piú ossequiosa m’inchino a professare a Vostra Eminenza gl’infiniti obblighi per l’altezza dell’animo onde ha Ella degnato con sensi sí generosi e propi della vostra grandezza ricevere la mia opera e me nella vostra potente protezione; talché benedico ben venticinque anni da me spesi nella meditazione di sí fatto argomento, ed in mezzo le avversitá della mia fortuna e le remore che mi facevano gli esempli infelici degl’ingegni che han tentato delle nuove e grandi discoverte, abbia io menato tant’oltre la vita che portassi a compimento questo lavoro, che mi ha prodotto il merito o, per meglio dire, la buona ventura di compiacersene un principe di Santa Chiesa di tanta sapienza di quanta la fama da per tutto con immortali laudi la celebra. Con l’istessa umiltá di spirito supplico Vostra

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Eminenza a seguitare di proteggermi e continovarmi l’onore, onde mi pregio, profondamente inchinandola, di rassegnarmi per sempre, ecc.

Napoli, 15 dicembre 1725.

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XLI
A Gherardo degli Angioli
Su Dante e sulla natura della vera poesia.

Ho ricevuto alquanti sonetti ed un capitolo, composti da Vostra Signoria in cotesta sua patria, e vi ho scorto un molto maggiore ingrandimento di stile sopra il primiero con cui Ella due mesi fa era partita da Napoli. Talché mi han dato forte motivo di osservarli con l’aspetto de’ princípi della poesia da noi ultimamente scoverti col lume della Scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, perché le selve e i boschi, che non sogliono fare gentili gli animi né punto raffinare gl’ingegni (né certamente vedo altra cagione), han fatto cotesto vostro tanto sensibile quanto ripentino miglioramento.

Primieramente Ella è venuta a tempi troppo assottigliati da’ metodi analitici, troppo irrigiditi dalla severitá de’ criteri, e sí di una filosofia che professa ammortire tutte le facoltá dell’animo che li provvengono dal corpo, e sopra tutte quella d’immaginare, che oggi si detesta come madre di tutti gli errori umani; ed, in una parola, Ella è venuta a’ tempi di una sapienza che assidera tutto il generoso della miglior poesia, la quale non sa spiegarsi che per trasporti, fa sua regola il giudizio de’ sensi ed imita e pigne al vivo le cose, i costumi, gli affetti con un fortemente immaginarli e quindi vivamente sentirli. Ma a’ ragionamenti filosofici di tali maniere Ella, come spesso ho avvertito, soltanto con la sua mente si affaccia come per vederle in piazza o in teatro, non per riceverle dentro a dileguarvi la fantasia, disperdervi la memoria e rintuzzarvi lo ingegno. Il quale, senza contrasto, è ’l padre di tutte le invenzioni, onde è quello che merita tutta la meraviglia de’ dotti, perché tutte ne’ tempi barbari nacquero le piú grandi e le piú utili invenzioni, come la bussola e la nave a sole vele, che entrambe han fruttato lo scuoprimento dell’Indie e ’l dimostrato compimento della geografia; il lambicco, che ha cagionato colla

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spargirica tanti avvanzamenti alla medicina; la circolazione del sangue, cha ha fatto cambiare di sentimenti alla fisica del corpo animato e voltar faccia all’anatomia; la polvere e lo schioppo, che han portato una nuova bellica; la stampa e la carta che han riparato alla difficoltá delle ricerche ed alle perdite de’ manoscritti; la cuppola sopra quattro punti da altrettanti archi sospesa, cha ha fatto stupire l’architettura degli antichi ed ha dato motivo a scienza nuova di meccanica; e, sullo spirare della barbarie, il cannocchiale, che ha prodotto nuovi sistemi d’astronomia.

Dipoi Ella è venuta in etá della qui tra noi rifiorente toscana poesia; ma un tanto beneficio deve Ella al tempo, da cui è stata, senza guida altrui, menata a leggere Dante, Petrarca, Guidiccioni, Casa, Bembo, Ariosto ed altri poeti eroi del Cinquecento. Poiché sopra tutti, non per altrui avviso fattone accorto, ma per lo vostro senso poetico, vi compiacete di Dante, contro il corso naturale de’ giovani, i quali, per lo bel sangue che ride loro nelle vene, si dilettano di fiori, d’acconcezze, d’amenitá; e voi con un gusto austero, innanzi gli anni, gustate di quel divino poeta, che alle fantasie dilicate d’oggidí sembra incolto e ruvido anzi che no, ed agli orecchi ammorbiditi da musiche effeminate suona una soventi fiate insoave e bene spesso ancora dispiacente armonia. Cotesto le fu dato dal melancolico umore di che Ella abbonda; onde nelle conversazioni nostre, anche amenissime, voi dal piacere degli esterni solete ritrarvi a quello del vostro senso interiore; e, quantunque dalla vostra tenera etá siate versato ben dieci anni nel lume di questa grande, bella e gentil cittá dell’Italia, pure, perché siete nato a pensar poetico, rado e poco parlate con favella volgare e ancor vi comparite poco addestrato alla pulitezza del nostro sermon civile.

Ora è ben fatto che sappiate cosa fece gran poeta Dante, di cui voi cotanto vi dilettate per un certo natural senso, onde egli vi fa poeta che lavorate di getto, non per riflessione forse men propia, onde egli vi facesse un imitatore meschino.

Egli nacque Dante in seno alla fiera e feroce barbarie

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d’Italia, la quale non fu maggiore che da quattro secoli innanzi, cioè nono, decimo ed undecimo. E nel dodicesimo, di mezzo ad essa, Firenze rincrudelí con le fazioni de’ Bianchi e Neri, che poi arsero tutta Italia, propagata in quella de’ guelfi e de’ gibellini, per le quali gli uomini dovevano menar la vita nelle selve o nella cittá come selve, nulla o poco tra loro e non altrimenti che per le streme necessitá della vita comunicando. Nel quale stato dovendosi penuriare di una somma povertá di parlari, tra per la confusione di tante lingue quante furono le nazioni che dal settentrione eranvi scese ad innondarla, quasi ritornata in Italia quella della gran torre di Babilonia, i latini da’ barbari, i barbari da’ latini non intendendosi, e per la vita selvaggia e sola menata nella crudel meditazione d’innestinguibili odi che si lasciarono lunga etá in retaggio a’ vegnenti, dovette tra gl’italiani ritornare la lingua muta, che noi dimostrammo delle prime nazioni gentili, con cui i loro autori, innanzi di truovarsi le lingue articolate, dovettero spiegarsi a guisa di mutoli per atti o corpi aventino naturali rapporti alle idee, che allora dovevano essere sensibilissime, delle cose che volevan esse significare, le quali espressioni, vestite appresso di parole vocali, debbono aver fatta tutta l’evidenza della favella poetica. Il quale stato di cose dovette, piú che altrove, durare in Firenze per lo bollore turbolento di quell’acerrima nazione, come per ben ducento anni appresso, fino che fu tranquillata col principato, durò il maroso di quella repubblica tempestosissima. Ma la Provvidenza, perché non si sterminasse affatto il gener umano, rimenandovi i tempi divini del primo mondo delle nazioni, dispose che almeno la religione, con la lingua della Chiesa latina (lo stesso per le stesse cagioni provvidde all’Oriente con la greca), tenesse gli uomini dell’Occidente in societá, onde coloro soli che se n’intendevano, cioè i sacerdoti, erano i sapienti. Di che, quanto poco avvertite, tanto gravi ripruove son queste tre:

1° che da questi tempi i regni cristiani, in mezzo al piú cieco furore delle armi, si fermarono sopra ordini di ecclesiastici, onde quanti erano vescovi, tanti erano i consiglieri de’ re;

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e ne restò che per tutta la cristianitá, ed in Francia piú che altrove, gli ecclesiastici andarono a formare il primo ordine degli Stati;

2° che di tempi sí miserevoli non ci sono giunte memorie che scritte in latin corrotto da uomini religiosi, o monaci o cherici;

3° che i primi scrittori de’ novelli idiomi volgari furono i rimatori provenzali, siciliani e fiorentini; e la loro volgare dagli spagnuoli si dice tuttavia «lingua di romanzo», appo i quali i primi poeti furono romanzieri. Appunto come, per le stesse precorrenti cagioni, noi nella Scienza nuova dimostrammo Omero, come egli è il primo certo autor greco che ci è pervenuto, cosí è senza contrasto il principe e padre di tutti i poeti che fiorirono appresso ne’ tempi addottrinati di Grecia, che li tengon dietro, ma per assai lungo spazio lontani. La qual origine di poesia può ogniuno che se ne diletti sentire, non che riflettere, esser vera in se stesso, ché, in questa stessa copia di lingua volgare nella quale siamo nati, egli, subito che col verso o con la rima avrá messa la mente in ceppi ed in difficoltá di spiegarsi, senza intenderlo è portato a parlar poetico, e non mai piú prorompe nel meraviglioso se non quando egli è piú angustiato da sí fatta difficoltá.

Per cotal povertá di volgar favella, Dante, a spiegare la sua Comedia, dovette raccogliere una lingua da tutti i popoli dell’Italia, come, perché venuto in tempi somiglianti, Omero aveva raccolta la sua da tutti quelli di Grecia; onde poi ogniuno ne’ di lui poemi ravvisando i suoi parlari natii, tutte le cittá greche contesero che Omero fosse suo cittadino. Cosí Dante, fornito di poetici favellari, impiegò il colerico ingegno nella sua Comedia. Nel cui Inferno spiegò tutto il grande della sua fantasia in narrando ire implacabili, delle quali una e non piú fu quella di Achille, ed in membrando quantitá di spietatissimi tormenti, come appunto, nella fierezza di Grecia barbara, Omero descrisse tante varie atroci forme di fierissime morti avvenute ne’ combattimenti de’ troiani co’ greci, che rendono inimitabile la sua Iliade; ed entrambi di tanta atrocitá risparsero le loro favole,

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che in questa nostra umanitá fanno compassione, ed allora cagionavan piacere negli uditori, come oggi gl’inghilesi, poco ammolliti dalla dilicatezza del secolo, non si dilettano di tragedie che non abbiano dell’atroce, appunto quale il primo gusto del teatro greco ancor fiero fu certamente delle nefarie cene di Tieste e dell’empie straggi fatte da Medea di fratelli e figliuoli. Ma nel Purgatorio, dove si soffrono tormentosissime pene con inalterabile pazienza; nel Paradiso, ove si gode infinita gioia con una somma pace dell’animo, quanto in questa mansuetudine e pace di costumi umani non lo è, tanto, a que’ tempi impazienti di offesa o di dolore, era maravigliosissimo Dante; appunto come, per lo concorso delle stesse cagioni, l’Odissea, ove si celebra l’eroica pazienza d’Ulisse, è appresa ora minor dell’Iliade, la quale a’ tempi barbari d’Omero, simiglianti a quelli che poi seguirono di Dante, dovette recare altissima meraviglia.

Per ciò che si è detto, Ella non giá mi sembra esser imitatore di Dante, perché certamente, quando Ella compone, non punto pensa d’imitar Dante, ma con tal melanconico ingegno, tal severo costume, tal incetta di poetici favellari, è un giovinetto di natura poetica de’ tempi di Dante. Quindi nascono coteste tre vostre poetiche propietá:

1° che cotal vostra fantasia vi porta ad entrare nelle cose stesse che volete voi dire, ed in quella le vedete sí risentite e vive che non vi permettono di riflettervi, ma vi fan forza a sentirle, e sentirle con cotesto vostro senso di gioventú, il quale, come l’avverte Orazio nell’Arte, è di sua natura sublime: di piú, con senso di nulla infievolito dalle presenti filosofie, di nulla ammollito da’ piaceri effeminati, e perciò senso robusto, e, finalmente, per le ombre della vostra malincolia, come all’ombra gli oggetti sembrano maggiori del vero, con senso anche grande, il quale perciò si dee per natura portar dietro l’espressione con grandezza, veemenza, sublimitá;

2° che i vostri sono sentimenti veri poetici, perché sono spiegati per sensi, non intesi per riflessione; le quali due sorti di poeti Terenzio ci divisò nel suo Cherea, giovinetto violentissimo,

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il quale della schiava di cui esso, in vedendola passare per istrada, si era ferventissimamente innamorato, dice al suo amico Antifone:

... quid ego eius tibi nunc faciem praedicem aut laudem, Antipho, cum ipsum me noris, quam elegans formarum spectator siem? — ecco i poeti che cantano le bellezze e le virtú delle loro donne per riflessione, che sono filosofi che ragionano in versi o in rime d’amore; — e chiude tutte le somme e sovrane lodi della sua bella schiava con questo senso poetico in questo motto spiegato con poetica brevitá: «In hac commotus sum», con cui lascia da raccogliere al raziocinio che la schiava sia piú bella e leggiadra di quante belle e leggiadre donne, e donne ateniesi, abbia giammai veduto, osservato e scorto un giudice di buon gusto delle bellezze;

3° e finalmente perché i vostri componimenti sono propi de’ subietti di cui parlate, perché non gli andate a ritrovare nell’idee de’ filosofi, per cui i subietti tali dovrebbono essere, onde le false lodi sono veri rimproveri di ciò che loro manca, ma gli rincontrate nell’idee de’ poeti come in quelle de’ pittori, le quali sono le stesse e non differiscono tra loro che per le parole e i colori; e sí elleno sono idee delle quali essi subietti participano qualche cosa: onde con merito li compite contornandoli sopra esse idee, appunto come i divini pittori compiscono sopra certi loro modelli ideali gli uomini o le donne che essi in tele ritraggono, talché i ritratti in una miglior aria rappresentino gli originali che tu puoi dire che è quello o quella.

Per tutto ciò io me ne congratulo con essolei e con la nostra nazione, a cui Ella fará molta gloria. Le porto mille saluti che le manda il dolcissimo ornamento degli amici padre don Roberto Sostegni, e le bacio caramente le mani.

Napoli, 26 dicembre 1725.

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XLII
All’abate Esperti in Roma
Intorno alle cagioni del poco incontro della Scienza nuova
e alle condizioni della cultura e degli studi del tempo.

Rendo a Vostra Signoria illustrissima cumulatamente i lieti augúri che volentieri prendo dalla di lei verso me singolare benivoglienza, e, nell’atto stesso che gliele rendo, gliene rimango infinitamente obbligato.

Siccome infiniti obblighi le professo altresí dell’ufizio passato col signor cardinale d’intorno all’onesta utilitá la quale io credeva avermi offerto la fortuna nella discoverta delle origini eroiche delle due case di Francia e d’Austria: ma, poiché non sembra all’Eminenza Sua convenirgli, io tanto debbo stimare. Però mi perdoni qui la molta affezione che Vostra Signoria illustrissima ha per li miei vantaggi, se in ciò non ascolto il di lei consiglio. Perché stimerei meritare, se non biasimo, almeno poco gradimento appo i signori cardinali Cienfuegos e Polignac, se inviassi loro gli esemplari dell’opera cotanto tardi e di carta ordinaria, perché de’ fini se n’è stampata una sola dozena e non piú; e presentarli senza altra mallevadoria che della sua fama, che, come lo stesso signor cardinale Corsini diceva con essolei, non aveva incontrato applauso appresso taluni, i quali devono essere i piú, tra per le ragioni le quali Ella, per favorirmi, gli addusse, ed esso signor cardinale con la sua solita generositá si degnò di riceverle, e per queste altre che io ora le arrecherò.

Il libro è uscito in una etá in cui, con l’espressione di Tacito, ove riflette sopra i suoi tempi somigliantissimi a questi nostri, «corrumpere et corrumpi saeculum vocatur»; e perciò, come libro che o disgusta o disagia i molti, non può conseguire l’applauso universale. Perché egli è lavorato sull’idea della Providenza, si adopera per la giustizia del gener umano e richiama le nazioni a severitá. Ma oggi il mondo o fluttua ed

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ondeggia tra le tempeste mosse a’ costumi umani dal «caso» di Epicuro, o è inchiodato e fisso alla «necessitá» del Cartesio; e cosí, o abbandonatosi alla cieca fortuna o lasciandosi strascinare dalla sorda necessitá, poco se non pur nulla si cura con gli sforzi invitti di una elezion ragionevole di regolare l’una o di schivare, ed ove non possa, almeno di temprar l’altra. Perciò non piacciono libri che quei i quali, come le vesti, si lavorino sulla moda; ma questo spiega l’uomo socievole sopra le sue eterne propietá.

Gli scrittori, che amano vivi udire gridarsi i loro nomi e con una gloria tempestiva accoppiar l’utile e far guadagno de’ libri, indrizzano le penne al gusto del secolo, perché piú speditamente volino a seconda del tempo. Ed in vero sarebbe materia degna di tutta l’applicazione degl’ingegni ben informati de’ particolari nella repubblica delle lettere di scrivere «sulle occulte o straniere cagioni della fortuna de’ libri». Il Gassendi ritruovò il mondo tutto marcio in amori di romanzi e illanguidito in braccio di una troppo compiacente morale, e vivo udí da per tutto celebrarsi il suo nome di ristoratore della buona filosofia, perché di un sistema che fa criterio del vero il senso, di cui a ciascuno piace il suo, e pone nel piacere del corpo, perché non vi è altro per Epicuro che vano e corpo, l’umana felicitá. In odio della probabile s’irrigidisce in Francia la cristiana morale, e dal vicino Settentrione e gran parte della Germania lo spirito interno di ciascheduno si fa divina regola delle cose che si deon credere. Vede il Cartesio il tempo di far uso de’ suoi meravigliosi talenti e de’ lunghi e profondi suoi studi, e lavora una metafisica in ossequio della necessitá e stabilisce per regola del vero l’idea venutaci da Dio, senza mai diffinirla; onde tra essi cartesiani medesimi sovente avviene che una stessa idea per uno sará chiara e distinta, oscura e confusa per l’altro. E sí egli salí vivente in fama di filosofo celebratissimo in questo secolo dilicato e vistoso, nel quale dagli piú con poco studio e co’ soli naturali talenti si vuole comparir dotti e fanno la loro capacitá regola de’ libri, onde stimano buoni i soli spiegati e facili, di cui si possa per passatempo

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ragionare con le dame; al contrario, quelli che richiedono nel leggitore molta e varia erudizione e l’obbligano al tormento del molto riflettere e combinare condannano col solo dire che «non s’intendono». L’Inghilterra, incerta nelle religioni ed in un secolo quanto severo nel dettar massime tanto dissoluto nel pratticarle, a tempi propi dá fuori il Locke, il quale si studia stabilire la metafisica della moda e vuole sposare Epicuro con la platonica. Tra’ letterati, la maggior parte di tal fatta che non amano fissarsi nella lettura di libri di meditazione, com’Ella a mio pro disse col signor cardinale, e quindi filologi che non si dilettano che di dizionari e ristretti, quanti pochi deono esser coloro a cui piaccia quest’opera, la cui materia, come dice il signore abbate Odazi per favorirmi, è una vasta disamina delle cose, la pruova è un pensar forte per profondarvi e comprenderle! Ma consolo le mie lunghe ed aspre fatighe sofferte in mezzo alle tempeste della contraria fortuna e tra le secche della mia povera numerosa famiglia, che l’opera sia piaciuta al sapientissimo signor cardinale Corsini e che stia al coverto della di lui potente protezione. Quindi sono io molto obbligato al signor abbate Odazi per l’interesse che ne dimostra, come a que’ molti savi uomini, che egli le disse sentirne bene.

D’intorno agli essemplari ch’Ella mi avvisa che io mandassi a’ signori cardinali Davia e Pico, dubito mandarli e tardi e di carta ordinaria; però, se Ella comanda cosí, al suo cenno tosto l’avvierò. Godo che il signor conte di Porcía resterá contento della vita literaria del signor Cirillo. Per quella del signor Doria, il signor don Marcello Filomarino vi si adopererá con tutta efficacia, il quale la riverisce divotamente ed umilia i suoi rispetti a Sua Eminenza Corsini, a cui riverentemente risponde dispiacere ad esso in sommo grado di differire la sua venuta costá, per la quale sta prendendo tutti i mezzi che vi necessitano, affine di ossequiare l’Eminenza sua di presenza, com’è suo debito.

Ed io, priegandola dell’onore de’ suoi comandi, mi confermo, ecc.

[Napoli, ai primi del 1726].

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XLIV
Del cardinale Lorenzo Corsini
Si scusa di non poter procurare un beneficio ecclesiastico
al figliuolo del Vico, Gennaro.

Non si inganna punto Vostra Signoria nel credermi disposto con tutto l’animo a promuover sempre le maggiori convenienze della di lei persona e casa; e può Ella esser anche persuasa che io proverei sommo piacere di corrispondere cogli effetti stessi a questa sua giusta opinione. Ma nel particolare, per altro, del far conseguire qualche benefizio a cotesto suo signor figliuolo, io v’incontro delle difficoltá pur troppo contrarie al suo ed al mio desiderio; imperciocché, oltre all’etá assai tenera di esso figliuolo, che può fare non piccolo ostacolo, vi è da considerare ancora che si trovano in oggi nel palazzo apostolico tante persone di Regno, che non sí tosto vaca qualche cosa che giá prima assai della vacanza sentesi la provista. Deve Vostra Signoria nondimeno esser certa che, dove a me se ne presenti qualche buona apertura, non mancherò d’averne ogni piú sollecito ed affettuoso pensiero. E le auguro intanto dal Signore copiosi contenti, ecc. 50.

Roma, 19 gennaio 1726.

XLV
Al padre De Vitry
Risposta alla lettera XLIII.

Sono infinitamente obbligato a Vostra Reverenza della buona opinione che Ella ha dell’opera da me inviatale, ultimamente data alla luce.

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D’intorno a ciò che Ella mi comanda di dargli notizie letterarie di qui e di Sicilia co’ miei giudizi, per ragguagliarne li vostri reverendi padri di Trévoux, de’ letterati di quell’isola qui non si ha affatto contezz’alcuna. Ma di questa cittá io posso darle questa novella: che da’ savi uomini qui si vive persuaso che, se la Provvidenza divina, per una dell’infinite sue occulte e ad ogni umano scorgimento nascoste vie, non l’invigorisce e rinfranca, sia giá presso al suo fine la repubblica delle lettere. Perché invero è da far orrore a chiunque vi rifletta, che di questa famosa guerra fatta per la successione di Spagna, di cui dopo la seconda cartaginese, non che quella di Cesare con Pompeo e di Alessandro con Dario, non s’è fatta maggiore nel mondo (se non pur questa della stessa cartaginese è maggiore), non si è ritrovato alcun sovrano a cui cadesse in mente di farla conservare all’eternitá da penna eccellente latina, onde si sperasse durare la lunghezza de’ tempi colla lingua della religione e delle leggi romane comune a tutta l’Europa: lo che dá pur troppo evidentemente ad intendere che oggi i principi nemmeno dal proprio interesse della loro gloria si muovono piú a conservare, non che a promuovere le lettere. Ne viene anche ciò confermato col fatto funesto a tutta la repubblica letteraria che nella Grecia di questo nostro mondo presente (dico la vostra Francia) la celebre libraria del cardinal del Bosco non ha ritrovato compratore che intera la conservasse ed ha dovuto vendersi, per essere lacerata, a mercadanti olandesi, e quindi se ne sono sparsi gl’indici per le nazioni.

Dipoi per tutte le spezie delle scienze gl’ingegni d’Europa sono giá esausti. Gli studi severi delle due lingue greca e latina si consumarono cosí dagli scrittori del Cinque come da’ critici del Seicento. Un ragionevol riposo della Chiesa cattolica sopra l’antichitá e perpetuitá che piú che le altre vanta la version vulgata della Bibbia, ha fatto che la gloria delle lingue orientali passasse a’ protestanti. Delle teologie, la polemica riposa, la dogmatica è stabilita. I filosofi hanno intiepiditi gl’ingegni col metodo di Cartesio, per lo qual, solo paghi della lor chiara e distinta percezione, in quella essi senza spesa o fatiga ritrovano pronte ed aperte tutte le librarie. Onde le fisiche non piú si pongono

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a cimento, per vedere se reggono sotto l’esperienze; le morali non piú si coltivano, sulla massima che la sola comandataci dal Vangelo sia necessaria; le politiche molto meno, approvandosi da per tutto che basti una falice capacitá per comprender gli affari ed una destra presenza di spirito per maneggiarli con vantaggio. Libri di giurisprudenza romana colta si fan vedere, e piccioli e radi, dalla sola Olanda. La medicina, entrata nello scetticismo, si sta anche sull’«epoca» dello scrivere. Certamente il fato della sapienza greca andò a terminare in metafisiche niente utili, se non pur dannose, alla civiltá, ed in matematiche tutte occupate in considerare le grandezze che non sopportano riga e compasso, le quali non hanno niun uso per le mecaniche, nelle quali due sorti di studi sembra che oggi vada a spirare la piú del suo giusto punto raffinata letteratura presente. Per tutte le quali parti dello scibile noverate, si vede apertamente la necessitá che han gli uomini di lettere di oggidí di secondare il genio del secolo, vago piú di raccontare in somma ciò che altri seppero che profondarvisi per passar piú oltre. Quindi essi devono lavorare o dizionari o biblioteche o ristretti, appunto come gli ultimi letterati della Grecia furono gli Suidi (come, gli stessi che i greci, gli Ofmanni, Moreri, Baili), i Fozi colle loro Biblioteche, gli Stobei colle loro Selve, ed altri molti colle loro Egloghe, che a livello rispondono a’ ristretti de’ nostri tempi. E, in difetto anche di questi siffatti autori, per non languire le stamperie si sono ingegnati di allettar il gusto delicato e nauseante del secolo, ristampando libri con un sommo lusso di rami, con le piú vaghe delizie de’ bulini e con pompa sfoggiantissima di figure: talché si fatte ristampe sembrano somigliantissime alle salse, pur oggi introdotte, che allora si condiscono piú saporose ove sulle portate devonsi imbandire le carni e i pesci piú trapassati.

Qui in Napoli non sono stamperie di questo fondo né artefici di questa perfezione; e, quantunque vi si abbondi di acuti ingegni e di severo giudizio che potrebbero lavorar opere tutte nuove e tutte propie, sono però i nobili la piú parte addormentati da’ piaceri della vita allegra; que’ d’inferior fortuna sono

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tratti dalla necessitá o di disperdersi nella folla del nostro fòro o, per menare piú tranquillamente la vita, esercitarsi in occupazioni che, se non gliene dissipano, certamente pur troppo gliene infievoliscono la facoltá. Non devo per tanto io tralasciare di darle questa notizia letteraria, ma pur poco lieta per gli avanzi di esse lettere. Questi reverendi padri dell’Oratorio, con animo veramente regale e pieno di pietá inverso la patria, han comperata la celebre libraria del chiarissimo Giuseppe Valletta per quattordicimila scudi, la quale trent’anni addietro valeva ben trentamila; ma io, che sono stato adoperato ad estimarla, ho dovuto tener conto de’ libri quanto essi vagliono in piazza, nella quale i greci e i latini, anche delle piú belle e piú corrette edizioni primiere, sono scaduti piú della mettá del loro prezzo, e il di lei maggior corpo sono sí fatti libri greci e latini.

Mi perdoni Vostra Reverenza se ho ecceduti i giusti termini della lettera con alquanto di confidenza, perché ho dovuto approvarle ciò che altra volta le feci intendere dal signor abate Esperti: che in ciò Ella mi aveva comandato, se non disperava affatto, diffidava certamente di poterla servire. Ora, pregandola in altre cose, dov’Ella mi conosca abile, di onorarmi de’ suoi comandi, umilmente riverendola, mi rassegno, ecc.

Napoli, 20 gennaio 1726.

XLVI
Al cardinal Lorenzo Corsini
Risposta alla lettera XLIV.

Rendo a Vostra Eminenza le piú umili grazie che io so e posso della benigna efficace volontá che ha di consolare me e questa mia povera casa con un qualche beneficio, onde possa clericarsi un mio figliuolo e vostro servo per nome Gennaro; ma l’alta idea che si ha da per tutto della rara generositá che

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cotanto la distingue tra’ principi, deve rendermi persuaso che il differimento dell’effetto egli nasca dall’impossibile. Mitigo però la mia avversa fortuna frattanto con la speranza, anzi fiducia di vivere sotto la vostra potente protezione, e, per di lei somma pietá, di esser tenuto presente alla sua pregiatissima grazia.

[Napoli, fine del gennaio 1726].

XLVII
DEL CONTE DI PORCÍA
Sulla divisata riedizione veneziana della Scienza nuova e sull’Autobiografia.

Il merito sommo di Vostra Signoria illustrissima, piú che i miei buoni uffici, ha contribuito a conciliare a lei l’amicizia e la stima del padre Lodoli e del signor abate Conti. Questi due soggetti dottissimi si pregiano al pari di me d’essere entrati in possesso del di lei amore e si fanno gloria il promuovere la fama della di lei virtù e ’l divolgamento delle di lei immortali produzioni di spirito, che tanto onorano la filosofia italiana. Farò intanto sapere al padre Lodoli le difficoltá addotte a Vostra Signoria illustrissima da codesto signor residente veneziano intorno al ricapito delle di lei note ai Principi della nuova scienza, e son certo ch’egli si studierà la maniera di trovarvi il compenso, perché giungano a noi sicure le note accennate. Sino a che arrivino queste, non si perderà tempo nel far pubblicare la storia della di lei vita e studi, perché questa serva di norma a chi vorrà aiutarci a proseguire quest’opera, che, se l’amor de’ miei pensamenti e trovati non m’inganna, vuol riuscire di profitto e di gloria alle lettere italiane. Alla storia stessa farò aggiugnere le correzioni, le quali Vostra Signoria illustrissima mi propone nella sua gentilissima lettera de’ io del caduto marzo, siccome pure le protestazioni che la di lei modestia m’insinua. Io spero che ogni cosa riuscirá a di lei

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maggior gloria e a soddisfazione di me, che desidero ardentissimamente promosso e divolgato il di lei merito e nome, e desidero pure qualche suo comando, in eseguendo il quale possa far conoscere che veramente sono con tutta la stima, ecc.

Porcia, 2 aprile 1728.

XLVIII
DI FRANCESCO SAVERIO ESTEVAN Y PARA E PUNAR
Protesta la sua ammirazione per le opere del Vico.

Due sono, riveritissimo signor Giambattista, le caggioni per le quali io, non essendo ancora nel numero de’ vostri amici e non per anche a voi conosciuto, sonomi mosso a scrivervi. L’una è la grandissima gentilezza vostra, colla quale non pure quegli accogliete che aver con voi commerzìo dì lettere e di dottrine desiderano, ma tutti coloro altresì i quali le belle e laudevoli cose o di assaggiare o d’imitare si studiano; l’altra è il non aver potuto da molto tempo communicar con voi di presenza. Conciosiacosaché giá corre il quarto anno che, da fastidiosi e gravi e lunghissimi malori di corpo contrastato, sono stato di forza tratto a muovere di codesta inclita e magnifica città di Napoli e mia padria, e, tutti gl’ intrapresi studi di lettere intralasciando, qua ritirarmi in questo mio villaggio per rintuzzare colla quiete dell’animo la forza del male sopravvenutomi e ristabilir tratto tratto le giá infievolite forze di corpo. Il perché non avendo potuto io per si lungo tratto di tempo il conceputo desiderio, ch’era di communicar con voi, ad esecuzion mandare, lo qual sin d’allora mi cadde in animo ch’ebbi in sorte voi e le opere vostre conoscere, emmi parso finalmente convenevole, se non di presenza, almen per lettera l’usar con voi quell’officio che a valentuomo si deve, non pure per dedicarmivi buono amico e servidore, quale io mi vi professo, ma per apprendere altresí da Vostra Signoria quegli ammaestramenti e

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que’ lumi che non altronde si traggono che col communicare con uomini tanto saggi qual siete voi.

Vi confesso il vero, signor Giambattista, che, dacché mi venner fra mani i vostri libri di si grande erudizione e dottrina ricolmi che appena rinvenir si possa chi v’abbia nella cognizione e nel lume, non che superato, adeguato soltanto, non mai gli mi ho fatti cader di mano, anzi con tanto e si gran piacere gli ho soventi fiate letti e riletti che maggiore ne’ latini e greci filosofanti non ho rinvenuto. La vostra virtù comprensiva, colla quale, aggirandovi entro la natura delle cose, ne penetrate la midolla, indi spiegandone co’ parlari piú vivi le proprietá, ella è per certo ammirabile. Onde io mi veggo costretto per dritto di giustizia ed a confessar a voi francamente ed a dichiarare in faccia a chichesia esser le vostre opere parti di una tal mente che per nascerne altra simile non una età sola, come Tullio de’ buoni oratori favellando diceva, ma molte e molte vi abbisognassero. Gloria somma invero dell’etá nostra, e motivo di rallegramento a tutti i dotti, per vedere a tanto colmo arrivato l’umano sapere.

Io intanto, rallegrandomi anche con esso voi di esser dal grand Lidio di si bel dono fornito, vi prego a gradire questa schietta oblazione della mia servirtú ed amicizia; sperando anche, tosto che sarò libero dalla dura necessitá del malore che tuttavia mi si va scemando, venirvi di presenza a riverire in Napoli e raggionare alla distesa sulle cose del vostro sistema. Vivo però con desiderio tale delle vostre cose tutte che, se possibil fosse, vorrei raccolte quante mai parole v’escon di bocca. Avrei sommamente caro, perciò, che, se pur presso di voi ve le trovate, m’inviassivo l’altre vostre opere, da quella De universi iuris principio e quella della Natura delle nazioni in fuori, non avendo potuto nelle librerie, quanto a me, rinvenirle. E con ciò, bramoso de’ vostri, piú che di ciascun altro, giocondissimi commandamenti, vi bacio la mano, ecc.

Castello di Cicciano, 8 novembre 1728.

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XLIX
A Francesco Saverio Estevan
Contro il cartesianismo e il metodo degli studi ai suoi giorni,
e circa le cagioni della poca fortuna della Scienza nuova.

La vostra luminosa maniera di pensare, gentilissimo mio signor don Francesco, in veritá mi sorprende, e ’l saper generoso (che, se generoso non è, egli non è vero sapere) m’inalza sopra di me medesimo e con una civiltá socratica m’addottrina e mi emenda. Voi mi fate accorto d’aver io nell’orazion funerale d’Angiola Cimini marchesana della Petrella toccato quel segno al quale credeva d’essermi soltanto sforzato d’indrizzare lo stile; e mi scovrite la scienza di ciò che io per un certo senso, diritto per avventura, fatto mi aveva. In cotal guisa m’illuminate. Dipoi stimate da piú sí fatta orazioncina che non sono l’altre opere del mio debol ingegno, anco la Scienza nuova; di che io aveva certamente oppenione affatto contraria. Ma, se cotal componimento fosse stato egli dettato da una vera eloquenza, la ragione senza dubbio starebbe dalla parte del vostro giudizio; perché la vera eloquenza è la sapienza che parla, e la sapienza è l’aggregato di tutte le virtú e della mente e del cuore, onde naturalmente escono da se stesse e le piú belle e le piú grandi virtú della lingua: le quali tre spezie di virtú compiono il vero uomo, che tutto è mente illuminata, cuor diritto e lingua fedel interpetre d’amendue. Ed in vero innumerabili sono stati gli scienziati uomini autori di grandissime discoverte; ma due soli al mondo furono i perfetti oratori, Demostene e Cicerone, con la cui eloquenza visse e, quelli morti, morí la libertá d’Atene, la piú ingentilita e la piú dotta, e di Roma, la piú luminosa e piú grande cittá del mondo. Cosí voi mi emendate.

Desiderate quinci sapere come cotal orazione è stata ricevuta dal comune de’ letterati napoletani e se n’abbiano sparlato, come han fatto d’altre opere mie e sopra tutte della Scienza nuova. Io, in veritá, non so darvene contezza alcuna, perché non

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ho curato di saper ciò ch’essi n’abbiano detto. So bene che ’l comune degli uomini è tutto memoria e fantasia; e perciò hanno sparlato tanto della Nuova scienza, perché quella rovescia loro tutto ciò che essi con errore si ricordavano e si avevano immaginato de’ princípi di tutta la divina ed umana erudizione. Pochissimi sono mente, la qual bisogna come di architetto (giova qui avvalermi di un grave giudizio comunicatomi dal signor prencipe della Scalea, fatto da esso in rileggendo la Rettorica d’Aristotile) per giudicare de’ lavori dell’eloquenza; la quale fa uso con dignitá di tutte le parti del saper umano e divino, e da un punto come di prospettiva ne dee vedere, e tra esso loro e nel tutto, la convenevolezza, che fa tutto il bello dell’eloquenza, che si chiama «decoro».

Oltracciò, io non mi son punto curato informarmene, perché vivo giá persuaso che ne dovessero giudicare come d’una operucciola fatta per passatempo. Perché la piú parte de’ dotti d’oggidí fervono in studi, che soli reputan severi e gravi, e di metodi e di critiche; ma metodi che disperdon affatto l’intendimento, di cui propio è di veder il tutto di ciascheduna cosa e di vederlo tutto insieme, ché tanto propriamente sona «intelligere», ed allora veramente usiam l’«intelletto», che le nostre menti in questo corpo mortale ci può render in un certo modo della spezie della qual sono le separate che con peso di parola si chiaman «intelligenze»; e, per vederne il tutto, debbe considerarla per tutti i rapporti ch’ella può mai avere con altre cose dell’universo, e tra quella che vuole perfettamente intendere e cose affatto disparate e lontanissime ritrovarvi all’istante alcuna comunitá di ragione, nello che consiste tutta la virtú dell’ingegno, che è l’unico padre di tutte le invenzioni: la qual sorta di percipire ècci assicurata dall’arte topica, che da’ presenti loici com’inutile oggi si dissapprova, la qual sola ne può soccorrere negli affari ferventi che non dánno tempo al conseglio; e la sola sapienza, stando sopra un piede, li può risolvere. E come il percipire è prima del giudicare, cosí essa percezione puonne apparecchiare al giudizio una critica, quanto piú accertata tanto piú utile alla scienza per le sperienze in

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natura e per gli nuovi ritrovati dell’arti; utile alla prudenza per ben fermare le congetture delle cose, o fatte per giustamente giudicarle o da farsi per utilmente condurle; utile all’eloquenza per la pienezza delle pruove e per lo piacere dell’acutezze. E finché tutti i dotti ebbero gl’intelletti scemi di cotesta quarta operazione che dicon «metodo», han fruttato il tutto che abbiamo e di maraviglioso e di grande in questa nostra coltissima umanitá; ma, doppoi che si è in ciò da cotali filosofi supplita la mente umana, ella è sterilita e sfruttata né ha ritrovato alcuna cosa piú di rimarco.

Delle critiche, altra è metafisica, che va finalmente a terminare donde incomincian ad insegnarsi, cioè nello scetticismo, che nelle menti giovanili, quando piú tempestano di violentissime passioni ed hanno l’animo come di mollissima cera per ricever altamente le impressioni dei vizi, stordisce il senso comune, del quel avevan incominciato ad imbeversi con l’educazion iconomica e doveva loro fermarsi dalla sapienza riposta, del quale non ha la sapienza volgare regola piú certa per la prudenza civile, la qual allora ci assiste quando operiamo conforme operano tutti gli uomini di senzo diritto. Ma lo scetticismo, mettendo in dubbio la veritá, la qual unisce gli uomini, li dispone ad ogni motivo di propio piacere o di propia utilitá che sieguano il senso propio, e sí dalle communanze civili li richiama allo stato della solitudine, nonché degli animali mansueti, c’hanno pur talento d’unitamente vivere ne’ greggi e negli armenti, ma di fieri ed immani, che vivono tutti divisi e soli nelle lor tane e covili; e la sapienza riposta degli addottrinati, che doverebbe reggere la volgare de’ popoli, le dá le piú forti spinte a precipitarsi ed a perdersi. L’altra critica è l’erudita, che di nulla serve a far sappienti coloro che la coltivano.

Ma quell’analisi veramente divina de’ pensieri umani, la quale, sceverando tutti quelli che non hanno natural séguito tra di loro, per angusto sentiero scorgendoci di uno in uno, ci guida sottilmente fil filo entro i ciechi labirinti del cuor dell’uomo, che ne può dare, non giá gl’indovinelli degli algebristi, ma la certezza,

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quanto è lecito umanamente, del cuor dell’uomo, senza la quale né la politica può maneggiarlo né l’eloquenza può trionfarne; e quella critica la quale, da ciò che in ogni circostanza è posto l’uomo, giudica che cosa egli in conformitá di quella debba operare, che è una critica sappientissima dell’arbitrio umano, il qual è per sua natura incertissimo, e perciò sommamente necessaria agli uomini di Stato; — entrambe, oltre a quello delle morali filosofie, delle quali unicamente s’intesero i greci, per lo infinito studio de’ poeti, degli storici, degli oratori e delle lingue greca e latina ch’abbisognan per ben intenderli, si sono affatto abbandonate. E si son abbandonate principalmente per l’autoritá di Renato delle Carte nel suo metodo, ed in grazia del suo metodo, perocché voglia per tutto il suo metodo; ond’egli si ha fatto un gran séguito per quella debolezza della nostra natura umana, che ’n brevissimo tempo e con pochissima fatiga vorrebbe saper di tutto. Che è la cagione perché oggi non si lavoran altri libri che di nuovi metodi e di compendi, perché la dilicatezza de’ sensi, che è fastidiosissima in questo secolo, essendosi traggittata alle menti, i nuovi libri non per altro si commendano che per la facilitá, la quale cosí fiacca ed avvelena gl’ingegni siccome la difficoltá gl’invigorisce ed avviva.

Però publica testimonianza è che metodi cosí fatti, trasportati dalle matematiche all’altre scienze, di nulla abbiano giovato gl’ingegni a dilettarsi dell’ordine, che da essi si è fatto passaggio (chi ’l crederebbe?) a scriversi dizionari di scienze, e, ciò che recar debbe piú maraviglia, delle stesse matematiche, da’ quali non vi ha maniera piú fatta a caso né piú scioperata d’apprendere. Cosí egli è addivenuto che si condanna lo studio della lingua greca e latina, onde sono dappertutto inviliti i prezzi degli scrittori in entrambe le lingue propie, e si sono sformatamente alterati quelli de’ traduttori; e pure sí fatto studio ci può unicamente informare della maniera di pensare saggia e grande de’ romani ed esatta e dilicata de’ greci, delle quali e l’una e l’altra bisognarebbe agli uomini d’alto affare, che debbono trattare di cose grandi co’ grandi e con altezza d’animo

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mostrar loro di sottilissimo filo la veritá con aspetto di compiacenza, perché le lingue sono, per dir cosí, il veicolo onde si stransfonde in chi le appara lo spirito delle nazioni; — si condanna lo studio che assolutamente bisogna per l’intelligenza del diritto romano latino, che molto riceve di lume dall’orientale de’ greci, col quale si giudicano le cause in tutti i tribunali d’Europa; — si condanna lo studio della lingua della nostra religione, con cui parlò la Chiesa greca e parla tuttavia la latina; e precisamente è necessario per le controversie che debbono nascere con le novitá che posson surgere nella Chiesa; — si condanna la lezione degli oratori, i quali soli ci possono insegnare il tuono con cui la sapienza favella; — si condanna quello degli storici, i quali soli si possono sperare veraci consiglieri de’ principi senza timore e senza adulazione; — si condanna finalmente quello de’ poeti, col falso pretesto che dican favole: nulla riflettendosi che le ottime favole sono veritá che piú s’appressano al vero ideale o sia vero eterno di Dio, ond’è incomparabilmente piú certo della veritá degli storici, la quale somministrano sovente loro il capriccio, la necessitá, la fortuna; ma il capitano, che finge, per cagion d’esemplo, Torquato Tasso nel suo Goffredo, è qual dee esser il capitano di tutti i tempi, di tutte le nazioni; e tali sono tutti i personaggi poeti per tutte le differenze che ne possono mai dare sesso, etá, temperamento, costume, nazione, republica, grado, condizione, fortuna; che altro non sono che propietá eterne degli animi umani ragionate da’ politici, iconomici e morali filosofi, e da’ poeti portate in ritratti. Allo incontro, come se i giovani dalle accademie dovesser uscire nel mondo degli uomini, il qual fossesi composto di linee, di numeri e di spezie algebraiche, empiono lor il capo de’ magnifici vocaboli di «dimostrazioni», di «evidenze», di «veritá dimostrate», e condannano il verisimile, che è il vero per lo piú, che ne dá quella regola di giudicare che è un gran motivo di vero ciò che sembra vero a tutti o alla maggior parte degli uomini; di che non hanno piú sicura i politici in prender i loro consigli, né i capitani in guidare le lor imprese, né gli oratori in condurre le loro cause, né i giudici in giudicarle, né
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i medici in curare i malori de’ corpi, né i morali teologi in curar quelli delle coscienze; e finalmente la regola sopra la quale tutto il mondo si acquieta e riposa in tutte le liti e controversie, in tutti i consegli e provedimenti, in tutte l’elezioni, che tutte si determinano con tutti o con la maggior parte de’ voti.

E la ragione di tutto ciò che ho scritto è che, dappertutto celebrandosi il criterio della veritá del medesimo Renato, che è la chiara e distinta percezione, il quale, non diffinito, è piú incerto di quel di Epicuro, che il senso evidente di ciascheduno, il qual ogni passione ci fa parer evidente, conduce di leggieri allo scetticismo, il quale, sconoscendo le veritá nate dentro di noi medesimi, poco anzi niun conto tiene di quelle che si deono raccogliere dal di fuori, che bisognano ritrovarsi con la topica per fermare il verisimile, il senso comune e l’autoritá del gener umano; e perciò si disappruovano gli studi che a ciò bisognano, che sono quelli degli oratori, degli storici e de’ poeti e delle lingue nelle quali essi parlarono.

Con questo spirito, la maggior parte de’ dotti a compiacenza dánno i giudizi dell’opere di lettere, facendone regola la loro capacitá, e la loro capacitá giustificando a’ medesimi la propia lor passione. Cosí, in questi stessi tempi che da essi si coltivano metafisiche, metodi e critiche, un’opera, meditata come una metafisica innalzata a contemplare la mente del gener umano e quindi Iddio per l’attributo della Provvedenza, per lo qual attributo Iddio è contemplato da tutto il gener umano, — esaminata con una critica che si fa sopra essi autori delle nazioni, la qual unicamente ci può accertare di ciò che ne dissero gli scrittori, i quali dopo la scorsa almeno d’un diece secoli vi cominciarono a provenire, — e condotta con un metodo addentrato nella generazione de’ costumi umani, che ad ogni tratto ne dá importantissime discoverte, — essi, perché vi si tratta di materie i cui studi si condannano dal metodo di Renato, contro ogni regola di buon’arte critica, senza farne verun esame, senz’applicarvi punto d’attenzione, con un giudizio superbo, che è quel che non rende ragione del perché cosí giudica, la condannano dicendo che «non s’intenda»; e, con costanza veramente di filosofi,

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coloro i quali chiamano questo secolo «beato», perocché si goda la libertá di sconoscer i Socrati ed i Platoni per lo amore della ragione e del vero, fanno plausibile il lor giudizio appresso il vulgo ignorante che, perocché le volgari tradizioni degli antichi sono state ricevute come articoli di fede da tutti i dotti di tutti i tempi, si debba sopra di esse alla cieca serbare tutta la venerazione all’antichitá.

Quindi potete intendere, signor don Francesco, se io debba estimare cotesta vostra solitudine per una grande celebritá, e se la Nuova scienza abbia degno luogo nel vostro nulla, che voi dite per una modestia nata da una somma grandezza di animo. Ché, avendo sgombro la vostra gran mente di tutto ciò che vi ricordavate e vi avevate immaginato de’ princípi dell’umanitá, vi avete lasciato tutto solo il vostro alto intendimento a spaziare nella sua vasta comprensione per ricevervi la Scienza nuova; ond’Ella entra nel numero di que’ dottissimi, che sempre furono pochi, che sostengon in questo paese ed all’opera il credito ed all’autor, oppresso dalla fortuna, difendono e la patria e la vita e la libertá.

E vi bacio caramente le mani.

Napoli, a dí 12 gennaio 1729.

L
DELL’ESTEVAN
Si scusa dell’aver preferito l’orazione per la Cimmino alle maggiori opere del Vico, e fa le lodi di queste.

La somma riverenza che, come ad ottimo maestro, vi si dé’ e da me vi si professa sin dacché, conosciuta la necessità che piú che ciascun altro ho io d’essere ammaestrato, ebbi in sorte di conoscere in Vostra Signoria, sovrano lume de’ nostri tempi, il merito d’ammaestrare, mi sprona a tórre a Vostra Signoria il pensiere, s’Ella mai s’è indotta a giudicare cosí, che io in profferirle quello che, in leggendo la vostra orazione funerale

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data in luce per la morte della marchesa Cimini, ingenuamente ne sentiva, abbia voluto contrappesarla ad altre vostre opere e dire che un’operucciola, che altri giudicarebbe da passatempo, preponderi ad opere su di cui vi avete gocciolato il cervello in tutto il tempo di vostra vita. Di grave tracotanza mi accagionerei, se mi recassi a coscienza d’essermi fatto giudice delle vostre cose e d’aver voluto dar loro il giusto peso. E se dar giudizio di tutt’altre opre d’ingegno per ogni verso m’è sconvenevole, sarei temerario ad eccesso se volessi darle delle vostre. La maniera del mio favellare, riveritissimo signor Giambattista, la quale, e per l’alta idea che ho di Vostra Signoria e per la grande difficoltà che da me s’incontra in restrignere in poco quel molto che dir se ne dovrebbe, e tra per mille riguardi, è corta, ha dato a Vostra Signoria motivo di credere che io abbia voluto diroccare una tanto ben fondata vostra opinione, con dire esser da piú cotal funebre orazione che non sono e ’l Dritto universale e la Scienza nuova, su di cui avete travagliato con merito indicibile. Ma, s’ella è corta, cortissima, com’ esser manifestamente si vede, dé’ il vostro luminoso intendimento sopperirle.

Gentilissimo amico e stimatissimo, dacché venutimi fra mani i vostri libri sul bel principio mi vi applicai colla lezione e colla meditazione, mi accorsi di un certo spirito, che si racchiudea ne’ vostri ragionari, innalzato a pensare sopra la maniera comune degli uomini, e mi sono mai sempre ingegnato di penetrare ne’ piú cupi recessi di vostra mente, onde colla stessa facilità escono e questo e quello ed ogn’altro lavoro, sembri grande quanto si voglia, tanto che altre cagioni non l’interrompano quel corso ond’ella si spinse da prima a meditare sulle divine ed umane cose; e mi sono sforzato di commendarvi, comecché a dover non si puote, per quel verso onde proviene a Vostra Signoria sincerissima la lode. Non giá come altri, i quali, o volendovi colmare d’applausi, han preso una od altra cosa ratta dalla perpetua serie del vostro ragionare che loro piú incontrasse il genio, ed ivi sopra han formato un catafalco di lodi; o, volendovi fare la critica, si son fatti innanzi con qualche fatto di non

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ben ragionata storia, e cosi han fatto pompa di quel che dite « raccordarsi » e « fantasia ». Nessun ve n’ ha che si fosse specchiato nella vostra mente, che ha voluto scuotersi quella schiavitù che ha premuto finora miserevolmente i cervelli de’ piú addottrinati. Quindi è che gli uni, spinti da vento contrario, han rivolto bruttamente le lodi in biasimi, ricorrendo all’usato rifugio di « non intendere »; e gli altri, rovinosi sotto la propia mole de’ loro apparati e sbalorditi a vista della vostra luminosa ragione, che sempre andante ammenda, supplisce e interpetra i fatti piú oscuri ed intrigati della storia, son rimasti per alquanto di tempo storditi: di poi, ripigliato sembiante di confusi e maravigliosi, son caduti, non volendo, nella openione de’ primi; e si entrambi concorsi d’accordo a dispreggiare: appunto come fanno i figliolini che, qualora truovan compagni, si portano a deridere i tratti piú seriosi della vecchiezza, che, soli, rimirarebbono con aspetto di venerazione.

Or questa grande architetta di vostra mente, la quale ne ha scoverto al possibile i disegni della Provvedenza nell’ordinare il mondo delle nazioni, in questa ultima operetta mi si è fatta vedere in grado piú sublime che nel Dritto universale e nella Scienza nuova: si che, rifondendone netta la cagione all’essersi piú e piú spiegata la mia capacità, sono stato tratto a giudicare essere e il Dritto universale e la Scienza nuova opre d’altra mente che non credeva, e tenerle in altro preggio; e son certo che, ripigliandole, nuove bellezze vi riconoscerei e nuovi lumi. E questo volli dire mentre dissi essere una grand’opra ed avermi destato maggior maraviglia che le altre tutte. Dipoi fosse vostro disegno, fosse la Provvedenza fuor d’ogni vostro intendimento, sono stato condotto a rapparare i vostri parlari alle migliori idee, e quelle che han pensato i filosofi e quelle colle quali non filosofo, non teologo, ma ella stessa la Provvedenza con certe singolarissime occasioni ne addottrina ed illumina. Il perché mi lasciai cader di penna « esser da piú che le bibbioteche di tutti i filosofi». Onde veda Vostra Signoria con quanta ragione vi abbia detto esser uopo anche a’ piú raffinati di altre vostre opere. Deh! non vi incresca, riveritissimo mio signor Giambattista; di

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tener sempre in esercizio la vostra mente. Fatela servire a’ disegni, perché tant’alto sublimolla la Provvedenza; e vivete sicuro che ella, per canali da Vostra Signoria non immagginati, fará surgere a Vostra Signoria una fonte perenne di gloria immortale.

Troppo, dall’altro canto, vi piaggierei, se volessi giudicare cotal funebre orazione parto d’una vera eloquenza per quella che Vostra Signoria ne dà ed è la sua giusta idea, la quale diceva Marco Tullio trovarsi solamente in Dio; lo qual senso, a mio giudizio, siccome, nell’altri acutissimi detti de’ gentili filosofanti, va a ferire la natura intera dell’uomo, in cui, come in speglio tersissimo e senza enimma, si vedrebbe la luce del divino sapere dar moto a tutte le facoltà dell'uomo. Conciosiacosaché alla corrotta natura dell'uomo quanto la difficoltà medesima, tanto costa l'accoppiare tutte e tre le virtù onde proviene compiuta l’eloquenza; e, se per anche si truovano in suggetto unite in grado che non possano piú oltre stendersi per natura, non possono dar in luce che una indebolita eloquenza e tale che rimanga a mente ancora l'agio di sentenziare quel: «Nescio quid verbum semper abest rei».

Ma Vostra Signoria non è già tale che debba strascinarvi a sincera communicazione d’animi sozza adulazione. Ed io non ho sortito quest'animo servile; che, piuttosto che mettere in uso la sozza maniera colla quale coltivasi oggidì l’umana società, goderei di starmene per elezione in questa solitudine, ove son ridotto a vivere dalla necessità, ed ho rinunziato perciò all’insozzita profession delle leggi; in guisa che, rilasciando per avvenire tal beata necessità i stimoli ad oprar il meglio che si dé’ e risti-tuendosi alla libertà dell’arbitrio la facoltá dell’elezzione, or, per quando che fosse, ne priego la grazia istantissimamente a soccorrerla sí che non abbia a travedere e succiar quel veleno che si nasconde entro il guscio d’un vil guadagno ed onore. Tra breve, rimettendosi la stagione in qualche temperato sistema, sarò di persona a darvi il tributo bimestre d’ossequi, secondo l’obbligo che ho contratto con Vostra Signoria.

E con umile e profondamente riverirvi vi bacio la mano, ecc.

Castel di Cicciano, 24 gennaio 1729.

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LI
DI TOMMASO RUSSO
Manda il manoscritto della sua opera Dell’animo dell’uomo.

Benché que’ miei dialoghi, che per somma gentilezza tanto con tante persone Vostra Signoria ha lodati, mi si mostrino ora cosí sconci che mi pento avergli pubblicati e mi contento che non siano potuti uscire fuori de’ confini di questa provincia; con tutto ciò non mi son perduto di animo, e per una nuova occasione ho faticato sopra una nuova materia, che è la natura dell’animo nostro. È intorno un anno che in certa conversazione furono uditi cotanto essaltare gli argomenti di Lucrezio contro all’immortalità, che per un giusto sdegno mi venne tosto in pensiero di vedere di mostrarne la debbolezza in altro modo che gli scrittori che ho potuto aver nelle mani vedea non aver fatto. Intrapresi adunque quell’opera piú consigliandomi coll’ardore de’ desidèri che misurando le forze, e, come ho potuto meglio, l’ho già condotta a fine. Perché sono diligente lettore delle vostre profonde speculazioni; perché in compor questa disputa ho innanzi agli occhi avuto il dritto e saldo e acuto giudizio vostro; e in fine perché con singolar sapere, che gli oscurati intelletti di questo secolo non comprendono, congiungete tanta umanità quanta in me e nelle mie cose ho sperimentata; la mando drittamente a voi e al vostro luminoso intendimento la sottopongo, e la priego, quando alcuno spazio dal prezioso tempo vostro le sará conceduto, ad osservarla e correggerla ed a formarne poi un giusto giudizio. Che se avverrà che possiate voi ridurla a tale che possa veder la pubblica luce, la priego a volerla allora onorare del nobilissimo nome vostro e con altre cose favorirla che render la possano al mondo letterario accettevole e cara. Io non ho altro merito che quello di essere studiosissimo delle vostre pregevolissime scritture, che, quanto piú posso, non cesso di magnificare e predicare in ogni luogo e tempo.

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Il mio signor compare signor Giuseppe Capozzo sará a trovarla, e come di questo, cosí di altro che faccia uopo, a pregarla di tempo in tempo, con altre particolarità che non istimo dovere ora esplicare in questa lettera. M’inchino finalmente con profonda riverenza al suo gran merito e le bacio le mani, ecc.

Montefoscolo, 11 giugno 1729.

LII
DEL PADRE MICHELANGELO FRANCESCHI DA REGGIO
Ringrazia per le accoglienze ricevute in Napoli e invia saluti suoi e di amici al Vico e ai suoi familiari.

Rispondo alla gentilissima e a me carissima lettera di cui Vostra Signoria illustrissima con si bel cuore mi ha favorito, sendomi stato un bel conforto, giunto appena in patria, trovare grazie cosi distinte, per le quali sempre piú obbligato me le protesto.

Mi sono molto bene avveduto che Ella cogli amici e padroni tutti hanno pregato per me, perché ho avuto un viaggio felicissimo, a riserba di una stanchezza inseparabile da sí lungo viaggio. A diciotto giugno giunsi in Modena, dove fui a riverire e il signor marchese Orsi e il signor Muratori, i quali unitamente le rendono i piú cordiali saluti, avendo gradito quest’atto al piú alto segno; e si è fatta lunga e degna rammentazione delle sue rare virtù e del suo alto merito e delle finezze meco praticate.

Godo senza fine di sentire il buon esito del di lei scorbuto e della felicissima cura che si fa al gentilissimo e amabilissimo padre don Roberto Sostegni, a cui, come presso degli altri amici a lei ben noti, è pregata di portare i miei piú ossequiosi e candidi rispetti. Il Signore prosperi Vostra Signoria illustrissima e tutta la sua carissima famiglia; e mi rallegro che la signora donna Luisa e signora Marianna sia andata a godere della buon’aria. Ma vi vada ancor Ella, secondo che mi promise, e

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mi riverisca tutti di sua casa dal primo all’ultimo, perchè tutti e singoli porto nel cuor mio scolpiti.

Sentirò con particolare piacimento continue nuove di lei e del libro suo che si dee stampare in Venezia, che esito abbia sinora.

La famosa raccolta del signor Cranio de Iosa di Potenza stampata dal Muzi (secondo che lui bugiardamente asseriva) per ora non si è ancor veduta, e ne dovea trovare a centinaia le copie e in Roma e in Livorno. Oh quante bugie mi ha vendute codesto buon signore! tante che vi vuol mettere la carestia. Gli farò però tra non molto penetrare i miei sentimenti di amorevol doglianza, perché si sia preso scherzo di me, credendomi o si credulo o si semplice che non avessi divisato ab initio il suo doppio procedere. Buon per noi che ho trovato in Vostra Signoria illustrissima il rovescio della medaglia, come dir si suole, e mi ha favorito con gentilezza e sincerità da suo pari.

Accludo la presente al molto reverendo padre guardiano de’ cappuccini, per mezzo di cui perverrà alle di lei mani; e, per non abusarmi della sua sofferenza, insieme col buon padre Felice le rinuovo il mio rispetto e la mia servitù, protestandomi senza fine, ecc.

[Reggio Emilia, dopo il 18 giugno 1729.]

LIII
Al padre Giacco
Manda le Notae in Acta lipsiensia.

Come, per lo eterno obbligo di giustizia che io tengo con Vostra Paternitá reverendissima, le mando questo libricciuolo, cosí, per l’onore ch’Ella generosamente mi compartisce della sua confidenza, le scrivo ciò che non ho potuto confidare alle stampe.

Il volume degli Atti di Lipsia dell’anno 1727, ov’è stampata una novella letteraria della nostra Scienza nuova, era venuto qua in Napoli fin dal principio del caduto anno 1728, e

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si teneva sotto chiave dall’autore che l’aveva quinci scritta a’ signori eruditi lipsiesi, ed accortamente dissimulavasi da altri pochi che n’erano consapevoli con esso autore; né è mancato uno di essi, il quale pratica spesso in mia casa la sera, di costituirmene reo della scienza, che di tempo in tempo me ne dava contezza, ma sempre incerta, varia, indistinta e confusa, per la quale non mai me ne venne talento d’informarmi del vero. Quando finalmente nel passato mese di agosto tal volume comparve qui pubblicamente in piazza de’ librai, insieme con tutto il corpo, venuto a questo mercadante di libri Niccolò Rispolo; onde da molti curiosi cotal novella fu letta, la qual essendo stata per mia buona sorte riferita al padre don Roberto Sostegni, egli con quella solita sua gran circospezione mi accertò che i signori giornalisti di Lipsia parlavano di quell’opera, ma che all’orecchio non glien’era giunta altra accusa che gloriosa per me: che l’avessi io lavorata conforme al genio della Chiesa romana. Quindi, invogliatomi di rincontrarla, perché l’osservai contenere tredici proposizioni dentro altrettanti versi, delle quali una, vera, mi reca una somma gloria, l’altre dodici son tutte false e che non mi toccano punto, io avrei certamente risparmiato di rispondervi: ma, perché si aveva a divolgare l’autore, come se n’avanzò tuttavia il rumore qui in Napoli, acciocché non si potesse nemmeno per ombra sospettare che l’andassi io diffamando e che volessi vederlo punito di quelle gravissime pene e spirituali e temporali che glien’aspetterebbono, io presi a scrivervi queste note, con tal condotta, che vi fo necessaria comparsa di non saperlo chi sia, per tre fini tutti da conseguirli io da’ medesimi giornalisti, appo i quali esso non si può a verun patto nascondere: il primo, che io ho tutto l’affare con essi, con costui nulla; il secondo, ch’essi stessi puniscano questo empio, con farlo cadere dal loro concetto di esser costui loro buon amico, e nello stesso loro concetto il cuoprano tutto d’ignominia e d’infamia, e nel medesimo tempo per la loro propia imprudenza e temeritá ne restino essi carichi di vergogna e di pentimento, d’aver essi ciecamente confidato la loro stima e ’l loro credito ad uno vilissimo traditore della
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patria, della nazione e della religione sua propria; e l’ultimo e piú rilevante di tutti, ch’essi non sieguano per l’avvenire a credere di questa pietosissima cittá che voglia dissimulare un cotanto scellerato cittadino, che quindi ha attentato di aprire con essi un commerzio pubblico di eresia.

Questo è quello di che doveva io ragguagliarla. Del rimanente le parlerá essa scrittura, la quale, affidato nella di lei alta generositá, avviso che la leggerá con buon occhio, come sempre ha soluto tutte le altre deboli opere del mio afflittissimo ingegno.

E, facendola umilissima riverenza, mi confesso, ecc.

Napoli, 4 dicembre 1729.

LIV
Al medesimo
Manda il rifacimento delle iscrizioni latine composte dal Giacco
pei ritratti degli illustri cappuccini nel convento di Arienzo.

Per accertare Vostra Paternitá reverendissima quanto mi sia dilettato de’ vostri elogi, ho voluto seco gareggiare in qualche formola, perché i disegni sono sí belli che non si possono migliorare. Sará sua gentilezza se vorrá di alcuna di quelle varietá servirsi, e mia sará la gloria di avervi solamente ubbidito. E con tutto l’ossequio resto, rassegnandomi, ecc.

[senza data]

LV
A Tommaso Russo
Elogia l’opera del Russo: Dell’animo umano.

Ho letto con sommo mio piacere, perché con altrettanto profitto, la vostra maravigliosa disputazione Dell’animo umano, nella quale vigorosamente sciogliete gli argomenti di Tito Lucrezio Caro contro la di lui immortalitá. Dappertutto vi ho ammirato la bella luce, il vivido splendore e la grande feracitá

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della vostra sublimissima mente, e, per dirla in un motto, vi ho scorto il vero metafisico; ché quanto dite, quanto sponete, quanto ragionate, tutto il traete fuori dalla vostra altissima idea, e, senza dirlo con parole, dimostrate di fatto la debolezza di Renato delle Carte, ch’n sei brievi Meditazioni metafisiche, per ispiegarsi, v’adopera cento simiglianze e comparazioni prese da cose al di fuori di essa mente, quando è propietá della mente da sé di prendere le comparazioni e le simiglianze, quando non può altrimenti spiegare le cose delle quali non sa la propia natura; convincete a tutta pruova la corpulenza del padre Malebrance, che apertamente professa non potere spiegarsi le cose della mente che per rapporti che si prendon da’ corpi. Perché voi con una maniera veramente divina e, ’n conseguenza, propia di questa scienza, al lume delle cose dello spirito rischiarate quelle del corpo, e dallo splendor dell’idea illustrate l’oscurezza della materia. Che debbo io dire della vostra generositá con cui combattete Epicuro, di cui non solo non dissimulate o almeno infievolite gli argomenti, ma gl’invigorite ed esaltate con nuove vostre interpretazioni, che gli epicurei tutti non seppero intendere; e con animo pugnace cosí gli andate ad incontrare, perché indi si scorga il vigore col quale l’incontrate, il combattete, il mandate a terra? Che, poi, di quel torrente d’eloquenza divina, con cui vi avete fatto una spezie di favellare tutta vostra propia, perché propia di cotal scienza? della grandezza e sublimitá de’ trasporti, che usate tutti opposti, quali debbon essere, a quelli dell’eloquenza umana, perché questa debbe fare dello spirito corpo e voi in un certo modo fate del corpo spirito?

Voi siete degno, signor don Tommaso, non giá di Montefuscoli, ma della piú famosa universitá dell’Europa; ma, poiché la vostra modestia, eguale alla vostra gran dottrina e virtú, vi fa contento di Montefuscoli, almeno giovate il mondo di cotesta sapientissima scrittura; la quale l’assicuro che recherá gloria, non che a Napoli, all’Italia tutta, con merito grandissimo della pietá, che si rifonda in utilitá di tutte le repubbliche e particolarmente cristiane.

[Napoli], 7 dicembre 1729.

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LVI
A Ludovico Antonio Muratori

Ringrazia per la nomina ad accademico Assordito di Urbino, si scusa di non poter mandare al padre Bulgarelli un compendio della sua vita e accenna all’invio, fatto al Muratori e all’Orsi, delle Notae in Acta lipsiensia.

Dalla singolar bontá ch’adorna Vostra Signoria illustrissima, al pari della sua gran dottrina ed erudizione, debbo io riconoscere l’onore compartitomi da’ signori accademici Assorditi d’Urbino d’avermi annoverato fra esso loro, appo i quali m’immagino che tanto io mi abbia di credito quanto Ella me n’avrá dato colla sua autoritá. Ne professo egualmente ed a Vostra Signoria ed a cotesti signori illustrissimi le dovute grazie.

Però dintorno a ciò mi comanda del compendio della mia vita letteraria, la priego a dar un’occhiata ad una lettera del raccoglitore degli Opuscoli eruditi dov’ella è raccolta, indiretta al signor Valisnieri, che tien luogo di prefazione al primo tomo; ché leggerá le tante mie proteste pubblicamente fatte perché ella sola non si stampasse. Talché la mia gravitá richiede che io non abbia a dar altra fuori, quantunque ristretta. Se ’l consaputo padre volesse ristampar quella, io non potrei far altro ch’emendarla dagl’innumerabili errori di stampa, da’ quali va bruttamente svisata.

Per l’abate Chiappini mandai salutando Vostra Signoria illustrissima e ’l signor marchese Orsi, e ad entrambi inviai, in picciol segno della molta stima inverso essoloro, due esemplari d’un opuscoletto, ch’allora era uscito dalle stampe col titolo Notae in Acta lipsiensia. Credo che non vi siano ancora capitati tra mani.

Desidero sapere della salute del padre Michelagnolo da Reggio, per lo quale innanzi aveva io pur mandati i miei saluti cosí

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a Vostra Signoria illustrissima come ad esso signor marchese, come ora v’aggiungo quelli al padre predicatore. E con ogni rispetto mi raffermo, ecc.

Napoli, 5 giugno 1730.

LVII
DEL PADRE DOMENICO LODOVICO
Ringrazia per il dono della seconda Scienza nuova.

Ecco a’ piè del suo riveritissimo signor don Giambattista Vico umilmente inchinato Domenico Lodovico, suo servo, il quale, benché tra gl’ infimi, è stato nondimeno tra’ primi onorato col favore della bell’opera nuovamente ristampata. Egli non poté subito rendergliene le grazie dovute: supplisce oggi, senza pregiudizio però dell’obbligazione di conservarle perpetue. Intanto supplica la bontà del signor Giambattista di gradir questo piccolo segno del suo animo ossequioso, mentre si ardisce di presentarli, con confidenza d’amico piú che con rispetto da servo, un po’ di vino della nostra cantina e di pane del nostro forno, sicuro che non saran discare coteste cosucce, comeché semplici, quando né pure il bambin Giesú rifiuta le rozze offerte de’ rustici pastorelli.

In quanto all’opera, di cui ha già divorata la spiegazion della dipintura, non dice altro se non che nella simbolica tavola vicino all’A. B. C. potrebbe dipingersi un piccol nano in atteggiamento di chi rimirando ammuta, come quel montanaro di Dante; indi a dichiarar chi sia il personaggio dipinto e che si faccia, scriverci sotto il nome con significante dieresi, a questo modo: Lodo-Vico.

Nunziatella, 24 decembre 1730.

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LVIII
DI NICOLA GAETANI DELL’AQUILA D’ARAGONA
DUCA DI LAURKNZANO
Manda copie da distribuire del suo libro: Avvertimenti intorno alle passioni dell’animo.

Essendo terminato di stamparsi un mio libro sopra il buon uso delle umani passioni, che per mio trattenimento mi posi in animo di scrivere, ho stimato di non poterli dare spaccio piú onorevole che mandarne le copie nelle mani de’ letterati uomini della nostra patria: non già perché io intenda di mettere sotto i di loro occhi cosa di molto pregio, ma affinché riceva presso di loro quel lume e schiarimento che da se stesso non potrebbe conseguire. Per lo cui effetto ed in significazione della singoiar stima che io sempre mi ho coltivato nell’animo della persona di Vostra Signoria, le ne fo giungere dieci di esse copie, una per lei, e all’altre nove la priego di far ottenere la medesima sorte in dispensandole a’ letterati suoi amici per testimonianza della mia attenzione che sempre mai avrò per li meriti di ciascheduno, e spezialmente per quello di Vostra Signoria, a cui mi esprimo, ecc.

Piedimonte, 14 febbraio 1732.

LIX
Al Duca di Laurenzano
Elogia il libro anzidetto.

Rendo infinite grazie a Vostra Eccellenza del prezioso dono ch’Ella ha degnato farmi della Signoril morale, c’ha scritto a’ signori suoi nipoti, il quale mi è giunto adorno di tre onorevoli circostanze: e d’esser accompagnata da vostro gentilissimo foglio,

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e d’avermi fatto render e l’un e l’altro per le pregiate mani del signor abate Giuvo, e di avervi uniti nove altri esemplari de’ quali io mi fussi onorato co’ miei signori ed amici.

In legger il titolo mi si è rappresentato l’eroico romano costume, col qual i zii educavan i lor nipoti, di che è quel motto di Giovenale: «quum sapimus patruos»; mi venne innanzi Cicerone, il qual, ricco di matura sapienza cosí riposta di gran filosofo come civile di gran politico, scrisse gli aurei libri Degli ufizi al suo unico diletto figliuolo. In addentrarmi nell’opera ho ammirato la vostra erudizione e dottrina tanto dell’antiche quanto delle moderne filosofie, e i vari nuovi sublimi lumi de’ quali e quelle e queste illustrate. Pone l’Eccellenza Vostra la virtú nella moderazione delle passioni, ed in ciò ho scorto che non l’irrigidisce con gli stoici, che ne facciano disperare le pratiche, né la rillascia con Epicuro, che ne apra un vil mercato a chiunque ne voglia a suo capriccio l’oppenioni; ma la sente con Platone, dalla cui Accademia quanti scolari, tanti uscirono famosi capitani e politici; la sente con Aristotile, che seppe formar un grand’Alessandro. E mi ha confermato in ciò ch’io sempre ho osservato vero: che, quando scrivono uomini i quali o per signoria e per cariche hanno gran parte nelle repubbliche, sempre dánno opere sostenute dalla religione e dalla pietá. Né invero libri perniziosi agli Stati son usciti che da autori o della vil feccia de’ popoli o malcontenti de’ loro Stati.

Lo stile poi, il quale dipigne al vivo la natura degli scrittori, con una splendida frase dappertutto spira una nobiltá generosa, qual è propia della vostra grandezza; ond’aveva la ragione il dottissimo cardinale Sforza Pallavicino, ch’ove lodar voleva alcuno scrittore dallo stile (di cui scrisse un libro picciolo di mole, ma di gran peso), diceva: — Scrive da signore. — Perché certamente, se si faccia il calcolo de’ libri di conto c’han sofferto la lunghezza de’ tempi, si truoverá che le tre parti sono stati scritti da uomini nati nobili, appena la quarta da’ nati bassi.

Finalmente nelle vostre luminose canzoni, mescolate d’un’aggradevole gravitá, nelle quali uscite talvolta secondo il proposito

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delle materie che ragionate, mi è paruto di leggere nella nostra favella Boezio, il Platon cristiano, che sovente raddolcia la Consolazione della filosofia co’ dolcemente istruttivi versi che vi trammesta.

Felici gli eccellentissimi vostri nipoti, i quali son formati da una signorile virtú con la voce e con l’esemplo di Vostra Eccellenza, dottissimo e virtuosissimo principe! Laonde mi rallegro con la nostra padria, che nella vostra degnissima persona vede un gran raggio di quella luce della quale rifulse ne’ beatissimi tempi degl’incliti, in parte vostri, re Alfonso e Ferdinando d’Aragona, quando quasi quanti erano grandi signori del reame di Napoli, tanti erano gran letterati, tra’ quali un Diomede Carafa conte di Madaloni in bel latino scrisse Dell’educazione de’ figliuoli de’ sovrani principi; mi rallegro con la nostra etá che personaggio di tant’alto stato sostenga la cadente riputazion delle lettere, ch’altrimenti andrebbe a rovinare con la moda, la quale Vostra Eccellenza in questi stessi libri condanna; e consolo finalmente la mia ostinata avversa fortuna, che senza alcun mio merito per vostra generositá mi vegga di tanto dall’Eccellenza Vostra onorato. A cui rassegnando tutto il mio ossequio, mi confermo, ecc.

Napoli, il dí primo di marzo 1732.

LX
DI NICCOLÒ GIOVO
Preghiera di ritoccare la precedente per pubblicarla.

Peroché a’ vostri comandi la debita obbedienza niegar non posso, peroché da’ medesimi ancora il mio vantaggio si produce, ecco vi rimetto la vostra dottissima lettera e maravigliosa al signor duca indirizzata, laonde, novello accrescimento e piú lumi ricevendo, d’essa possa pur io girmene altiero, a me novellamente indirizzandola perché fregiar ne possa il libro che in commendazìon del medesimo con l’aiuto d’altri letterati

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uomini presso sono a dare alle stampe. Compiacetevi adunque di rimandarlami cosí come a me la prometteste, e, alla medesima aggiugnendo l’onor de’ vostri comandi, credetemi, ecc.

Piedimonte, 10 dicembre 1732.

LXI
A Niccolò Giovo
Rifacimento della lettera LIX.

Rendo infinite grazie a Vostra Signoria illustrissima del prezioso dono che mi ha inviato della Signoril morale, che l’eccellentissimo signor duca di Laurenzano ha dato alle stampe, scritta a’ di lui signori nipoti, il quale m’è giunto adorno di tre bellissime circostanze: una d’esser accompagnato da un di lui gentilissimo foglio; l’altra di avervi uniti dodici altri esemplari, de’ quali io facessi copia a’ degni miei signori ed amici; la terza ed ultima d’essermi pervenuti per mezzo vostro con altra vostra pregevolissima lettera. Io ne ho professato al signor duca i dovuti oblighi con una mia a lui indiritta, nella quale, perch’egli, come saggio e grave, non ama lode se non quella che risuoni lontana dalle sue orecchie, gli ho con poche e generali parole dilicatamente lodato tal sua bell’opera. Talché mi rimane ora con Vostra Signoria illustrissima tutta la libertá di dirne con ispiegatezza i miei sentimenti.

E questa è una delle due grandi utilitá che l’orgoglio, il qual è propietá de’ nobili, arreca per la gloria delle nazioni: che quello, come gli avvalora a fare dell’imprese magnanime nelle guerre, cosí, ov’essi sieno ben avviati per la strada del sapere, gli mena a scrivere opere distinte in materia di lettere. Cospirano a ciò quelle due altre ragioni: una, che i nobili, come osservano i soli sommi re nella maniera del vivere, cosí guardano i soli príncipi de’ dotti in quella ancor dello scrivere; l’altra è perché stimano di dar essi lustro alla letteratura, e perciò non scrivon opere per raccogliere gli applausi del basso

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volgo, molto meno per fine di vil guadagno. Per le quali ragioni tutte, datemi scrittori nobili dotti, ché le lor opere non posson essere ch’eccellenti.

Mi rallegro con la nostra etá che un signore di cotanto alto stato rinnovelli gli studi d’intorno all’uomo, il quale, contemplato per tutti gli aspetti della vita morale, famigliare e civile, fa la materia perpetua della sapienza greca piú sana e robusta e della romana, quando quella prese a studiare e scrivere sulla greca, e di quella d’Italia nel Cinquecento, nel qual secolo tutta fervette in ricoltivare tal sapienza romana e greca; onde in tali tempi tutte e tre queste nazioni sfolgorarono di sublimi filosofi, poeti, storici ed oratori. I quali studi oggi si sono affatto abbandonati, perché il genio del secolo si disgusta di rincontrarsi nelle idee ottime della vita, onde si è dato tutto a coltivare studi che piú dilettino le menti che perfezionino gli animi e che quanto facilmente rendon paghi gli studiosi entro le solitudini, tanto gli rendono insoavi nella conversazione civile.

[Napoli, poco dopo il 10 decembre 1732].

LXII
DEL PADRE DANIELE CONCIMA
Comunica un brano di lettera di suo fratello Nicola in lode del Vico.

Fra Niccola Concina scrive a suo fratello che comperi i libri del signor Giambattista Vico con queste precise parole:

« Sovra tutto mi raccomando di comprarmi le opere tutte del signor Vico, che io stimo uno de’ piú grandi e piú profondi ingegni dell’Europa e fornito della piú recondita erudizione. È sottilissimo metafisico, sodo e perspicacissimo, di metodo veramente geometrico e concludente. Ma sarebbe a desiderarsi sommamente che per comune benefizio volesse spiegare molte cose che non si ponno intendere da quelli che non hanno il suo incomparabile ingegno e la sua arcana erudizione e le sue singularissime vedute. Se io fossi in mia libertá,

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vorrei certamente costá portarmi affine di esserne per qualche anno dal medesimo istruito. Ed oh qual profitto ne riporterei! Fattemi grazia di riverirlo distintamente in mio nome e di significargli i sentimenti di altissima stima che nutro per lo medesimo ».

Tanto ha scritto il suddetto a suo fratello fra Daniello Concina, che di proprio pugno ha trascritta questa giustissima commendazione del signor Giambattista Vico.

[Napoli, quaresima del 1733].

LXIII
DEL PADRE NICOLA CONCINA
Ringrazia del giudizio sulla propria Orazione, ed esprimendo la sua ammirazione, si duole di non potersi recare a Napoli per ascoltare la parola del Vico.

Egli non è possibile ch’io faccia comprendere a Vostra Signoria illustrissima la straordinaria compiacenza risvegliatasi nell’animo mio in veggendomi onorato da una sua lettera, senza ch’io prima con qualche mia le abbia dato motivo. Le posso però bensí dire con onesta, cristiana e religiosa sincerità che di niun altro letterato del mondo tutto mi potevano riuscire piti gradevoli le lettere che quelle di Vostra Signoria illustrissima, perché di niuno io porto maggíor stima che di lei, mentre giudico le opere sue per le piú originali, per le piú profonde e per le piú raggionate di quante mai ne abbia lette. Vostra Signoria dappertutto getta princípi fondamentali ed inconcussi e di una fecondità meravigliosissima; l’erudizione che tocca ed accenna, ella è immensa: ma l’uso e ’l raziocinio, che sopra ne forma, dee sorprendere gl’ingegni piú sublimi e piú illuminati. Tutte le parti della filosofia piú scelta, la teologia sacra e cristiana, la giurisprudenza naturale e positiva la geometria nel suo metodo, la storia e filologia piú recondita e le combinazioni piú ingegnose di tutte coteste discipline risplendono

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di una maniera incomprensibile nelle due opere, che come due tesori della miniera inesausta e profondissima del di lei ingegno io conservo.

Bisogna però ch’io confessi ciò che Socrate disse dell’opera di Eraclito: «Magnani indolem spirant, qua intellexi; puto idem fuere quae non intellexi. Verum (non giá Delio) Vico ipso notatore et explicatore opus habent». E le giuro che niente piú io bramerei che di esserle vicino per poter essere istruito ed illuminato sopra di moke cose che non arrivo ad intendere per debolezza del mio ingegno e per mancanza di que’ requisiti accennati da Vostra Signoria sul fine dell’Idea premessa alla sua Scienza nuova. Attenderò frattanto con impazienza le annotazioni che si è compiacciuta Vostra Signoria di porre sul margine di quella copia regalata a mio fratello. Per lo che gliene rendo infinite grazie, siccome per gli altri favori al medesimo impartiti e per gli onori da lui costi riportati singolarmente per le dimostrazioni e sentimenti di Vostra Signoria illustrissima; ma molto piú me le protesto obbligato e col piú vivo del mio cuore la ringrazio per i due opuscoli che si degna di mandarmi in dono, per la bontá che nutre verso di me e per lo aggradimento della stima ed ossequio che professo al suo rarissimo merito. Se poi Vostra Signoria avesse dato alla luce altre opere che piú non si ritrovassero, la supplico di darmene contezza per mia regola.

La ringrazio nuovamente pel favorevole giudizio di cui onora la mia Orazione, e che io stimo sopra quello di ogn’altro. Ma per mio lume mi premerebbe fortemente di essere avvisato con piena confidenza da Vostra Signoria di tutto ciò che per entro ci ha scoperto di difettoso, che certamente sará ben molto. Le giuro che riceverò tutto con intera docilitá e con piena soddisfazione.

Veneratissimo ed amatissimo signor Vico, mi permetta di sfogare secolei il mio cuore. Io peno e mi affanno per non essere in libertá ed in istato di portarmi costá e dimorare lungo tempo con essolei, a fine di approfittare delle sue sublimi e peregrine cognizioni. Piaccia almeno all’altissimo Dio di aprirmi

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la strada per farmi una volta una scappata e secolei trattenermi per qualche mese e con alcun altro di cotesti signori. Io credo essere stato un tratto particolare della divina provvidenza ch'io giá quatro [quattro] anni, quando fui costi per pochi giorni, non avessi la bella sorte di abboccarmi con Vostra Signoria illustrissima, perché forsi non mi sarei piú partito di Napoli, e con ciò mi sarei opposto alle disposizioni delia medesima provvidenza. Non rista però ch’io sempre non me ne risenta e meco medesimo non mi lagni di aver perduta una sí bella occasione di conoscere una mente delle piú rare che siano al mondo. Non esagero, non adulo: parlo siccome sento nell’animo mio. Ma molto piú però mi dolgo e mi lamento che ’l merito suo non venga riconosciuto e premiato da chi potrebbe e dovrebbe. Oh quanti prodigiosi parti dell’ingegno suo si sarebbono veduti, e tuttavia in breve tempo si vederebbono, sotto l’aura benefica di un qualche generoso monarca! Io non finirei mai di parlare di Vostra Signoria, e parlarei senza ordine, perché penetrato dal suo merito, in cui io non ci veggo limiti, né la mia per altro giusta passione mi permette di pensare ordinatamente, trattandosi di farne uno sfogo in brieve foglio, che per la prima volta le umilio.

Io l’abbraccio strettamente, e col cuore sulle labbra le stampo un baccio in fronte, senza pregiudizio però del somo [sommo] rispetto che le porto e per cui fo mia gloria essere riconosciuto, ecc.

Venezia, 27 giugno 1733.

LXIV
A GIUSEPPE PASQUALE CIRILLO
Sulle maschere antiche.

[Lorenzo Giustiniani, nel parlare d’una tornata della risorta accademia degli Oziosi tenuta in casa di Isabella Mastrilli duchessa di Marigliano, d’un discorso che vi recitò il Cirillo

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sulle maschere della tragedia e commedia antiche, e delle voci sparsesi per Napoli di acerbe critiche che a quel discorso avrebbe fatte il Vico, soggiunge d’aver vista, autografa, nella biblioteca del giureconsulto e magistrato Gerardo Cono-Capobianco da Pellere (1724-?) una lettera al Cirillo (Napoli, 30 agosto 1733), nella quale il Vico, mostrato anzitutto il suo dispiacimento per quelle voci bugiarde, scriveva di non aver detto altro che a quel ragionamento si sarebbero potute aggiungere tre considerazioni, omesse forse dal Cirillo semplicemente per ragioni di brevità. Le quali considerazioni il Giustiniani riassume cosí: « 1. intorno alla prima maschera che dovette trovarsi al mondo, e sostenere che fosse quella di satiro; 2. sulla etimologia della voce 'persona’ ; 3. intorno alla difficoltà d'intendere come nelle favole drammatiche greche e latine gl’istrioni diceansi cambiar sembianti, quando che recitavan mascherati ». Senonché, col sussidio della Scienza nuova, esse possono, piú esattamente, essere ricostruite nel modo che segue:

1. La maschera primitiva fu quella di satiro, nel senso che la tragedia o satira (dramma satiresco) ebbe origine dall’uso antichissimo (di cui ancora nel secolo XVIII il Vico trovava qualche traccia linguistica nella Campania) che, nel tempo della vendemmia, i contadini (o famoli) avevano licenza dai loro padroni (o eroi) di mascherarsi rozzamente da satiri, vestendo piedi, gambe e cosce di pelli caprine, tingendosi il volto di fecce d’uva e ponendosi in fronte due corna; dopo di che, dall’alto dei carri dove si trasportavano le uve, facevano a gara — premio un τράγος o caprone — a chi con maggior valentia dicesse insolenze agli stessi signori.

2. Etimologia di « persona » (maschera) non è giá « personare » (risuonare dappertutto), ma « personari »: verbo che, analogamente al significato primitivo di « opsonari », che è « cibarsi di carni selvaggine uccise », dové indicare primamente le pelli di fiere con le quali vestivano gli eroi, poi quelle caprine indossate dai contadini mascherati da satiri.

3. Gli attori delle primitive favole drammatiche potevano bene, quantunque mascherati, dare al proprio viso atteggiamenti

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diversi, in quanto la loro maschera non era ancora un volto posticcio, ma soltanto una tintura passata sul viso e un indumento diverso da quello consueto.]

LXV
DEL PADRE LODOVICO
Intorno al collocamento di Gennaro Vico, e all’orazione De mente heroica.

Al suo stimatissimo signor don Giambattista Vico umilissimamente inchina Domenico Ludovici suo servo, il quale ha veduto il figliuolo e conosciutolo tale quale gli era descritto. Soggiunge però che deve aspettarsi l’etá e cominciarne a parlare a rinfrescata. Intanto, ricordevole della bellissima orazione giá favoritagli, acclude qui un suo pensiero dettatogli dalla veritá, e vaglia per attestato del suo riverente ossequio verso il signor don Giambattista, cui di nuovo s’inchina e rafferma, ecc.

[Napoli], 3 settembre 1733.

De mente heroica
disserit
Mens:
Facessite vos hinc
queis bene curato sub corpore nulla latet mens:
non sapient vobis haec bona ni sapitis.
At tu, dum reseras heroae insignia mentis,
das pariter mentem noscere, Vice, tuam.

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LXVI
Al re Carlo Borbone
Supplica per ottenere la carica di regio storiografo.

Sagra Real Maestá,

Giovanni Battista Vico, lettore di rettorica in questa regia universitá, prostrato ai vostri reali piedi, supplicando la Maestá vostra, umilissimamente le rappresenta ch’esso è il piú anziano di questi pubblici Studi, possedendo la sua catedra fin da’ tempi della gloriosa memoria di Carlo secondo, avendo tutti gli altri lettori incominciato ad avervi catedre per assienti de’ tempi appresso, e perché, essendo per ordine reale della Maestá di Filippo quinto, vostro gloriosissimo padre, esposta tutta l’universitá ad un generale concorso, tre sole catedre non furono opposte: le due primarie di legge, perch’erano perpetue e si trovavano di giá occupate, e la sua di rettorica, quantunque fusse quadriennale. In tutto questo gran spazio di tempo esso supplicante non ha quasi mai lasciato passar alcun anno nel quale non avesse dato alla luce alcun’opera del suo povero ingegno, delle quali v’ha un catalogo nel tomo primo della raccolta degli Opuscoli eruditi fatta dal padre Calogerá in Venezia; il qual catalogo sta in piedi della Vita letteraria del medesimo supplicante che ’l conte Gianartico di Porcía, fratello del cardinale Leandro di Porcía, volle dar alle stampe per idea a’ primi letterati d’Italia, chiari o per opere uscite alla luce o per fama di grande letteratura e dottrina, a scrivere le loro a fine di dare un nuovo metodo piú accertato ai giovani di profittare nelle lettere sopra esempi sí fatti: e cosí la stampò nonostanti le proteste del supplicante che nol facesse, le quali stanno pubblicate dal detto padre in una lettera al cavaliere Vallisnieri, famoso medico italiano, che tiene luogo di prefazione a quei libri.

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Ivi tra l’opere del supplicante è numerato un Panegirico latino presentato alla detta Maestá di Filippo quinto, quando portossi qui in Napoli. Ma sopra tutte l’altre è quella de’ Princípi del diritto universale, o sia del diritto natural delle genti, che don Bernardo Tanucci, chiarissimo letterato, vostro segretario di giustizia, col qual esso supplicante non avea nessuna corrispondenza, in una dissertazione latina l’anno 1728 scrive essere stata la prima che sia uscita da Italia d’intorno a tal materia; della quale esso supplicante meditò un sistema sopra princípi i quali convenissero con le veritá della nostra religione cattolica, lo che non avevano fatto ne’ loro sistemi gli tre principi di tal dottrina, il Grozio in Olanda, il Seldeno in Inghilterra e ’l Pufendorfio nella Germania protestante; la qual opera ha avuto la fortuna d’essere in molta stima appresso le nazioni settentrionali, come il professa Giovanni Clerico nella sua terza Biblioteca, che è l’antica e moderna, nel volume xviii all’articolo viii. Alla qual opera poi meditò di séguito i Princípi di una Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni; della quale l’abate Antonio Conti, nobile veneto, un de’ primi letterati d’Italia, senza essersi conosciuto col supplicante, gli scrive che nell’italiana favella non sia uscito libro che contenga piú cose erudite e filosofiche, e queste tutte originali nella specie loro, e di averne mandato un picciolo estratto in Francia per far conoscere ai francesi che molto può aggiungersi e molto correggersi sull’idea della cronologia, della morale e della giurisprudenza, sulla quale hanno molto studiato; e, perché si era tal opera fatta rarissima, invita esso supplicante a volerla ristampare con l’aggiunta di nuovi lumi, conforme ne uscí la seconda impressione qui in Napoli, nel cui principio tal lettera dell’abate Conti è stampata.

Ora il supplicante si truova in grave etá, con numerosa famiglia e poverissimo, non avendo dalla sua catedra piú di soldo che cento scudi annui, con altri pochi incerti ch’esigge dal diritto delle fedi di rettorica che dá ai giovani che passano agli studi legali. Per tutto ciò priega la Maestá Vostra a degnarsi d’impiegarlo nella carica di vostro istorico regio con

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tanto di sostentamento, che, unito con quello della catedra, possa con qualche riposo scrivere le vostre gloriosissime geste e finire onestamente la vita. E l’avrá dalla vostra reale munificenza a grazia, ut Deus.

[Napoli, poco prima del 5 luglio 1734.]

LXVII
DEL PADRE TOMMASO MARIA ALFANI
Discorre della lettura da lui fatta della seconda Scienza nuova.

All’illustrissimo signor don Giambattista Vico fa ossequiosa riverenza fra Tommaso Maria Alfani, e gli fa assapere che per le sue crude indisposizioni, che da molto tempo a piacer di Dio lo travagliano, non gli è stato fatto di poter leggere l’aurea e ben scienziata opera de’ Cinque libri della Scienza nuova prima di alcuni giorni; che con ansia somma l’ha domandata al signor don Paolo Emilio Marocco, gentiluomo di Caiazzo di assai gusto purgato e suo buono amico, da cui l’have avuta con molte postille in margine fatte fare dallo stesso signor don Giambattista al fratello di esso don Paolo Emilio, don Giulio Cesare. Ha letto, riletto e per la terza volta tornato a leggere la Spiegazione della bene ideata dipintura, o sia tavola, a similitudine di quella di Cebete, dove è l’idea tutta dell’opera. E siccome sortí ad Alfonso primo, nostro re che, colla lettura di Tito Livio sollevandosi il di lui animo e riscaldandosi il sangue rappigliato e mettendosi in moto giusto ed eguale, fece che cessasse quasi di subito una fiera febbre che cruciavalo, la quale, secondo il Silvio, non da altro che dal rappigliarsi il sangue sortisce e in questo modo non pochi altri malori son cagionati; cosí egli è addivenuto a fra Tommaso Maria, il quale, in leggendo cose cosí riposte, cosí rare e cosí ben trattate e maneggiate, perché nascono con tutto il geometrico metodo le une dalle altre e si inanellano in modo che formano una bella catena, nel tempo

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che le leggeva niun dolore per lo miserevole suo corpo sentiva. E poscia gli si sono i spiriti cosi ravvivati che, senz’apportargli incomodo il suo grave malore, e quasi ito via, ha potuto seguitare felicemente la lettura delle Annotazioni alla Tavola cronologica, colle quali si è chiarificato e tratto fuori da’ maggiori dubbi che in cronologia egli avesse, de’ quali né il Petavio nè il Labbé né lo Scaligero né l’Usserio l’avevano appien soddisfatto, quanto ora si vede dal signor don Giambattista ammaestrato. Perché certamente, dovendo la cronologia servir di base alla storia e di piede, se ella non è stabile e ferma, di facile faralla crollare, ed egli è assai verissimo ancora che, non distinguendosi bene i tempi e con essi i costumi, è agevole a fare idee ingannevoli e che mettano in confusione le cose tutte, come, a cagion di esemplo, di essere stati i persiani vinti sotto Alessandro simili a’vincitori sotto Ciro; che la Grecia fosse stata tanto libera nel tempo di Filippo quanto in quello di Temistocle; che il popolo romano fosse sí fiero sotto gl’imperadori che sotto i consoli; e simili cose che, per l’oscurità cagionata dalla secchezza della cronologia, e molto piú dalla poca avvertenza di chi l’ha trattata, fanno la storia intralciata di molto, che non poco danno ne può avvenire, essendo nella storia la politica in buona parte fondata.

Come ha sommamente goduto nel leggere questo poco e se n’è in molto approfittato, cosi fermamente si assicura e promette di godere e maggiormente approfittarsi nel leggere il restante dell’opera, nella quale, per quello che va scorgendo, vengono con tutta distinzione e chiarezza appianate le cose che dottamente sono toccate nel libro non meno dotto De constantia philologiae, e la mitologia e la filologia ne vengono assai rischiarate, togliendosi loro quelle fantastiche ed insulse interpetrazioni che i mitologi e i filologi finora hanno fatto secondo il capriccio o, per meglio dire, il ghiribizzo loro dettava.

E perché non altro egli può, non lascerà di pregare il sommo Dio acciocché si compiaccia donare al signor don Giambattista vita lunga e sana e felice, perché possa da dí in di colla feconda sua mente rendere chiara ed illustre la nostra Italia a

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beneficio della scienziata repubblica e consolazione sempre piú de’ suoi buoni amici, servidori e discepoli, tra’ quali egli è uno che con tutta divozione gli bacia le mani.

Di San Domenico maggiore, a’ 17 giugno 1734.

LXVIII
DELLO STESSO
Sulle poesie del marchese di Salcito, sulla lettura della Scienza nuova e sopra un dubbio intorno alla natura della poesia.

All’illustrissimo signor don Giambattista Vico fa ossequiose riverenze fra Tommaso Maria Alfani, e presentandogli i saluti del signor marchese di Salcito, il quale con ispecialità in una lettera di quest’ordinario gliel’ impone, gli manda ancora da sua parte il qui acchiuso sonetto da lui fatto per volerlo fare stampare all’ultimo delle poesie che ora del detto marchese si stampano, acciocché il signor don Giambattista ci faccia la sua approvazione, avendolo prima col fino suo giudizio esaminato. (Si compiaccia considerare nel sonetto quell’augurio, che non fosse troppo ardito e non ancora a tempo.)

Fra Tommaso poi ha giá letto per la terza volta la Nuova-scienza ed in parola di veritá, Iddio n’è testimonio, gli dice che si vede uomo nuovo, dispiacendogli solamente che non ha l’antica forza e vigore e non è fornito di quell’ingegno, acciocché piú potessene approfittare.

Egli dá fuori le poesie del marchese e vi fa una lettera a’ lettori per vendicare la poesia cotanto da alcuni malmenata, ed in questa si serve delle espressioni del signor don Giambattista, sempre che gli sono in acconcio, e non poche volte.

Lo priega però chiarirlo come s’intende ciò che nella p. 369 della Nuova scienza sta scritto: che i poeti non siano metafisici, o secondo l’espressione che vi è: «esser impossibil cosa che alcuno sia poeta e metafisico egualmente sublime»; e

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questo, perché egli, parlando nella detta lettera a’ lettori intorno al furor poetico, lo stabilisce non essere altro che un pensare metafisicando sopra di qualche oggetto per formarne poi le immagini verisimili, le quali fanno il bello poetico. Ma di questo aspetta meglio esserne ammaestrato dal signor don Giambattista, a cui riverentemente bacia le mani da suo buono ed obbligatissimo servitore.

Di San Domenico maggiore, 23 luglio 1734.

LXIX
Del padre Daniele Concina
Trasmetterá un libro del fratello e chiede una raccomandazione presso il magistrato Ventura.

Dopo tanto tempo da che non ho avuto l’onore di riverire Vostra Signoria illustrissima, vengo finalmente a rassegnarle la mia antica servitú. Aspetto la occasione di trasmetterle un libretto di mio fratello, nel quale fa giustizia alla sua singulare ed incomparabile virtú, riponendo il suo nome glorioso tra i pochi sapienti veri della nostra Italia nelle filosofiche scienze 51. Con questa occasione io sono a supplicarla del suo padrocinio presso codesto eccellentissimo signor reggente Ventura in un interesse del signor abate Aloisi, il quale, sendo particolare mio amico, bramerei che fosse assistito dalla sua valida prottezione. Le porgo pertanto le mie piú fervorose suppliche acciocché voglia interessarsi a favore di questo degno letterato. Sono sicuro che non mancherá di favorirmi, e perciò non voglio dilungarle il tedio.

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Volentieri sentirò qualche cosa della sua sanità e se l’umor nerveo scorre bene. Frattanto io le auguro ogni felicità e la prego a favorirmi di qualche suo comando; e, rassegnando a Vostra Signoria illustrissima la mia servitú, mi raffermo, ecc.

Venezia, Santissimo Rosario, 11 dicembre 1734.

LXX
A Giovanni Barba
Ringrazia per l’invio dell’opera del Barba sul Metodo delle lingue.

Io rendo grandi grazie a Vostra Signoria illustrissima della vantaggiosa opinione che ha del mio poco merito, maggiori del gentil ufizio passato meco di congratulazione per l’onore che mi ha Sua Maestá compartito di suo storiografo, grandissime per lo prezioso dono da lei fattomi del primo libro d’intorno all’Arte e al metodo delle lingue, nel quale propone la magnanima impresa di dare una certa scienza di parlare colto non che emendato in tutte le lingue piú riputate, morte e viventi, e ne ragiona gli apparecchi con uno stile dotto, erudito e saggio, pieno d’ornamento e splendore. Io mi rallegro con la nostra comune patria d’aver dato un ingegno sí vasto che abbia preso a trattare cosí grande argomento, che, riputato per sua natura infinito, ha spaventato i dotti ad applicarvi l’attenzione. Confido nella di lei gravitá, che la porterá gloriosamente a fine negli altri due che promette ed io sto ansiosamente attendendo. E, facendole ossequiosa riverenza, mi confermo, ecc.

Napoli, 27 agosto 1735.

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LXXI
DEL PADRE NICOLA CONCIMA
Discorre del padre Gaspari, dal Vico raccomandato per professore a Padova, di Gennaro Vico, delle dottrine della Scienza nuova e di un luogo di Livio, citato dal Vico.

Se in Napoli ci fosse il bel costume che è qui in Venezia, di essere mandati dalli maestri di posta degli uomini per la città e per le contrade, che si segnano nelle soprascritte delle lettere, a portar queste alle case medesime di quelli ai quali sono indirizzate, non cosi facilmente si smarrirebbono, con pregiudizio della puntualitá di coloro che costà scrivono; siccome raccolgo essere accaduto a me in riguardo a Vostra Signoria illustrissima e del signor Giuseppe Cirilli, dai quali con ultime loro intendo non aver ricevuto le mie risposte a due antecedenti, delle quali mi onorarono ultimamente, di che grandemente me ne rammarico. Voglio sperare che questa volta averò miglior fortuna dell'altre.

Rendo infinite grazie a Vostra Signoria illustrissima della cognizione recatami intorno alle rarissime qualità del padre maestro Gasperi: io non mancherò di palesarle con ogni premura, producendo l’autorità di Vostra Signoria, che deve prevalere ad ogn’altra. Si accerti che userò qualunque diligenza per porre in alto credito il soggetto raccomandato; ma, come appunto in questo stesso ordinario scrivo al signor Cirilli, qui, oltre le testimonianze del valore de’ concorrenti alle cattedre, ci vogliono ancora degli offici di persone autorevoli, ma però di gente privata, come sono dame e cavalieri. Io mi stimerei fortunatissimo se mi riuscisse di vedere in questa nostra università un teologo che merita la stima di un signor Vico, la cui mente io soglio chiamare «eroica», e di cui sinceramente mi contenterei di essere scolare, anzi che professore in Padova o in qualunque altra universitá. Oh quanto mai io sospiro di conoscerla a faccia a faccia e di trattarla almeno per qualche breve tempo; il che

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spero Iddio mi fará la grazia di conseguire, conservando e lei e me in vita sino che io torni a fare un altro viaggio a cotesta amenissima e letteratissima Partenope !

Signor Vico, Ella si faccia coraggio e si governi, ed io non mancherò di pregare il Signore che la conservi e l’invigorisca per suo e mio e comune vantaggio del mondo letterato. Mi riverisca quel suo figliuolo, che intendo essere di una grande espettazione, per cui mi sento un ardentissimo amore e gli bramo ogni miglior fortuna. Molto e moltissimo mi consolo che il mio mezzo abbozzo del gius naturale e delle genti sia stato gradito da Vostra Signoria illustrissima, il cui divino ingegno non poso [posso] finire di ammirare.

Le rendo poi infinite grazie dell'onore che mi vuol fare nella sua Scienza nuova, che dice di avere notabilmente accresciuta ed illustrata, la quale starò attendendo con impazienza. Oh quanti fecondissimi e sublimissimi lumi ci sono per entro! Cosi avessi io talento da farne uso e di comprenderne il fondo ed il mirabile artificio che parmi alquanto di ravisare. In breve spero di dar alle stampe una piccola dissertazione, in cui credo di rigorosamente dimostrare non essere io uscito fuori della giurisdizione metafisica in trattando del gius naturale, siccome qui si è andato sparlando da gente che non intende la natura di si fatta scienza. Seguíta la stampa, ne invierò una copia a Vostra Signoria, di cui aspetterò il giudizio. Ne faccio uso in quella della di lei autorità, e pongo in vista il giudizio fatto dal signor Clerc del suo libro De universi iuris uno principio, ecc.

In una mia, anzi in due lezioni fatte in questa universitá, m’è caduto in acconcio di porre in vista la bellissima ed eruditissima opinione di Vostra Signoria che le leggi delle Dodici tavole non sieno altrimente state prese da’ greci; il che ni’ ha eccitato contro il furore di qualcuno di questi nostri professori di giurisprudenza civile, ma che io molto non stimo, perché non sono scientifici né molto eruditi di fondo. Bramerei però qualche nuovo lume da Vostra Signoria, se pur vi fosse, e particolarmente per screditare il racconto di Tito Livio e di Dionigi Alicarnasseo. In particolare desidero sapere il luogo preciso in

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cui Livio dice di principiar a narrare la vera storia romana solo dalla seconda guerra punica, siccome Vostra Signoria riferisce senza accennarne il luogo dello storico.

Ora non posso scrivere di vantaggio; mi riserbo ad altro incontro. Frattanto sono e sarò sempre con tutto l’ossequio, ecc.

Venezia, 1 settembre 1736.

LXXII
A Nicola Concina

Sul Gaspari, su Gennaro Vico, sul giudizio dato da Celestino Galiani del Progetto del Concina e, infine, sulla questione della legge delle dodici tavole e sul luogo di Livio ricordato dal Vico.

Io e ’l signor Cirillo dobbiamo certamente dolerci dell’ordine delle poste meno ben posto qui che tra voi, il quale ed a noi ha ritardato il piacere di ricevere le vostre giocondissime lettere ed a Vostra Paternitá riveritissima ha cresciuto il travaglio di duplicarle. Il padre maestro Gaspari l’è infinitamente obbligato cosí della somma benignitá con la quale Ella ha ricevuto nella sua protezione la sua domanda alla cattedra, come degli utili avvisi gli dá per farla efficace, i quali mentre egli porrá in uso, io non resto di caldamente priegarla a continuar di proteggerlo. Io sempre piú e piú son confuso dell’alta stima ch’Ella fa di me, la qual io confesso affatto non meritare. Le rendo infinite grazie tanto degli autorevoli conforti ond’io sostenga la mia natura e fortuna di giá cadenti e de’ prieghi ch’Ella porge a Dio per me che si degni di conservarmi, quanto del gentil desiderio di riportarsi un giorno qui in Napoli e darmi la bella sorte di veder io di persona un mio sí dotto e sí generoso maestro. La lode del profitto che Gennaro mio figliuolo, ch’umilmente v’inchina, fa negli studi migliori, la qual scrive esserle con piacere giunta all’orecchie, e l’amore che gentilmente perciò gli portate, gli sono forti stimoli a piú vigorosamente correre la strada della virtú.

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Monsignor Galiano, prefetto de’ nostri studi, chiarissimo letterato d’Italia, nel vostro proggetto del diritto naturale vi ha osservato lumi di severa e colta dottrina; ma (vedete quanto i dotti giudicano diverso a tutto cielo dagl’ignoranti) piú d’una volta, riflettendovi sopra, mi disse che con quello voi fate saggio ai lettori, che vogliono adornare le lor universitá, dover essi promuover le scienze che vi professano e far loro far degli avvanzi, com’Ella in cotal maniera fa della metafisica. Sto attendendo con ansietá la risposta che voi date a costoro, i quali di cotesto bel merito vi riprendono.

A’sostenitori della favola delle Dodici tavole venute di Grecia sará facilmente infrenato il furore col solamente replicar loro che rovescino i princípi della Scienza nuova e ne incolpino il metodo con cui sta condotta; perché il risentirsi delle sorprendenti conchiusioni è di cervelli ottusi, che sentono il grosso delle cose e deboli per tenere la continua fatiga del metodo geometrico, col quale innumerabili veritá escono maravigliose in mattematica, le quali pur sono per quella via dimostrate.

D’intorno ad altri luoghi che Vostra Paternitá riveritissima mi comanda di suggerirle valevoli a piú screditare Livio e Dionisio circa la favola della legge delle Dodici tavole venuta di Grecia, se ne sono arrecati molti nel manoscritto ch’aspetta la terza impressione; ma mi piace di scrivergliene uno che mi è venuto innanzi nel tempo istesso c’ho ricevuto la vostra lettera, il qual io stimo gravissimo. Mentre, rileggendo per mio profitto Polibio, autore che senza contrasto piú seppe di politica che Livio e Dionisio e fiorí dugento anni piú vicino a’ decemviri che Dionisio e Livio, egli, nel libro sesto al numero quarto e molti appresso dell'edizione di Giacomo Gronovio, a piè fermo si pone a contemplare la costituzione delle repubbliche libere piú famose de’ tempi suoi, ed osserva la romana esser diversa da quella d’Atene e di Sparta, e piú che di Sparta esserlo da quella d’Atene, dalla quale piú che da Sparta i pareggiatori del gius attico col romano vogliono esser venute in Roma le leggi per ordinarvi la libertá; ma osserva al contrario somigliantissime tra loro la romana e la cartaginese, la quale niuno mai si è

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sognato essere stata ordinata libera con le leggi di Grecia. Ed uno scrittore sappientissimo di repubbliche non fa sopra ciò questa cotanto naturale e cotanto ovvia riflessione e non ne investiga la cagion della differenza: le repubbliche romana ed ateniese, diverse, ordinate con le medesime leggi; e le repubbliche romana e cartaginese simili, ordinate con leggi diverse? Laonde, per assolverlo d’un’oscitanza sí dissoluta, è necessaria cosa a dirsi che nell’etá di Polibio non era ancor nata in Roma cotesta favola delle leggi greche venutevi ad ordinare il governo libero.

Il luogo finalmente di Livio ch’Ella da me desidera, egli è uno de’ molti che nella terza edizione sará illustrato. Diciamo che Livio, nel principio della seconda cartaginese, professa di scrivere la storia romana con piú certezza, perché, dandole un particolare proemio, professa «bellum maxime memorabile omnium quae unquam gesta sunt, me scripturum», e in conseguenza per tanta incomparabil grandezza ne debbon essere piú certe le memorie che dell’altre cose romane innanzi minori; e pure professa di non saperne tre grandissime circostanze:

1° i consoli sotto i quali Annibale da Spagna prese la volta d’Italia;

2° per quali Alpi vi scese;

3° con quanto esercito, di che truova negli annali un infinito divario.

E qui fo fine, faccendole umilissima riverenza.

Napoli, 16 settembre 1736.

LXXIII
DI TOMMASO RUSSO
Prega il Vico di aiutarlo a diffondere gli esemplari del suo libro sull’ Animo umano.

Colla onorevolissima raccomandazione che Vostra Signoria illustrissima ha fatta al publico del mio libro, ho sperato che quella mia per altro sprezzevole opera potesse passare il mare e

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i monti. Onde, siccome il signor don Giuseppe Mattioli a mie preghiere ne ha già sparsi molti [esemplari] per Napoli, presentandoli a molti letterati di cotesta cittá, cosi col favor vostro ardisco di dire che vorrei che si facessero capitar fuori ancora, poiché ben so quanto per tutto sia riputato il vostro giudizio e riputato il nome vostro. Assicuro Vostra Signoria illustrissima che io, piú per accertarmi da ogni parte e con ciò ad accendermi vie piú a terminare il secondo libro che ivi prometto, che per ambizione, fo questa preghiera colla presente mia supplichevole lettera. A questo fine questo ecclesiastico mio famigliare ha tutta la facoltà di disponere e la prontezza di ubbidire a Vostra Signoria illustrissima. Priego il Signore a donarle lunga vita e priego Vostra Signoria illustrissima ad onorarmi all’incontro con suoi comandi. E con divozione di cuore le bacio riverentemente le mani, ecc.

Sangiorgio alla Montagna, 12 febbraio 1737.

LXXIV
DI MONSIGNOR MUZIO DI GAETA
ARCIVESCOVO DI BARI
Chiede giudizio al Vico sul panegirico da lui composto per il papa Benedetto decimoterzo.

Avendo avuto per le mani da gran tempo una certa mia fantasia che molto abbraccia, vorrei finalmente vedere per via d’un occhio piú sottile quanto ella stringa e quanto vaglia. E, dopo molti pensieri, ho deliberato di ricorrere a Vostra Signoria illustrissima, come quella che so che non solo sa l’istoria, ma ha la scienza delle cose; e di questa condizione dev’essere il giudice mio, se la cosa che ho pensata è di questa qualità e di modo che dá nel troppo, perché cerca ristrignere le molte verità, anzi tutte, in una sola e semplicissima veritá che di tutte

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è principio. Il materiale l’ho preso da due gran maestri, siccome è sant’Agostino e Cicerone; se dal primo ho ricavato la dottrina delle cose, e dal secondo la dottrina delle parole per comporre uno stile anche metafisico, siccome è quello di Cicerone, e uno stile insomma che abbracciasse la maestá latina e l’amenitá e semplicitá toscana o italiana. Per ora non vorrei dirle piú, per non dirle troppo e per avere il gran piacere e vantaggio di sperimentare s’Ella indovina i miei pensieri, per accertarmi se io gli ho spiegati abbastanza. Pregarò dunque solo la gran perizia e bontá di Vostra Signoria illustrissima a prendersi questa gran briga per favorirmi con suo comodo ed a scusarmi insieme se io, per la prima volta che la prego, la preghi d'impicci; ma tanto sará maggiore il suo favore e ’l mio obbligo, e questo sará massimo, quanto piú Ella magistralmente deciderá la lite del si e no che nel capo mi tenzona, perché il soggetto è strano, l’oggetto è vastissimo e ’l genere della scrittura è novissimo: tutte cose che han fatto girar il capo ad altre teste della mia per il vario sentimento del senso comune. Or io mi metto in buone mani, giacch’ Ella nella nostra stagione ha tentate gran cose, che saran semi di moltissime e importantissime cose; sicché a lei son ben note le vie non calcate da altri. La prego insomma e la riprego a leggere e rilegger tutto, prima scorrendo, poi esaminando e poi censurando ogni cosa in generale e in particolare della mia piccola opera, che le mando con questa, che va a lei come va il discepolo a scuola del suo maestro.

E raffermando a Vostra Signoria illustrissima tuttavia l’antica stima che sempre ho fatta del suo gran merito e gran sapere, non farò altro ora che accertarla del gran obbligo che mi rimarrá di soddisfare al particolar favore del dottissimo e sincerissimo suo giudizio che io con desiderio attendo; e cosí resto con molta osservanza e volontá di servirla, dichiarandomi, ecc.

Bari, 24 agosto 1737.

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LXXV
DEL MEDESIMO
Sul medesimo argomento.

Lette le stimatissime lettere di Vostra Signoria illustrissima e vedendole piene e traboccanti di sapere e di bontá, mi sono insieme consolato e confuso, tuttavia lodando e ammirando la sua gran mente e la sua gran cortesia per aver cosí sollecitamente letta e compresa la mia opera; la quale, se ben picciola di mole, contiene molte delle piú universali e prime veritá che richieggono tempo e riflessione particolare per formarne il retto giudizio che assai vantaggioso ne dá, e che fa pigliar animo alla mia ragione, che stava nel gran dubbio di unirsi alla mia fantasia, che confesso schiettamente si lusingava di aver conseguito il gran fine a cui Ella si è cimentata col disegno di mettere in piú chiarezza, col motivo della chiara virtù del gran papa Benedetto decimoterzo, le veritá prime e piú principali dalle quali nascono tutte l’altre veritá. E promettendomi Vostra Signoria illustrissima di voler con piú agio esaminarne tutto meglio, considerandola assai occupata per me in questo esame, pensai di non aggiungere nuove brighe a questa briga col ringraziarla prontamente con altre mie lettere, per farlo meglio e in miglior modo e piú pienamente in tempo a lei piú sbrigato. Pregandola prima a compatirmene, mi permetta Ella che oramai almen le dica che intendo di farlo con quella maggiore vivezza che conviene al suo gran merito e cortesia e al mio gran debito, che anderá crescendo con lei, giacché mi favorisce e mi dovrá favorir tuttavia per far uscir alla luce (col divin favore) quest’opera con piú splendidezza e lustro che certamente le dará la sua mente e ’l suo nome chiarissimo. Verso il quale mi cresce il gran conto che sempre ne ho fatto, quando rifletto d’aver Ella in poche ore comprese quelle cose per le quali a me sono bisognati piú anni, avendo fino Ella pescato il mio

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disegno di cercar d’imitare lo stile degli antichi filosofi e specialmente platonici, dietro alla scorta di sant’Agostino e di Cicerone.

Starò dunque attendendo con molto desiderio, ma con tutto il comodo di Vostra Signoria illustrissima, il suo intero giudizio, e molto piú la sua dotta censura. La quale tanto piú desidero libera e liberale, quanto piú ho buona ragione di credere che in questa maniera la mia scrittura possa Spurgarsi da quei difetti che sempre scorrono e nella sentenza e nella elocuzione, e specialmente nelle cose metafisiche ed astratte, nelle quali non è cosí agevole usar chiarezza, che principalmente richieggono, e nettezza e bellezza di dire. Tanto piú che la mia opera abbraccia (vorrei dire) tutti i generi del dire e molto piú del didascalico ed anche critico, essendo ella insieme e lode e difesa delia virtù eroica di Benedetto, e come un sistema, insomma, di tutte le veritá scientifiche e rivelate.

E finalmente, per adempir la promessa d’esser breve, riconfessando in questo modo, e come col silenzio, a Vostra Signoria illustrissima i miei doveri strettissimi, la riprego sempre piú a comandarmi, nell’atto che raffermo al suo chiarissimo merito la mia migliore osservanza. E cosi divotamente mi rassegno, ecc.

Bari, 28 settembre 1737.

LXXVI
A monsignor Muzio Gaeta
Elogia il panegirico composto dal Gaeta.

Ho meditato la maravigliosa opera di Vostra Signoria illustrissima, e con mio sommo piacere e profitto vi ho scorto ch’Ella vi dá una perfetta idea del cristiano eroismo, ch’è tanto dire quanto una cristiana moral dimostrata, della quale, e per l’incertezza della materia e per la difficultá del lavoro,

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come le scrissi nella prima mia lettera, il cardinale Sforza Pallavicino non ne diede ch’un embrione nel suo trattato Del bene; il padre Malebrance, nelle sue quantunque al suo argomento piú adatte e però poche Meditazioni metafisiche, pur v’inciampò; Ludovico Muratori ultimamente nella sua Filosofia morale non vi è punto piú riuscito; ed or vi aggiungo che ’l Pascale e ’l Nicolio ne han professato quasi l’impossibilitá di riuscirvi con gli stessi titoli delle loro divine opere, quello di Pensieri e questo di Saggi della morale. Ma Ella dalle grandi, varie, molteplici e numerose e sempre attuose virtú del sommo pontefice Benedetto decimoterzo s’innalza a’ princípi metafisici, cioè sublimi ed universali, della virtú cristiana; e con un metodo sorprendente, ponendo per primo principio del suo sistema che le divine veritá rivelate, ch’insegna la nostra cristiana religione, non solo non pugnano con le divine veritá naturali ch’insegna la metafisica (ch’era soltanto di ch’erano contenti finora i teologi), ma che quelle dimostrano e piú confermano queste, entra con animo ed ingegno egualmente grande nella difficilissima quistione dell’origini dell’idee, di cui vi ha un libricciuolo intitolato Historia de ideis, che si conduce fin da’ primi tempi della greca filosofia fin a’ nostri ultimi, ne’ quali ne hanno tanto conteso prima Arnaldo e Malebrance ed ultimamente li due piú grandi ingegni della nostra etá, il Leibnizio e ’l Neutone; e con un’altezza d’animo incomparabile, propia della vostra nascita e della vostra pietá, stabilisce come prima pianta e fondamento dello stupendo edifizio: che dall’eterno decreto dell’unione ipostatica della natura umana e divina nella persona del Verbo, ch’avevasi da incarnare, venne alle menti cosí angeliche come umane l’origine dell’idee. Quindi discende a ragionare de’ princípi cosí delle menti come de’ corpi, e, per quanto s’appartiene a’ corpi, Ella, disapprovando tutte le fisiche per ipotesi, con una splendida e luminosa maniera ragiona di princípi metafisici delle naturali cose, seguitando Pitagora, Platone, Aristotile, quali sono da Proclo, gran filosofo platonico, dimostrati in un libro fatto rado, tradotto da Francesco Patrizio col titolo De principiis physicae Aristotelis geometrice demonstratis; la qual dottrina
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da alcun tempo in qua o si riveriva come una divinitá occulta o si riferiva come una riposta erudizione o si derideva come una vanitá.

Ma Vostra Signoria illustrissima non usa il metodo mattematico, il quale, ove non sono figure di linee o numeri, non porta necessitá e spesso, invece di dimostrar il vero, può dar apparenza di dimostrazione al falso, come con lo stesso metodo geometrico Benedetto Spinosa impone a’ cervelli deboli una metafisica dimostrata che porta all’ateismo. Nemmeno vi adoperate le dimostrazioni geometriche o aritmetiche per somiglianze, come i filosofi hanno usato finora di fare; ma, con istupore di chi vi leggerá, fate scendere i vostri princípi metafisici a dimostrar egualmente cosí le perfezioni de’ corpi, de’ quali prima propietá è la grandezza, come quella degli animi, di cui la maggiore propietá è la virtú. E qui mostrate la vostra aria grande e di teologo e di filosofo e d’oratore, ove si sarebbe ogn’altro perduto: ch’avendo questo santissimo pontefice avuto alcune fiate de’ grandi trasporti, ch’agli occhi volgari forse han potuto sembrare grandi difetti, Ella, per le di essolui eccedenti, copiose, varie, diverse instancabil virtú avendolo riposto dentro l’ordine universale nel quale versan gli eroi, fa vedere questa essere propietá di eroismo, per quel principio che stabilite che la virtú eroica è dentro l’ordine universale, a cui servono talvolta i particolari disordini.

E questo è quanto ho potuto io scorgere del vostro gran pensiero, ch’Ella mi comanda ch’io indovinassi se egli vi sia riuscito. Se non ho dato al segno, incolpatene non la mia diligenza ed attenzione in meditare la vostra divina opera, ma la mia poca sagacitá ed acutezza di penetrarla.

La maniera del dire è piena di luce ed è sostenuta da una fiducia generosa e da un’asseverazione magnanima, lo che assolutamente forma un certo dir da signore; la copia de’ sentimenti è affollata; le parole tutte signoreggiano sulle vostre nuove, rare e sublimi idee, talché lo stile si conduce con una maestosa semplicitá, quale debbe esser d’un pur parlante filosofo. Vi si leggono, è vero, spesso le agnominazioni o bisquitti; ma sono

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essi spontanei, non ricercati, e vogliono non tanto dileticare gli orecchi quanto piú illuminare le menti de’ leggitori. Io mi rallegro con la nostra patria e con la nostra lingua italiana, che mercé vostra parla in un tuono non piú udito e quasi superiore all’umano.

Se Ella vuole da me le dica alcuna cosa che non mi piaccia, egli è solamente il titolo, che desidererei breve e schietto, com’hanno usato fare tutti i gravi scrittori, e che restasse circoscritto cosí: Orazione ecc. Benedetto xiii, nella cui vita si scuopre l’idea del cristiano eroismo>.

[Napoli, 1° o 2 ottobre 1737.]

LXXVII
DI MONSIGNOR MUZIO GAETA
Chiede piú particolare giudizio sul suo panegirico, del quale mette in mostra i pregi.

Non men le seconde che le prime lettere di Vostra Signoria illustrissima mi accertano tuttavia della somma sua dottrina e bontà; onde io sempre piú ne rimango non men contento che ammirato e confuso, ed animato a credere che ’l mio disegno mi sia riuscito in buona parte, e direi forse anche in tutto, s’Ella si fosse compiaciuta avvertirmi meglio di molte cose che si dovrebbero o emendare o migliorare; non potendo io sí agevolmente credere che tanto riuscito mi fosse quello che non è riuscito a tanti spiriti grandi, di dar fuori si nette e sí purgate le loro scritture che prima di meritare la luce delle stampe non comparissero bisognose de’ buoni lumi de’ bravi e dotti amici, i quali, e per la maggior dottrina e per la minor passione, ben si possono accorger meglio di quanto abbonda o manca l’opera, dove io riduco il buono e ’1 reo di tutte le cose umane. Insomma avrei voluto che Vostra Signoria illustrissima m’avesse parlato piú chiaro, giacch’Ella m’ha compreso abbastanza in cosa che racchiude in poco grandi cose e piú cose di quelle

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che esprimono le parole, che io ho studiato di renderle tutte cose, per dire con brevitá e con abbondanza. Da che è venuta la folla de’concetti, i quali, se ben si riflette, tutti servono al gran disegno, non solo della parte dottrinale ma anche lodativa, giacché per ben lodar la virtù non basta virtù chiamarla, ma per virtù dimostrarla nella sua essenza e nelle sue proprietá essenziali. Tanto piú che, nel caso mio, la lode del mio eroe particolare mi dovea far strada alla dimostrazione della virtú eroica in generale, anzi di qualsivoglia perfezione creata, per poi collazionar tutto coll’archetipo eroe e principio universale perfettivo cosí dell’ordine naturale come dell’ordine soprannaturale; cimentandomi fino ad additarlo e dimostrarlo nelle menti cosí angeliche come umane, nell’innata nozione ch’esse hanno del circolo, ove sta il principale intento dell’opera. È intento tanto nuovo che in niuno autore antico o moderno che sia, e che io sappia, se ne trova traccia o segnale: siccome non si trova in sant’Agostino, le di cui opere metafisiche io paragono alla natura, nella quale, siccome sono tutti i semi delle cose naturali, cosí in esse opere si trovano sparse e come principiate tutte le veritá. Dalle quali per altro ho ricavato i migliori lumi, ciò che fa il materiale del mio disegno, che posso dir tutto mio per la forma e tutto di sant’Agostino per la materia, tramischiata delle migliori notizie della mistica teologia e della moderna metafisica; siccome posso dire dello stile, che nel materiale sia tutto di Cicerone e dei primi autori toscani, e, per quel che riguarda al formale, sia tutto mio, tirando io a fare e a stabilire non meno un nuovo sistema che un nuovo stile, per purgare le veritá e i parlari da cento e mille e infinite superfluitá, e vorrei dir torcimenti, che non nascono dalla felicitá e perfezione della natura e dell’arte, ma si bene dal disordine e dalla corruzione d’entrambe. Ciò che mi ha portato la meditazione di piú anni.

Giacché, a dir il vero, la consaputa orazione od opera che vogliam dire, se ben prenda la sua epoca dalla morte di Benedetto decimoterzo, pure ella nasce da un’operetta metafisica che io cominciai tra i monti e avea per le mani tuttavia, alla

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qual opera pensava di dar questo titolo: Idea e sistema generale delle naturali e soprannaturali veritá, dove io dall’ordine e disordine dell’uomo cerco di ricavarle tutte per tutte finalmente dimostrarle in Gesù Cristo, che fa il principio universale di questo sistema che ci abbozza la ragione universale e ci ritocca la fede. E questa è insomma l’idea della mia orazione ed opera, nella quale perciò m’è convenuto accennare assai le tracce dell’ordine e del disordine dell’uomo, anche col riflesso che mal si possa dimostrare o lodare in tutto la virtù se non si confronta col vizio, nella guisa che fa Plinio nel suo gran Panegirico a Traiano. Da questa economia mi è nata ancora l’opportunitá, anzi la necessitá di dimostrare in maniera assai nuova e concludente che, secondo il principio assegnato e l’ordine posto, dovette nella gran Madre di Gesù Cristo esser tutto l’ordine della natura e della grazia, senza che vi potesse esser disordine mai, e credo che mi sia riuscito assai, rischiarando meglio la ragione universale, che si regge da sé per via del circolo circoscritto al circolo primo ed uno, che si fa l’idea di Gesú Cristo; mettendo cosí in chiaro un’altra veritá, che questi e simiglianti caratteri e figure di linee e numeri non son mica giá segni capricciosi e fantastici, ma sí carattere e belle idee effettive e reali di quelle nature che ci producono queste idee: cosa mai toccata da altri, i quali perciò han fatto o mal uso o non il miglior uso di simiglianti caratteri, de’ quali per altro si son valuti assai meglio degli antichi i moderni metafisici, ai quali è riuscito bene, in buona parte, e meglio al Malebranche, di mettere in chiaro certe veritá per via de’ matematici argomenti e proposizioni geometriche.

Or tante cose della mia opera, ristrette, si può dire, in pochi fogli, dai quali io ne potrei far nascer volumi, m’han resa l’impresa piú diffìcile di quel che io pensava, e specialmente per darle la miglior chiarezza, che tutta viene finalmente dal miglior ordine e metodo, valendomi perciò a tale oggetto del sintetico e analitico, per dar prima un’idea generale del mio eroe e della virtù eroica, per farne poi l’analisi e compirne meglio la sintesi coll’idea generalissima del principio archetipo

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piú dimostrato; sicché, ciò ben compreso, si può meglio scorgere che il filo di quanto io dico non è mai rotto da quelle cose che alla prima sembrano digressioni, e fino, per quel che io suppongo, non s’interrompe dalle critiche che di mano in mano si van facendo del senso comune e della moderna usanza, e finanche da certi ornamenti oratòri, che, servendo al fine particolare di rendere il parlare ornato e grave e grande, non trascurano mai di servire al fine primario, che è quello di mettere in chiaro la perfezione e l’imperfezione delle cose umane, che viene dall'ordine e disordine rispettivo. E, camminando io per una via cosí difficile, ci entrai francamente, perché credea che non fosse tanto disastrosa; ma poi nel corso mi ha spaventato piú volte, siccome avviene a chi entra in mare per far gran viaggio quando il mare è tranquillo, che tanto è lontano dal temerlo quanto piú lo stima spasso e sollazzo, ma poi, trovandosi in alto mare e ’l mare imperversando, lo teme tanto quanto si teme la morte.

Ma mi accorgo oramai d’essermi troppo disteso e perciò piú d’un poco abusato della sua bontá, alla quale sempre piú rendo grazie infinite per le simigliami che mi ha dispensate; e tanto meno io finirò di ringraziarla quanto meno Ella non finirá d’istruirmi in generale ed in particolare, come scrive in una sua lettera monsignor Della Casa al suo gran Pier Vettori, mandandogli a rivedere una sua oda e dicendogli ch'egli non avea fretta nelle sue cose, piacendogli di farle e rifarle per farle meglio. E particolarmente vorrei che mi palesasse candidamente il suo dottissimo genio per sapere s’Ella stimasse meglio di togliere dal mio stile, come io giá pensava di fare, di passo in passo alquante delle assilabazioni e alliterazioni ch’ Ella chiama frequenti ma spontanee e non ricercate, per cui io ho impiegata non poca fatica e diligenza acciocché comparissero piú naturali e necessarie che artificiali, per dare al mio stile una certa novitá e numero nuovo, che rendesse il parlare piú grato e grande, sapendo io benissimo che Cicerone le usa, ma piú di rado, ma piú frequentemente sant’Agostino, il carattere de’ quali m’è piaciuto imitare in molte cose, e specialmente nel

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dir dotto e metafisico e magistrale, donde viene quella fiducia generosa e asseveranza magnanima; e finalmente un certo dir da signore, com’ Ella dice non men vivamente che graziosamente e gentilmente di me, che ho sempre ammirato in Cicerone questo pregio singolarissimo, da tanti spiriti grandi in ciò o non imitato perché non ammirato, ovvero ammirato come cosa assai difficile ad imitarsi dalla sola arte; siccome era riuscito all'assai felice arte e natura di Cicerone il maravigliosamente imitare in questo pregio Platone ed Aristotele e Demostene, suoi maestri; e finalmente riuscí a sant’Agostino d’imitare la fiducia e asseveranza magnanima e da gran maestro di Cicerone; e io dico che tra’ toscani non poco ci sia riuscito monsignor Della Casa, il quale tanto piú ne merita la lode quanto il genere delle sue scritture non porta dottrina e profonditá di sentenza. E finalmente ognuno abbonda nel senso suo, e perciò io lasciai la mia scrittura come si vede, persuadendomi che certe caricature o affettature sian necessarie a quelli che tentan di fare cose nuove, senza delle quali sembra si dia finalmente all’istesso e all’ordinario.

E, per finirla, prego e riprego Vostra Signoria illustrissima a parlarmi piú chiaro, giacché in questo particolare non mi torna in niun conto ch’Ella mi sia tanto discreta e gentile, che, tra tante cose che mi potrebbe dire per migliorare notabilmente questa mia cosa, e tra tante sí belle e sí abbondanti e sí generose lodi che per troppo favorirmi mi dá, non mi dia altro lume e insegnamento che intorno al titolo, ch’Ella vorrebbe piú ristretto, e che io son per far prontamente, sempre ch’Ella non approvi il motivo che mi mosse a farlo nella forma che ho fatto, per fare che alla prima il lettore avesse innanzi come una face per entrar nell’opera con miglior lume e per non crederla un puro panegirico, quando insomma è un sistema. Anche su questo particolare starò aspettando gli ulteriori insegnamenti di Vostra Signoria illustrissima, alla quale non so dir quanto devo e quanto io desideri di servirla e di soddisfarle tanti debiti meglio che non fo ora col raffermarle la somma stima e osservanza migliore. E, pregandola a compatire

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ancora questa mia dettatura in fretta, con tutto il mio animo e rispetto a Vostra Signoria illustrissima mi esibisco e rassegno, dichiarandomi, ecc.

Bari, 5 ottobre 1737.

LXXVIII
A monsignor Muzio Gaeta

Rinnova le lodi per l’orazione del Gaeta e asserisce la concordanza delle idee di costui con quelle che egli medesimo ebbe a manifestare nel De antiquissima.

Godo infinitamente intendere dalla in sommo grado egualmente gentile ed istruttiva risposta di Vostra Signoria illustrissima che io abbia abbastanza compreso il nuovo, raro, sublime disegno da essolei condotto nella orazione funerale del sommo pontefice Benedetto decimoterzo, perocché egli mi ha fatto dilettare del mio scorgimento in intendere profondissime opere e di gran peso. Ma il voler Ella che io vi scuoprissi errori e vi notassi difetti, ciò provviene da due cagioni: una del grande animo vostro, che mi stima da tanto quanto io non sono; l’altra della vostra gran mente, del qual genere gli autori architettonici sempre hanno idee piú perfette delle medesime loro quantunque bellissime opere. Né ve ne faccia punto dubitar quello che gli uomini letterati dieno privatamente assai piú vantaggiosi giudizi dell’opere altrui di quello farebbono se n’avessero pubblicamente a far le censure; perché io cosí la sento di cotal orazion vostra come ne ho scritto, che mi recherei a somma gloria che tal mio giudizio fosse dato pubblicamente alle stampe.

Oltraché, come poteva io non solo non appruovare tutto lo che ivi da Vostra Signoria illustrissima sta divinamente pensato, ma anco non dilettarmene, avendovi Ella meditato in una guisa maravigliosa un compiuto sistema di metafisica? d’intorno al quale io, molti anni fa, aveva intesi tutti i miei debolissimi sforzi, e ne diedi fuori un libro ch’era il primo d’un’opera con

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questo titolo: De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda, del quale non se ne hanno piú copie; né appresso di me, come di tutte l’altre mie, a riserva sol della Scienza nuova, si truova l’originale.

Ivi io travagliava di dimostrare che l’uomo è Dio nel mondo delle grandezze astratte e Dio è geometra nel mondo delle concrete, che è tanto dire quanto nel mondo della natura e de’ corpi. Poiché la mente umana principia la geometria dal punto, che è cosa che non ha parti e ’n conseguenza è infinito; onde è quello che egregiamente Galileo dice: che, quando siamo ridutti a’ punti, si perde ogni maggioranza, ogni minoranza, ogni egualitá; il perché i circoli concentrici e i lati de’ quadrati con le diagonali si tagliano ne’ medesimi punti, e come comincia dall’infinito, cosí all’infinito si porta con quel postulato che sia lecito di menare in infinito una linea; dentro di sé contiene gli elementi della grandezza astratta continova, che sono le proposizioni dimostrate di cotal scienza; ne dispone essa le guise e, disponendole, le conosce e, conoscendole, fa il vero geometrico; tantoché non sol ne’ problemi, anco ne’ teoremi, nel geometra come in Dio, lo stesso è il conoscere e ’l fare; per lo che non si controverte in mattematica pura, perché colui col qual ragionate, in udendovi ragionare, fa quello stesso vero che fate voi. Indi poscia discendo ad esaminare la certezza e la veritá delle scienze subalterne, per quanto piú o meno partecipano di tali princípi di metafisica: lo che Vostra Signoria illustrissima con una maniera non mai piú intesa insegna che le figure mattematiche, sieno figure di linee o pure di numeri, non sono miga giá segni capricciosi e fantastici, ma sí caratteri e belle idee effettive e reali di quelle nature che ci producono queste idee; ed io il dissi con meno di efficacia e di lume, ch’Ella si serve delle linee e de’ numeri non per somiglianza, come han fatto tutti i filosofi; e fa discendere i suoi princípi metafisici egualmente a dimostrare cosí le perfezioni de’ corpi come quelle degli animi. Dissi «tutti i filosofi»: Vostra Signoria illustrissima ne eccettua i moderni, e piú degli altri Malebrance; ma egli il Malebrance confessa e professa la dura necessitá che naturalmente

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ci preme di spiegare le cose delle menti per rapporto a quelle de’ corpi, lo che sembra confirmare generalmente il mio detto. Ella usa prima la sintesi per fare l’idea general del suo eroe, e poi l’analisi per rincontrare tutti gli eroi nell’idea generalissima del principio archetipo piú dimostrato.

Questo sí gran momento di cose della vostra opera io confesso che perdei di veduta e non iscorsi un grande argomento di vostra somma e sovrana lode: c’ha Ella trasportato alle cose morali e metafisiche il maraviglioso Organo di Bacone da Verulamio, c’ha dato cotante discoperte in fisica e in medicina, con usar l’induzione, perché con essa si facci incetta di particolari, come istorie naturali, osservazioni ed esperienze per via della sintesi, onde si formino poi i princípi generali da rincontrarli per tutta l’estensione de’ loro generi. Ho l’ardir d’affermare che le vostre sono digressioni, ch’Ella niega di esserlo, ma sono digressioni demosteniche; nel qual maraviglioso disordine consistono i terribili suoi entimemi, che finge uscir dal proposito e tratto tratto va in lontanissime parti, dove truova argomenti che, con una felice speditezza d’ingegno al suo proposito fatalmente attaccati, tanto piú terribili quanto men prevveduti fa cadere i suoi fulmini sugli giá divertiti uditori.

L’opera poi, da Vostra Signoria illustrissima meditata giá innanzi col titolo Idea e sistema generale delle naturali e soprannaturali veritá, anzi trasfusa che trasportata in cotesta orazione, la rende piú maravigliosa, perché vi unisce la sapienza con l’eloquenza, che fu la favella filosofica ben parlante formata nella scuola di Socrate, con cui parlarono tutti gli accademici antichi greci, tra’ latini Cicerone e tra gl’italiani niun altro innanzi di Vostra Signoria illustrissima.

D’intorno all’argutezze delle voci ch’Ella frequenta, giá ne la rimordeva la molta copia; ond’Ella potrá lasciarvi le piú necessarie che sieno insieme le piú naturali. Sto fermo (priego a perdonarmi di questa libertá che mi prendo per vostra gloria e mi perdoni) ch’Ella concepisca il titolo semplice e brieve, e per ciò che gliene ho scritto e perché la novitá, la vastitá e la difficultá della proposizione o sbigottirá o alienerá il leggitore:

266 ―
mi piacerebbe, sí, che ove dissi «si scuopre l’idea», si dica «si dimostra l’idea», che sarebbe un senso doppio assai acconcio, per essere l’orazione in genere dimostrativo e perché vi si dimostrano i princípi della vostra dottrina.

Le rendo grazie infinite del gentil dono di che Vostra Signoria illustrissima senza alcun mio merito si è degnata onorarmi per mezzo del molto reverendo padre Gaeta, degnissimo fratello vostro.

[Napoli, circa il 15 ottobre 1737.]

LXXIX
DI MONSIGNOR MUZIO GAETA
Continua a tessere l’elogio della propria opera.

Le lettere di Vostra Signoria illustrissima, non meno che la sua gran dottrina, sono insomma come i gran fiumi, che quanto piú scorrono tanto per via piú s’ingrossano e si spandono e bagnano e fecondano e rallegrano piú le campagne e le terre; siccome io sperimento dalla terza sua lettera, colla quale maggiormente m’ illumina e mi obbliga e mi consola, per cui si accresce il mio debito e ’l mio profitto. Io dunque di tutto la ringrazio sempre piú e al suo gran giudizio mi rimetto e acquieto, da una cosa in fuori, perché fa la somma delle mie cose il pregio della mia opera: come è la cosa di passar Ella risolutamente per digressioni o per appicchi quello che fa l’ordine e come Tossa e i nervi della mia scrittura, la qual comincia dall’uomo e procede coll’uomo e termina finalmente nell’uomo, giacché comincia dal mio uomo eroico particolare, procede coll’uomo eroico in generale e fa il gran punto nell’uomo eroico archetipo; e tutto quanto quivi si ragiona, e quanto qua e lá si dimostra, tutto va quivi e si raggira generalmente e circolarmente intorno al grand’uomo come intorno al centro suo. Ma, perché si tratta di cotesto grand’uomo interiore e mistico assai, non è sempre facile di dimostrarne

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facilmente e chiaramente il forte ed il filo; tanto piú quando questi parlari, come le ossa e i nervi di quest’uomo interiore, si van tratto tratto rivestendo di parole e d’immagini e di fatti particolari, come ricoprendone tutto lo scheletro di cartilagini e di carne e di membrane e di pelle; le quali cose ci nascondono l’esatto ordine e diramazione delle nostre ossa e de’ nostri nervi. Ond’io, per far palese quanto poteva il mio ordine, non solo mi son valuto del bell’ordine della sintesi ed analisi che le accennai, ma ancora mi son presa la grossa briga di ripeterlo a rovescio per via dei tre moti, cioè retto, obliquo e circolare, assegnati alle menti umane ed angeliche dal gran platonico e teologo Areopagita. insegnando egli che le menti umane vanno col moto retto dalle cose particolari alle universali e da queste obliquamente tornano a quelle, e finalmente, perfezionati questi due moti, che fanno tutto il cammino della meditazione, le menti nostre, se non si van elle baloccando tra via, al moto circolare, come nella quiete, si formano; e questo solo è il moto delle menti angeliche, le quali non hanno perciò bisogno di meditare, se tutto insiem elle contemplano le veritá une e prime nel centro delle loro idee universali. Or io, cominciando dalla mia sintesi meno universale, siccome è l’universale dell’uomo mio, vado poi a farne l’analisi piú generale, qual dee esser l’analisi dell’eroismo, che piú si accosta alla semplicitá e unitá dell’uomo archetipo. E questo moto si può chiamare il moto retto, dal qual moto io procedo per i gradi suoi al moto obliquo, discendendo via via gradatamente da Gesù Cristo alla di lui divina Madre, che fa la prima immagine della perfezione del divino Figliuolo. Ed ecco che né pur questa è digressione, ma necessaria progressione; siccome è quella di passar da lei alle perfezioni degli ordini angelici, e da questi all’uomo eroico, e da questo ai piú e manco eroi, per comprovare tuttavia che l’uomo mio tra questi solennissimi uomini fosse stato uno de’ piú solenni e singolari, e finalmente, per dimostrare tutto l’ordine intero, discendo a tutti i gradi degli esseri e fino all’infimo, siccome è la ragione delle cose insensate. E cotesto mi pare un bell’ordine di ragionare ed ogni arte, se cotesto è il grand’ordine
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del fare della natura e della grazia, il cui ordine quanto è piú perfetto tanto è piú ascoso; onde la natura e la grazia quanto meno serbano il loro ordine ordinario, tanto piú sono nell’atto del grand’ordine; e cosi si vuole intendere quel detto per l’antichitá giá fatto volgare, che tanto bene è ordine il non serbar l’ordine, cioè l’ordine comunale. E queste e simigliami cose le noto di passo in passo per far meno inciampare e smarrir tra via il mio lettore e per non farlo fermar tutto nelle cose particolari, nelle quali non bisogna arrestarsi, ma solo appoggiarsi per procedere innanzi con maggior lena e noia minore alle nozioni generali, secondo l’insegnamento che spesso ripete sant’Agostino nelle sue cose metafisiche: siccome fa per altro il buon geometra, che cerca sempre le nude essenze, e quindi le spoglia sempre fino delle lor proprietá essenziali non che accidentali, e quindi è che suppone egli il punto senza alcuna dimensione, e in simigliante modo considera la linea retta di ogni larghezza scevra e la dimensione della larghezza senza la profonditá, e in questa maniera viene meglio ad intendere l’essenza della trina dimensione del corpo. E cosí e non altrimente bisogna esaminar la ragion dell’ordine della mia scrittura, sempre astraendo dalle cose particolari dell’uomo eroico particolare per esaminarne meglio come lo scheletro e i nervi dove è posta l’economia dell’ordine di quanto si ragiona; e in questo modo il pratico notomista non sbaglia intorno all’ordine e alla commessura delle umane ossa e nervi, non ostante che li regge nel corpo vivente coperti di carne e di pelle. Ma io giá confesso che nelle cose astratte e dello spirito non sia tanto facile non ismarrirsi nell’ordine, ed anche a spiriti grandi; sicché non è gran fatto che in un’opera di simil fatta non se ne rintracci tutto l’ordine alla prima ed anche dopo molte e molte ricerche. E questa difficoltá maggiormente si sperimenta quanto n’è maggiore l’ampiezza e ’l numero delle cose, giacchè io dico che, se all’autore è bisognato gran tempo e grande meditazione per pensarle, disporle e spiegarle, certo che maggior tempo e pensiero si ricerca per capirne con chiarezza il magistero e '1 mistero. E di questa gran ragione e profonditá sono tutte l’opere
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eruditissime ed elevatissime di Vostra Signoria illustrissima, le quali, non ho riparo di confessare, ho sempre piú ammirate che intese, facendo buon uso della regola magistrale di sant’Agostino, il quale, parlando principalmente della profonditá delle divine scritture e proporzionalmente dell’opera de’ grandi ingegni, insegna egli che bisogna, quando non si comprendono alcune cose, confessare che non s’intendano, e non giá, perché non si capiscono, censurarle o notarle d’incoerenza o d’errore, procurando sempre di meglio studiarle per meglio capirle. Ed io, per ispiegare con un esempio volgare la confusione che genera l’abbondanza delle cose, soglio valermi di ciò che mi accadde nel vedere e rivedere tante volte la gran basilica di San Pietro, che, piú e piú cercandone e ricercandone, sempre piú e piú mi parea di ritrovarci cose nuove e migliori; e ’l medesimo sperimento quando rileggo alla scordata l’istessa mia opera di cui ragiono, né io me ne maraviglio quando rifletto a quanto ci è dentro, tanto che non mi par vero che ci sia tutto, giacché, avendola rifatta ben nove volte, dopo averla giá fatta alla prima, certo che, per conto fatto a mio diletto, vi ho aggiunte per ogni volta piú di mille cose o parole. E da ciò viene, come sempre ho pensato, che certe opere che son cosí piú stagionate, si leggano e si rileggano sempre con diletto e con profitto, perché par che vi si ritrovi sempre e vi s’impari qualche cosa di piú, e questa novitá ne fa il diletto, sicché quello che ne fa sazietá per un verso, ne fa gola per l’altro; la qual gola ritorna dopo che se n’è digerita la sazietá, come tornando sempre la mente satolla dalla svogliatura alla voglia, e per lo contrario. Ma non è giá che io creda che l’opera mia sia delle si fatte, se dico solo che ho procurato di farla con questo gran disegno, non ostante che io fossi certo che mi sarebbe fallito in ciò, siccome è accaduto ai piú, e per cui non è poco che Vostra Signoria illustrissima ne parli bene: dico bene, perché tanto mi basta, perché il piú del bene ch’Ella ne dice, non mi tocca se non per gentilezza, di che io sempre piú ne la ringrazio e gliene prometto una gran memoria. Al qual debito aggiungo l’altro del gentilissimo gradimento che mi palesa
270 ―
Ella delta picciola gratitudine che le ho mostrata piú per confessarle che per soddisfarle le mie partite, che terrò sempre accese per esser sempre suo buon debitore e per sempre ricordarle di comandarmi e per tuttavia riprotestare a Vostra Signoria illustrissima in quanto conto io abbia i suoi favori e i suoi meriti. E intanto con piena osservanza tutto me l’esibisco riprotestandomi, ecc.

Bari, 26 ottobre 1737.

LXXX
A Giuseppe Pasquale Cirillo
Elogia l’Orazione composta dal Cirillo
per le nozze del re Carlo Borbone con Maria Amalia di Sassonia.

Voi, per quel singolar amore che mi portate, vi siete ieri compiaciuto di comunicarmi privatamente la bellissima orazione che vi è stato ordinato di recitare nella nostra universitá, ove sará una pubblica dimostranza d’ossequio nell’occasione che ’l nostro re si è impalmato alla principessa real di Polonia. L’argomento sono nozze reali; e gli re sono la cosa piú sublime ch’ammirano e venerano le nazioni sopra la terra, e le nozze altronde sono l’azione piú gaia ed ornata che celebrano gli uomini nella vita. Voi, con saggio temperamento, avete concepita e tessuta la vostra pregevolissima diceria di concetti grandi insieme ed ameni, robusti e teneri, gravi e leggiadri; e l’avete vestita d’una locuzione scelta ma non ricercata, naturale ma nobile, dotta ma che non sa affatto di scuola e sembra nata in una nobilissima corte. Io mi rallegro con essovoi di cotesto bel parto del vostro pronto e purgato ingegno, e ve n’auguro molta lode, e molto piú da coloro i quali son usi di gustare la grandezza della romana e la delicatezza altresí della greca, delle quali avete fatto un bel misto nella nostra italiana favella. Ed umilmente vi riverisco, ecc.

[Napoli, poco dopo il maggio 1738.]

271 ―

LXXXI
D’ISABELLA PIGNONE DEL CARRETTO DUCHESSA D’ERCE
A GIUSEPPE PASQUALE CIRILLO
Perché procuri di far correggere dal Vico alcuni versi dei sonetti composti da lei per le sopradette nozze reali.

Riveritissimo signor don Gioseppe, io sono giunta ad invidiare coloro che sono tanto appassionati de’ componimenti che fanno, o buoni o mali che sieno, che van trovando occasione di stamparli. Io, dovendo dare alle stampe i due sonetti per le nozze regali, sono entrata in tanti scrupoli che, quantunque, oltre a voi e’1 signor don Orazio, il nostro dottissimo signor don Giambattista Vico gli abbia per sua bontá approvati e corretti, pure non lascio di dubitare. Io so che gli scrupoli sono figli dell’ignoranza, ma da me sola non posso liberarmene. La notte passata ho vegghiato gran tempo pensando a’ miei sonetti, e vi ho trovati alcuni nèi che non vorrei che vi fossero, non ostante che talora un neo accomodi un viso. Or, perché debbo domani dare i sonetti, e dubito che questa sera mi possiate favorire, perché mi diceste che sareste andato a ringraziare i votanti, mi son veduta costretta a scrivervi le mie difficoltá, le quali vi prego a volere col vostro giudizio riflettere, ed anco a compiacervi di comunicarle al signor don Giambattista, nel di cui purgatissimo giudizio, come ancora nel vostro, finalmente riposerò, e pregando in mio nome che compatisca le troppo sollecite premure d’una penitente scrupolosa, la quale soggiacerá ad ogni penitenza. Sia egli il mio padre Cutica.

In un sonetto ho scritto cosí: «...da le sue cure si sciolga La mente intesa a celebrar gli eroi ». Mi spiace quell’asprezza di suoni: « ente-inte », onde vorrei fare « lo spirto inteso », non ostante che pur ci sia un certo che d’aspro...

Nell’altro sonetto il signor don Giambattista mi fece favore d’emendarmi un verso cosí: « E ’l turcasso di stral d’oro anco

272 ―
scarco ». Anche qui m’è nato qualche scrupolo in mente, e pregate il signor don Giambattista che sia confessore benigno, mi senta con bontá e me ne liberi. Quelle due desinenze per la stessa lettera: « e ’l stral », e quelle due « d »: « di stral d’oro », e quelle tre ultime parole che terminano tutte in « o », e quelle due ultime che terminano nella stessa sillaba: «anco scarco», sono i miei scrupoli. Se sono scrupoli d’acqua santa, il signor don Giambattista mi benedica ed è finita. Io ho fatto in due maniere: « Ed il turcasso di quadrella scarco »; « Ed il turcasso de’ bei dardi (o strali) scarco ». Se stima cosí, o pure mi cambiasse a suo piacere quel verso.

Però, signor Gioseppe mio, se vi pare che questa sia minima disattenzione al signor don Giambattista, non glielo dica, perché ci lascerò il verso da lui accomodatomi, bastandomi che il sonetto sia passato sotto l’occhio suo, mentre non vorrei che mi tenesse per disattenta, nascendo questo solamente dalla mia ignoranza. Fate voi. Compatite l’incomodo v’arreco e mi vi dichiaro serva.

[Napoli, poco dopo il maggio 1738.]

LXXXII
DI MONSIGNOR MUZIO GAETA
Ringrazia per il dono del volume pubblicato dai professori dell’universitá napoletana nell’occasione sopradetta.

Ricevo in luogo di caro dono e d’amore e di favor singolare non meno le obbligantissime lettere di Vostra Signoria illustrissima che la cortesia, che con pieno gradimento ho ricevuta, d’una copia di cotesta reale accademia, celebrata nelle grandi nozze de’ nostri serenissimi regnanti, che il Signor sempre feliciti. Me ne corre dunque il debito di pienamente e distintamente ringraziamela, siccome avrò primo anche il bel motivo di altamente lodare e ammirare il grand’ingegno ed arte di sí dotti ed esperti accademici; tra’ quali Ella, senza controversia, ha

273 ―
sempre avuto il primo luogo e ’l primo vanto, che sempre piú le conviene e se lo guadagna maggiore coi nuovi testimoni ch’Ella ne dá a dispetto dell’etá e della sanitá aggravata e malmenata dalla sua contraria fortuna. Ma solo il savio sa superare il fato colla virtù dell’animo, che si confá con ogni caso e vicenda delle cose umane; ed accrescendosi in me l’obbligo di servirla, ne raddoppio a Vostra Signoria illustrissima le mie istanze per riceverne da lei le opportunitá piú confacenti al suo genio e al suo gran merito, al quale tutta raffermo la grande stima che io ne faccio. E cosí particolarmente e cordialmente mi dichiaro, ecc.

Bari, 15 novembre 1738.

LXXXIII
A re Carlo di Borbone
Supplica per il conferimento della cattedra di rettorica
al figliuolo Gennaro.

Sacra Real Maestá, Signore,

Giovan Battista Vico, istoriografo regio e professor d’eloquenza ne’ regi Studi, prostrato a piedi della Maestá Vostra, umilmente supplicandola, l’espone come esso da quaranta e piú anni ha servito e serve in questa regia universitá nella cattedra di rettorica col tenue soldo di cento ducati annui, co’ quali miseramente ha dovuto sostentar sé e la sua povera famiglia. E perché ora è giunto in un’etá assai avvanzata ed è aggravato e quasi oppresso da tutti que’ mali che gli anni e le continue fatighe sofferte soglion seco portare, e sopratutto è stretto dall’angustie domestiche e dalli strapazzi dell’avversa fortuna, da’ quali sempre ed ora piú che mai troppo crudelmente viene malmenato; quali mali del corpo, accompagnati ed uniti ai piú potenti, quali sono quelli dell’animo, l’hanno reso in uno stato affatto inabile per la vita, non potendo piú trascinare il corpo giá stanco e quasi cadente, di maniera che miseramente vive

274 ―
quasi inchiodato in un letto; per la qual cosa si è veduto nella necessitá di sostituire in suo luogo interinamente nella cattedra della rettorica un suo figliuolo per nome Gennaro, il quale da piú anni s’ha indossato il peso di questa carica, ed in essa se ne disimpegna con qualche soddisfazione del pubblico e della gioventú, del che ne può essere bastante pruova il mantenersi l’istessa udienza e l’istesso concorso di giovani che esso supplicante soleva avere. E perché esso giá si vede in etá cadente e dall’angustie presenti, nelle quali esso ed i suoi vivono, ne considera e prevede le maggiori, nelle quali la sua povera famiglia dovrá cadere cessando esso di vivere, laonde supplica umilmente la vostra real clemenza a volersi degnare con suo real ordine di conferire la futura sostituzione proprietaria della mentovata cattedra di rettorica in persona di detto suo figliuolo, acciocché la sua famiglia, dopo la sua mancanza, possa almeno avere un qualche ricovero donde in qualche maniera possa tener da sé lontana una brutta e vergognosa povertá, nella quale certamente anderá a cadere. E lo riceverá dalla vostra real munificenza a grazia, ut Deus.

[Napoli, 29 o 30 dicembre 1740.]

XXXIV
DI FRANCESCO SERAO
Si congratula per la notizia del conferimento a Gennaro Vico della cattedra paterna.

Viro clarissimo Iohanni Baptistae Vico, professori emerito atque historiographo regio, Franciscus Seraus s. p. d.

Ain tu? Vice vivorum optime. Ergo in neapolitanum hominem (quisquis ille fuit) cadere tam ingenui liberalisque consilii laus potuit ut de promotione filii tui, iuvenis doctrinae probitatisque laude fiorentissimi, ad regem optimum referendum censuerit? Nam de principis clementissimi munificentia ac benignitate modo non deesset qui admoneret, nihil erat caussae cur

275 ―
dubitaremus. Sed quando sive episcopo puteolano, studiorum praefecto, sive marchioni Caietano Branconio, sive, ut ego coniicio, utrique ea mens insedit ut in honestandis aetatis tuae, meliore fortuna dignissimae, reliquiis operam studiumque ponerent, gratiamque atque auctoritatem quam sibi merito suo apud regem sacratissimum pepererunt, impenderent; ego, qui unus e multis, sed minime vulgari aut tralaticio animo familiae tuae decora atque commoda prosequor, nullum finem faciam plausu ac praedicatione tam illustre facinus concelebrandi: tum animus est collegas lectissimos excitandi ut de gratiarum actione, tamquam pro publico ingentique beneficio ad supremos aulae proceres habenda, cogitent. Nihil profecto aequius, nihil universae scholae honorificientius, fortasse et fructuosius, fuerit. Interea, vir clarissime, quod coram propediem me facturum spero, per litteras saltem hanc tibi felicitatem ex animo gratulari protinus constitui, quamquam doleo mihi, cui animus voluntasque abunde suppetunt, verba hoc tempore deesse quae ingentem quam ex hoc nuncio laetitiam voluptatemque cepi, exaequare valeant. Tu modo, qua animi magnitudine ac facilitate es, quidquid ego infantia orationis meae suppressi, quod hominem utriusque studiosissimum in auspicatissimo filii casu apud parentem indulgentissimum agere ac destari decet, tecum ipse constitue. Nullum sane tam excellens ac exquisitum gratulationis genus comminisci pro summa tua eloquentiae facultate poteris, quod animi mei sensum intimumque affectum vincat. Vale.

[Napoli, poco dopo il 12 gennaio 1741.]

LXXXV
DELLO STESSO
Manda i fogli del libro sulla Tarantola, pregando il Vico di emendarli.

Iohanni Baptistae Vico V. C., professori emerito et historiographo regio, Franciscus Seraus s. p. d.

Libero fidem meam, vir clarissime, nec amplius mihi

276 ―
cunctandum esse duxi, postquam officii me admonere verecunde, ut soles, humanissimeque voluisti. Mitto igitur ad te pauca illa quae De phalangio apulo hactenus edita sunt. Plura vellem mittere potuissem; sed nosti quam multis quamque alienis negotiis circumventus vivam. Sed heus tu! non eo tibi morem gessi ut scilicet tu mihi vicissim morem geras et palpum (non dico assentationis, a qua alienissimum te vivere et decet et facile mihi persuadeo, sed palpum amoris animique impense benevolentis) obtrudas; verum, si me amas, quod plurimis argumentis fretus te ex animo facere sat scio, debes subinde stigmata inurere medioraque subindicare ut quam paucissimis fieri potest mendis insignitus partus hic noster in lucem prodeat, iudicioque hominum politiorum sistatur. Ni feceris, periculum est ne de animo in me tuo, vir summe, posthac dubitare incipiam. Adiunxi tenue munusculum, non ut blanditias abs te elicerem, sed medico prorsus consilio; medicorum enim pervulgatum dogma circumfertur: «dulcia bilescere»; spero enim futurum, ut, bile concitata, patientae et lenitati, ad quas unice a natura factus es, nuntium remittas tantisper dum mea haec lectitare in animum induxeris. Sed plura quam vitae meae rationes ferunt. Tu, quid tibi faciendum sit, ex famae nostrae periculo constitues. Vale.

[Napoli, 1742.]

LXXXVI
A Francesco Serao
Ringrazia del libro predetto e lo elogia, scusandosi dal farvi emendazioni.

Iohannes Baptista Vicus Francisco Serao, viro clarissimo publico medicinae professori, s. p. d.

Liberant fidem suam qui ad solvendum aliquo iuris vinculo sunt obligati; at tu, vir clarissime, pro tua singulari benignitate erga me mihi misisti quae De phalangio apulo hactenus edideras. Ea tuae feracissimae menti et mira doctrinae et eruditionis suppellectile abunde instructae pauca videntur, et plura mittere

277 ―
voluisses si per aliena negotia, quibus distrahi ac distineri vis, facere licuisset. Sed isthaec magis laus, quam excusatio, habenda est. Ea enim egregii operis particula tanto ingenio tantoque iudicio est pertractata, ut qui te ignorant in nulla alia re occupatum putaverint. At enim videris aut tuos divinos mentis partus, nedum contemnere, graviter sane odisse, aut me nullum omnino doctorum hominum sensum habere, qui postulas ut pulcherrimum nitidissimumque opus emendationum notis deturpem. Neque quod in hac iniqua re tibi non obsequor, idcirco de animo in te meo quicquam dubites; et istam suspicionem differas tantisper quaeso dum reipublicae literariae universae censuram de edita dissertatione, ut confido, honorificentissimam referas. Dulciariorum suave munus mihi pergratum fuit, tum ipso mancipio, tum a tali viro ad me missum; et quod dulcia medici dicant «bilescere», id, pace dicam tua, magis argute quam acute a te dictum interpretor, scilicet ut tuae amabilissimae dissertationi iniurius irascerer. Igitur quam vere et severe phalangi apuli naturalem historiam scribis, tuum ipsius animum consule et certe scias quam in tuto tua doctissimi viri fama sita sit. Vale, peritissima sophiae medulla.

[Napoli, 1742].

278 ―

Oltre i numeri raccolti nel presente Carteggio, restano, del Vico o al Vico:

LXXXVIII. — Un frammento di lettera (Napoli, 4 novembre 1702) ad Alfonso Crivelli, inserito nel proemio encomiastico composto da Pietro Emilio Guaschi per gli Elogi accademici del Gimma, e cosí concepito: «Fervet in ingenti Elogiorum opere dominus abbas Gimma, in quo nova quadam et ab aliis excultis eius generis scriptoribus insolita arte de quaque re eum, qui suscipitur laudandus admonuit, eo cuncta, quae in medio posita sunt, et id attingant, tanquam ad suum revocat caput: ita ut quodvis eius elogium (vides qua arte!) innumeris in eodem genere aliis argumenta suppeditare possit. Itaque mihi id videtur opus polyanthea, vel humanae vitae theatrum in certa Elogia digestum ac distributum. Vale, neapolitani Senatus lumen maximum, literarum praesidium et decus».

III. Poesie Varie. Filosofiche e Autobiografiche
313 ―

I
Affetti di un disperato
(1692)

Lasso, vi prego, acerbi miei martíri,
a unirvi insiem ne la memoria oscura,
se cortesi mai sète in dar tormento;
poiché son tanti, che lo mio cor dura,
di mille vostre offese i vari giri,
ch’i’ non ben vi conosco e pur vi sento:
talché di rimembrar meco pavento
le mie sciagure. Or voi, sospiri accesi,
ite a seccarmi i pianti in mezzo al varco
del ciglio d’umor carco;
e voi, da miei sospir miei pianti offesi,
tornando in giú, di lor vi vendicate
con sommergerli adentro ’l mesto core,
a cui per le vostr’onte omai si toglia
che possa la sua cruda amara doglia
sfogar, poiché cosí agio non fate
ch’uscendo fuor con voi il mio dolore,
lasci l’albergo d’ogni nostro affetto;
perch’io, finché m’ha morto, in mezzo al petto
serbarlo vo’, se mai quel che m’avviva
potrá menarmi del mio corso a riva.
    Perché cadente omai è ’l ferreo mondo
e son giá instrutti a farci strazio i fati,
di pari con le colpe i nostri mali
crebber sugli altri delle prische etati
troppo altamente, poiché sotto il pondo
di novi morbi i gravi corpi e frali

314 ―

gemono smorti, ed a la tomba l’ali
il viver nostro ha piú preste e spedite,
e son sempre feconde le sventure
di sí fatte sciagure
non piú per nova o antica fama udite,
e dal pensier uman tanto lontane
che crederle men sa chi piú le prova:
talché sembra lo ciel che non piú accenda
benigno lume, onde qua giú discenda
un’alma lieta. Or chi cotanto strane
guise di mali intende mai per prova,
se potesse mirar qual è lo scempio
che di me fa mio destin fèro ed empio,
al suo, ch’or chiama avaro ed or crudele,
grazie sol renderia, non che querele.
    Di qualunque animal, quando primiero
a l’ime soglie del suo viver giunge,
lo ’nfocato vigor onde ha la vita,
con dolci nodi amici e’ si congiunge
a la sua salma; e un caso adverso e fèro,
o pur sia stella avara in darmi aita,
o natura dal suo corso smarrita,
di duo adversari me, lasso! compose:
il mio mortale infermo, afflitto e stanco,
ch’omai par venir manco,
strazia l’alma con pene aspre, noiose;
e ’l mio miglior, che d’egre cure abonda,
affligge ’l corpo con crudeli pesti;
e mentre, oimè! con pensier molto e spesso
me ’nterno a sentir me contro me stesso,
membro non ho ch’a l’anima risponda,
poiché non ho vertú che i sensi dèsti,
se non se ’n quanto mi si fan sentire
gli acerbi effetti de’ lor sdegni ed ire.
In sí misero stato e sí doglioso
va’, spera, se tu puoi, qualche riposo.

315 ―

    Ma ’l piacer fèro di dolermi sempre
parmi ch’alleggi in parte ’l mio cordoglio,
se del mio stato a lamentar mi mena;
ond’io, ch’a piú e a piú dolor me ’nvoglio,
farò, cantando con suavi tempre,
che pel contrario suo poggi mia pena.
Vita sovra ’l mortal corso serena,
moderati piacer, delizie oneste,
tesori per valor vero acquistati,
onori meritati,
mente tranquilla in abito celeste;
e, perché piú lo mio dolor s’avanzi,
talché null’altro mai fia che l’agguagli,
amor di cui è sol amor mercede,
e vicende gentil di fé con fede,
venite al tristo pensier mio dinanzi,
ch’e’ vi fará sembrar pene e travagli
a lo mio cor, perché di duol trabocchi,
sí come rossa gemma avanti gli occhi
posta talora, egli adivien che facci
rassembrar sangue il latte e fiamme i ghiacci.
    Rinfacciatemi or voi, s’unqua potete,
qualche vostro favor, stelle crudeli!
Ite, e ven prego, a ritrovarlo omai
entro quei moti de’ benigni cieli,
che ’nfluiscon qua giú gioie men liete.
Solo ben io da me so che non mai
bevvi respir, che non traessi guai.
Deh! perché da la vita altra beata,
stanco da tante alte sciagure e rotto,
misero, fui condotto
a la presente amara e disperata?
Poiché, se mai a’ giorni, a’ mesi, agli anni,
c’ho speso nel dolor, i’ son rivolto,
veggio esser nato per mia cruda sorte
solo a fiamme, sospir, lagrime e morte.

316 ―

E cosí crudi scempi e acerbi affanni
non m’hanno in quel che i’ era ancor disciolto.
Ah, che daranno tempo al fato rio
che meglio studi ’l precipizio mio;
se non è forse che la morte avara
tema col mio morir farsi piú amara!
    Mi venne sol da luminosa parte
del cielo una vaghezza di destare
a’ piè de’ faggi e poi de’ lauri a l’ombra
la bella luce che fa l’alme chiare,
ch’a la povera mia si spense in parte
quando se ’ndossò ’l velo onde s’adombra:
talché, d’alto stupor finor ingombra,
parea a se stessa dir: — Lassa! chi sono? —
Oimè! ch’a tal desio travaglio come
debbami dar il nome;
ma sempre ’l chiamerò pena e non dono,
se affligge piú chi piú conosce il male.
Oh inver beati voi, ninfe e pastori,
cui sa ignoranza cagionar contenti,
ch’oblïati sudor, fatighe e stenti
acquetar vi sapete a un dono frale
o di poma o di latte over di fiori;
ed al caldo ed al gel diletto e gioco
vi reca l’ombra fresca e ’l sacro foco;
né altra gioia a voi sembra che piaccia
che rozzo amore o faticosa caccia!
    Ma qual piacere i’ seguo, afflitto e lasso,
fra tanti strazi abbandonato e solo,
ne la misera mia vita che meno?
che fatto son noioso incarco al suolo,
anco infecondo, dove ’l tronco e ’l sasso,
come in suo centro, han la lor quiete. Almeno
il mio piacer e’ fosse il venir meno;
ma ’l fato me ’l disdice. Or, se mi serbo
sempre a novi sospiri e a pianti novi,

317 ―

piovi miserie, piovi
sovra ’l mio capo, empio destino acerbo;
e non voler meco mostrarti avaro
d’altri scempi piú infesti e piú nemici,
ch’i’ tua penuria e non pietá la stimo;
se non è forse invidia ch’i’ sia ’l primo
tra disperati e che mi renda chiaro
essempio di dolor agl’infelici.
Ma per le pene mie i’ giuro a queste
aspre selve, solinghe, orride e meste,
che non mai turberá, mentre respiro,
i lor alti silenzi un mio sospiro.
    Canzon, sola rimanti a pianger meco
dove serbo ’l dolor, né fra la gente
d’ir chiedendo pietate abbi vaghezza;
ché l’alto mio martír conforti sprezza.
Ma, se doglia compianta e’ men si sente,
sdegna ch’ancor tu resti a pianger seco
l’afflitto cor, che disperato vòle
che l’aspre pene sue si sentan sole.

318 ―

II
Giunone in danza
Per le nozze del principe della Rocca Giambattista Filomarino
con Maria Vittoria Caracciolo dei marchesi di Sant’Eramo.
(1721)

Io, de le nozze riverito nume,
che le genti chiamâro alma Giunone,
che, perché sotto il mio soave giogo
or due ben generose alme congiunga,
gentili cavalieri e chiare donne,
co’ prieghi umíli di potenti carmi
invocata, qua giú tra voi discendo;
e perché sotto il mio soave giogo
due alme al mondo sole or io congiunga,
menovi meco in compagnia gli dèi,
che ’nalzò sovra il ciel l’etade oscura,
con Giove mio consorte e lor sovrano.
Come? ben si convenne al secol d’oro
con semplici pastori e rozze ninfe
in terra conversare i sommi dèi,
e, ’n questo culto di civil costume
ed in tanto splendor d’alma cittade,
almeno per ischerzo, almen per gioco
vedersi in terra i dèi or non conviene?
Questa augusta magione
e d’oro e d’ostro riccamente ornata,
ove ’n copia le gemme, in copia i lumi
vibran sí vivi rai
qual le piú alte e le piú chiare stelle

319 ―

di cui s’ingemman le celesti logge,
s’albergare qua giú vogliono i dèi,
ov’alberghin i dèi non sembra degna?
e quell’argentee ed ampie mense, dove
l’arte emulando il nostro alto potere,
l’indiche canne e i favi d’Ibla e Imetto
presse di eletti cibi
in mille varie delicate forme,
le quai soavemente
si dileguan sui morsi,
si dileguan tra i sorsi,
non somiglian le nostre eterne, dove
bevesi ambrosia e nettare si mangia,
che quali noi vogliam dánno i sapori?
Tutto a questo simíl, dolce concento
di voci, canne e lire
risuonan di Parnaso
le pendici e le valli,
quando cantan le muse e loro in mezzo
tu tratti l’aurea cetra, o biondo Apollo.
Ma questi regi sposi,
de’ rari don del cielo
quant’altri mai ben largamente ornati,
di tai mortali onori
di gran lunga maggiori
degni pur son d’un nostro dono eterno;
onde adorniamo in essi
i nostri stessi eterni don del cielo.
I terreni regnanti,
che stanno d’ogni umana altezza in cima,
stiman sovente di salir piú in suso
scendendo ad onorare i lor soggetti;
e i terreni regnanti
son pur essi soggetti a’ sommi numi,
e, perché sol soggetti a’ sommi numi,
han stabilito i sommi regni in terra.

320 ―

Perché lo stesso a noi lecer non debbe?
che, perché onnipotenti,
credettero le genti
poter pur ciò ch’è ’n sua ragion vietato,
e fûr da noi sofferte
che credessero il tutto a noi permesso,
purché credesser noi poter ’l tutto
e sí le sciolte fiere genti prime
apprendesser, temendo,
dal divino potere
ogni umano dovere.
Del garzon dunque valoroso e saggio
che coll’alte virtudi
veracemente serba il nome antico,
che d’immortalitá risuona amante,
e de l’alta donzella,
di cui sovra uman corso
vien dal bel corpo la virtú piú bella,
ond’è a la terra e al ciel cotanto cara
che fatto ha sua natura il nobil nome,
omai l’inclite nozze
festeggiamo danzando, o sommi dèi;
e chi a menar la danza ha ben ragione,
l’auspice de le nozze ella è Giunone.
    Esci dunque in danza, o Giove,
ma non giá da Giove massimo,
di chi appena noi celesti
sostener possiam col guardo
il tuo gran sembiante augusto;
esci sí da Giove ottimo,
con quel tuo volto ridente,
onde il cielo rassereni
e rallegri l’ampia terra,
e dovunque sí rimiri,
fondi regni, inalzi imperi,
tal che ’l tuo guardo benigno

321 ―

egli è l’essere del mondo.
Deponi il fulmine
grave e terribile
anche a’ piú forti,
non che lo possano
veder da presso
queste che miri,
queste che ammiri
tenere donne
tanto gentili
e delicate.
Ti siegua l’aquila,
pur fida interprete
de la tua lingua,
con cui propizio
favelli agli uomini
e loro avvisi
palme e grandezze.
Anzi voglio, e non m’è grave
(ché gelosa io qua non venni),
che tu prenda quel sembiante
d’acceso amante
non di sterili sorelle,
ma di quelle
chiare donne
che di te diêro gli eroi;
e ’n sí amabile sembianza
esci pur meco, o sovran Giove, in danza.
        Il mio gran sposo e germano
    non giá in terra qui da voi,
    caste donne, i chiari eroi
    unqua adultero furò.
        Suo voler sommo e sovrano,
    che spiegò con gli alti auspíci,
    tra gli affetti miei pudici
    ei dal ciel gli eroi formò.

322 ―
        Porgi or l’una or l’altra mano
    a chi finse la gelosa,
    e d’eroi tal generosa
    coppia ben fia quanto da noi si può.
    E tu vaga, gentil, vezzosa dea,
alma bellezza de’ civili offici,
che son le Grazie che ti stan da presso,
e poscia i dotti ’ngegni t’appellâro
de le sensibil forme alma natura,
e una mente divina al fin t’intese
de l’intera bellezza eterna idea;
per Stige, non istar punto crucciosa
perché tu qui non empi il casto uficio,
qual ti descrisse pure a nozze grandi
un’impudica piú che dotta penna,
ché ’l mio (qual dee tra noi, pur regni il vero)
è sopra ’l tuo vie piú solenne e giusto,
poiché tu sembri (e sia lecito dirlo)
ch’a letti maritai solo presiedi
le licenze amorose a far oneste;
se de le proli poi nulla ti curi,
ma ben le proli io poi, Lucina, accoglio.
Quest’or mio dritto fia,
qual fu tuo dritto ne la gran contesa
dal regale pastor come piú bella
di riportarne il pomo: or piú non dico;
ché, quando del mio uficio si ragiona,
allor parlar non lice
d’altro che di concordia, amore e pace,
talché mi cadde giá da l’alta mente
il riposto giudizio;
anzi unirò co’ tuoi
tutti gli sforzi miei
pel tuo sangue troiano,
e l’imperio romano
per confin l’oceáno abbia e le stelle.

323 ―

Ti cingano
or le Grazie;
ti scherzino,
ti volino
d’intorno mille Amori,
e a le tue dive bellezze
dá’le forme piú leggiadre
di sorrisi, guardi, moti,
atti, cenni e portamenti,
qualor suoli quando Giove
vuolsi prendere piacere
di mirar la tua bellezza.
In tai guise elette e rare
esci, Venere, omai meco a danzare.
        Da questa dea
    prendete idea,
    o sposi chiari,
    o sposi cari;
        ché della vostra
    in questa chiostra
    piú bella prole
    non veda il sole;
        e a te di padre,
    a te di madre
    figli vezzosi
    rendano i nomi piú che mèl gustosi.
    E tu, gran dio del lume,
che nel cielo distingui al mondo l’ore,
e qua giú in terra sopra il sacro monte
presso il castalio fonte,
valor spirando al tuo virgineo coro,
fa’ i nomi de’ mortai chiari ed eterni;
memore io vivo pure
che, ’n buona parte a te debbo io le nozze,
sí che ’n gran parte a te debbo il mio regno,
che ’n quella senza leggi e senza lingue

324 ―

prima infanzia del mondo,
la téma, l’ira, il rio dolor, la gioia
con la lor vïolenza
insegnarono all’uom le prime note
di téma, d’ira, di dolor, di gioia,
qual pur or suole appunto,
da tali affetti tócco gravemente,
il vulgo, qual fanciul, segnar cantando;
indi le prime cose
che destassero piú lor tarde menti,
o le piú necessarie agli usi umani,
quai barbari fanciulli,
notâro con parole
di quante mai poi fûr piú corte ed aspre;
ed in quella primiera e scarsa e rada,
e, perché scarsa, rada lor favella,
eran le lingue dure,
non mobili e pieghevoli, com’ora
in questa tanta copia di parlari,
a’ quali ’n mezzo or crescono i fanciulli,
a proferir da émpito portati,
e a proferir da l’émpito impediti,
qual fanno i blesi, prorompean nel canto;
e, perch’eran le voci
corte, quai fûr le note poi del canto,
mandavan fuori per natura versi;
né avendo l’uso ancor di ragion pura,
i veementi affetti
soli potean destar le menti pigre,
onde credean che ’n lor pensasse il core.
Ed in quella che puoi
dir fanciullezza de l’umanitade
soli i sensi regnando e, perché soli,
ad imprimer robusti
ne l’umano pensiero
le imagini qual mai piú vive e grandi,

325 ―

e da la povertá de le parole
nata necessitá farne trasporti,
nata necessitá farne raggiri,
o mancando i raggiri e gli trasporti,
da evidenti cagioni o effetti insigni
o dalle loro piú cospicue parti
o d’altre cose piú ovvie ed usate,
co’ paragoni o simiglianze illustri
o co’ vividi aggiunti o molto noti,
s’ingegnâro a mostrar le cose istesse
con note propie de le lor nature,
che i caratteri fûr de’ primi eroi,
ch’eran veri poeti per natura
che lor formò poetica la mente,
e sí formò poetica la lingua;
ond’essi ritrovâr certe favelle,
che voglion dire favole minute
dettate in canto con misure incerte,
ed i veri parlari o lingue vere
gli uomin dianzi divisi unîro in genti
e le genti divise unîro a Giove,
ond’è il mio sommo Giove eguale a tutti;
e tal fu detto favellare eterno
degli uomini, de’ dèi, de la natura,
onde nefandi son, né mai pòn dirsi
ch’era in lor favellar, non mai pòn farsi
le madri mogli ed i figliuoi mariti.
E sí la forza de’ bisogni umani
e la necessitá scovrirgli altrui
e la gran povertá de le parole
e la virtú del ver comune a tutti,
che mostrò l’utiltade a tutti uguale,
destâro unite il tuo divin furore,
di che pieni que’ primi eroi poeti,
de’ quai fêro tra lor le greche genti
famosi personaggi o comun nomi

326 ―

celebri, Orfeo e Lino ed Anfione,
che coi lor primi carmi o prime leggi
primi sbandîro da le genti umane
ogni venere incerta e incestuosa;
e venne in sommo credito il mio nume,
ond’io presiedo a le solenni nozze,
le quai fêro solenni i divi auspíci
presi del ciel ne la piú bassa parte,
perché Giove piú sú balena a l’etra
fin dove osa volar l’aquila ardita.
E perché son le certe nozze e giuste
le prime basi degl’imperi e regni,
Giove egli è ’l re degli uomini e de’ dèi,
a cui ’l fulmine l’aquila ministra,
l’aquila assisa a’ regi scettri in terra
e del romano impero
alto nume guerriero;
ed io, di Giove alta sorella e moglie,
sí fastosa passeggio in ciel regina
e coi comandi d’aspre e dure imprese,
quante Alcide se ’l sa, pruovo gli eroi.
Questi tutti son tuoi gran benefíci,
de’ quali eterne grazie io ti professo.
Però, canoro dio,
per la tua Dafne, volentier sopporta
che la gran coppia de’ ben lieti sposi
non t’invídi Parnaso e ’l sacro coro,
ché quest’alma cittade,
fino da’ primi tempi degli eroi
patria de le sirene,
perpetuo albergo d’assai nobil ozio,
nutrí sempre nel sen muse immortali,
e pruove te ne fan troppo onorate
i Torquati, gli Stazi ed i Maroni.
Ma tu taci modesto or le tue pompe,
ma io grata, anzi giusta, or te l’addito;

327 ―

né a scernergli me ’l niega
con l’ombre sue la notte,
la qual, col nostro qui disceso lume
onde tu vai vie piú degli altri adorno,
vince qual mai piú luminoso giorno.
Colá stretti uniti insieme
vedo il rigido Capassi
col mellifluo Cirillo.
De le genti egli maggiori
quegli è ’l mio dotto Lucina,
con cui va fido compagno
il sempre vivo,
sempre spiegato,
sempre evidente,
Galizia nostro.
V’ha l’analitico
chiaro Giacinto;
e a chi il cognome,
provido il cielo,
diede d’Ippolito,
il cui costume
al casto stile
avea di questi
serbato il cielo.
Quegli, se rompe
cert’aspri fati,
sará ’l Marcello 52
d’un’altra Roma.
V’è pur colui
a cui nascendo
col caso volle
scherzare il fato,
e di Poeta

328 ―

diègli il cognome.
Quegli è l’Egizi,
ch’a lento piè
e con pia mano
cogliendo va
dotte reliquie
d’antichitá.
E, a quello unito,
d’un che s’asconde
agli altri tutti,
il qual tu, Febo,
spesso e ben vedi,
esce un bel nome,
che chiaro a tutti
suona Manfredi.
Stavvi ’l Rossi 53 meditante
alta impresa presso Dante:
una dolce e glorïosa
lá verdeggia nobil Palma;
e v’è un Dattilo sublime.
Ivi ’l Buoncore
coltiva l’erbe
di cui gli apristi
tu le virtudi;
e lá ’l Perotti
con nobil cura
e’ sta rimando
l’egra natura.
A le cose alte e divine
indi s’erge e spiega il volo
il gentil dolce Spagnolo.
Quei ch’è ’n sé tutto raccolto

329 ―

entro sua virtude involto
è ’l buon Sersale,
sempre a sé uguale;
e quell’altro egli è il Salerno,
in cui parlano i pensieri.
Quegli è ’l Luna54, dal cui frale
or la mente batte l’ale
su del ciel per l’alte chiostre
a spïar le stelle nostre.
Quello, al cui destro
omero aurata
pende una lira,
sembra un romano
Nobilïone;
e v’ha quel che la fortuna,
non giá il merto, il fa Tristano.
Ve’ ’l Valletta, l’onore
del suo nobil museo;
anche ’l Cesare ornato
del bel fiore di Torquato;
il leggiadro Cestari,
il Gennaio festivo,
il Viscini venusto,
pur l’adorno Corcioni,
il Forlosia dolciato
di mèl che timo odora,
il Mattei che valore
ha del nome maggiore,
e con atti modesti
l’amabil Vanalesti,
e ’l de’ tuoi sacri studi
vago Salernitano,

330 ―

e ’l di te acceso Puoti,
altro Rossi splendente
quanto l’ostro di Tiro.
Ma que’ che lieta accoglie
la Sirena sul lito,
l’un cui par che ’l petto aneli
ed a un tempo stesso gieli
tutto e bagni di sudore
sol la fronte, è ’l Metastasi,
pien del tuo divin furore,
a cui serve or senno ed arte;
l’altro è ’l Marmi teneruzzo.
Venuti anche tra questi
son da l’Attica tosca
in bel drappel ristretti,
bei tuoi pregi e diletti,
cento gentili spirti,
cinti di lauri e mirti.
È con questi il gran Salvini,
il qual presso al nobil Arno
è un’intera e pura e dotta
gran colonïa d’Atene,
che comanda a cento lingue
ed un gran piacer dimostra
d’ascoltar l’origin nostra.
Per onorar tanti pregiati ingegni,
ch’a nozze tanto illustri or fanno onore,
mastro divin de l’armonia civile,
che tu accordasti con le prime leggi,
e, perché son le leggi
mente d’affetti scevra
la qual qui scende agli uomini dal cielo,
le leggi poi stimate don del cielo
mastro ti fêr de l’armonia celeste;
ágiati al seno omai cotesta cetra,
c’hai finor tócco assiso agiata in grembo,

331 ―

e col piú vago e piú leggiadro vezzo
esci a danzare, o dotto Apollo, in mezzo.
        Tempra, Febo, l’aurea lira
    a’ bei numeri del piè,
    qual s’arretra o inoltra o gira
    o pur salto in aria die’.
        Di tua cetra il dolce suono
    l’aspre fère raddolcí,
    e di tua bell’arte è dono,
    perché l’uom s’ingentilí.
        Sí la venere ferina
    da le terre Orfeo fugò,
    e la cetra sua divina
    poscia ornata di stelle in ciel volò.
    Non ti mostrar sí schiva
e ritrosa, Dïana;
è sí ben la tua vita,
vita degna di nume,
menar l’etade eternamente casta
d’ogni viril contatto;
talché le sante membra
né men tocchi col guardo uomo giammai,
come pur d’Atteon, che n’ebbe ardire,
tu giá facesti aspra vendetta al fonte;
ma, se pur mai seguisse ogni donzella
i tuoi pudici studi,
non aresti or, o dea, chi t’offrirebbe
e vittime ed incensi in sugli altari.
Però Giove, che ’l regno
sopra ’l gener umano a noi conserva
onde ’l regno ben ha sopra di noi,
egli siegue un piacer dal tuo tutt’altro:
piacer che gli produce
ne l’ordine de’ dèi il nome augusto,
che ’l dal giovar creando è detto Giove,
che dal profondo nero sen del Cao

332 ―

trae fuor le cose in questa bella luce
sotto le varie lor forme infinite
de le quali fornisce e adorna il mondo,
e da tale suo studio
«padri» voi dèi, «madri» noi dèe siam dette.
E quindi avvien che, come Giove abborre
la rea confusïon de’ semi tutti,
che poi dissero «Cao» color che sanno,
cosí odia e detesta
la rea confusïon de’ semi umani,
che prima disser «Cao» le rozze genti.
Intendi, intendi pure
l’alte leggi del fato;
tu t’innalzasti in cielo,
perché Giove con teco e gli altri numi
serbasse in terra le virtú civili,
che pòn sole serbar la spezie umana:
ei comanda le nozze,
che madri son de le virtú civili,
ond’io, moglie di Giove,
le fo certi e solenni,
Venere, dolci, e tu le fai pudiche,
e ’n carmi ne dettò le leggi Apollo;
onde Imeneo sul Pindo a lui sacrato
nacque d’Urania che contempla il cielo,
e l’educâro le sue sacre muse,
che cotesta, che tu pregi cotanto,
eterna castitá vantano anch’elle.
Deh mira adunque,
deh mira intorno
con ciglio grato
tante matrone,
fide custodi
de l’alto sangue
di tante illustri
chiare famiglie,

333 ―

tra’ quai torreggia
la bella madre
del vago sposo55.
Né creder tutte
le tue seguaci
ch’abbiano in core
quel c’hanno in viso.
Vener te ’l dica
quai caldi voti
pur d’esse alcune
l’offron secreti.
Però non isdegnare
ch’eschi meco a danzare.
        In quest’aria vergognosa
    sí ti voglio, o casta diva,
    e mi piaci cosí schiva,
    che mi sembri tu la sposa.
        Come ben la castitade
    fa piú bella la bellezza!
    Prende piú che gentilezza
    un’amabile onestade.
        Cosí ’nsegna il tuo diletto
    ad amare e riverire;
    e cosí convien covrire,
    bella sposa, l’ardor che nutri in petto.
    Ma tu non tutta spieghi,
Marte, qui la tua fronte,
la qual sembra turbar cruccio importuno,
forse perché non tosto dopo Giove
e, se bene m’appongo, innanzi Giove,
io t’inchinai ch’uscissi a danzar meco?
In questa diva festa
celebrata in Italia, ognor feconda

334 ―

madre di saggi, prodi, invitti duci,
ne la cittá che sovra l’altre in grido
il publico inalzò genio guerriero,
per queste liete nozze
e d’una nobil sposa
il cui gran genitore
per raro valor d’arme è assai ben chiaro56,
e d’un sposo gentile,
il cui gran zio, che puoi tu dir gran padre,
nel mestiere de l’armi è assai ben noto57.

Mel. Id nempe ostendunt oris miracula nostris,
quod nostri rector veniat de sanguine divûm?
Iccirco alma Ceres tam laetas reddere messes
dignata? et Pomona refert tot munera ramis?
et Bacchus vites onerat praedulcibus uvis?

Dam. Quid dubitas? Redeant nobis saturnia regna,
iustitia atque pudor, sanctae pietasque fidesque,
nos ubi vir talis laetos tantusque gubernet,
cui divos atavos saturnia protulit aetas.

Mel. Quin spero; idque iubent et nomina et omina tanta.

Dam. Cras igitur prima quum Phoebus lampade terras
lustrabit, croceum madidumque cubile relinquens,
casti adeamus summi Panis templa biformis:
illius ac festa fronde exornabimus aras;
illius ante aras teneros mactabimus agnos.

358 ―

VI
1. — Di Agnello Spagnuolo al Vico

Per le nozze del duca di Canzano Andrea Coppola
con Laura Caracciolo dei marchesi dell’Amoroso (1725).

2. — Risposta del Vico

Spagnol pregiato, il nostro afflitto ingegno,
ch’a spïare si die’ l’antico vero
nel dritto d’ogni etá, d’ogni emispero,
che mi feo di tua laude ed onor degno;
    giá riportato ha ’l bel premio condegno
contro d’invidia il nero dente e fèro,
e ha fatto del lavoro il pregio intero,
incontro a cui e l’oro e l’ostro è indegno.
    Ma tu co’ bei pensier sublimi e rari,
che formi su disegno in ciel perfetto,
u’ vita meni in un divino stato,
    in tue rime ben culte adorna i chiari
sposi, e ’l gran padre, ché regal subietto
niegò a la nostra egra umil musa il fato.

359 ―

VII
1. — Di Roberto Sostegni al Vico

Per le stesse nozze.

2. — Risposta del Vico

A’miei sudor il ciel non temprò ingiuste
le leggi, se tal loda or ce ne rendi,
spirto gentil, che ’l mio nome raccendi
tra le dens’ombre de l’etá vetuste.
    Tu c’hai d’uom vero ambe le parti onuste,
poi ch’i desiri al primo Bene accendi
e i pensier dal disegno eterno prendi
che rado scende in nostre menti anguste,
    e tien del cuor di Febo ambe le chiavi,
de’ chiari sposi sui gran nomi in carte
tutto ben puoi versare il sacro fiume.
    Lascia pur me, da meste cure e gravi
ristretto in me medesmo, ire in disparte
con fievol canto e con dimesse piume.

360 ―

VIII
A Roberto Sostegni
Per la morte di Angela Cimmino marchesa della Petrella (1727).

Tornò al ciel la gran donna e saggia e forte,
che sol volle mostrarla al cieco mondo
mentre dal proprio abisso atro, profondo
crolla tra scosse di capriccio e sorte.
    Poiché ha le somme laudi or tutte assorte
de l’adulare altrui vil vezzo immondo,
quai via gittate senza scelta e pondo
son di virtude atro veneno e morte;
    questa di lei dirò picciola parte:
l’aura mancò, che m’innalzava al cielo,
Sostegni mio, per farmi a lei dappresso.
    Giaccion l’opre d’ingegno a terra sparte,
d’atra nebbia mi preme il terren velo,
fatto, non che ad altr’uom, grave a me stesso.

361 ―

2. — Risposta del Vico

Garzon sublime e pien d’animo grande,
che poche carte far questa etá d’oro
estimi e, come Circi altre, quai fôro
sopra il vulgo mostrar forze ammirande!
    Col tuon Giove forzò l’uom da le ghiande
ad ammirare il suo divin lavoro,
ché sugl’ingegni e le vaghezze loro
sol può chi ’l poter suo per tutto spande.
    Il divo Augusto perché ad onorarlo
Roma ebbe l’oceáno e ’l ciel confini,
chiaro feo da per tutto il padovano.
    Ah, dir non puoi: — Son pronti ad essaltarlo, —
perché l’autor, poi che scovrí la mano,
e’ si nascose a’ popoli vicini.

362 ―

2. — Risposta del Vico

Spirto gentil chiama mia gloria e vanto
d’invide menti vil freddo stupore,
che di ciò ch’io coltivo e ’nnaffio e pianto,
sullo spuntar aduggia ogni valore;
    né virtú d’erbe o d’apollineo canto
lor val punto a destar senso d’onore,
ché di sé spargon morte ed oblio tanto
per oscurar l’altrui lustro e chiarore.
    E si smarrisca l’erto aspro sentiero
de l’opre eccelse; senza scorta e duce,
chi stampar mai vi voglia orme divine?
    Ma tu con tua benigna e chiara luce
colá mi scorgi, e splenderonne altero
su le sagre di Pindo alte colline.

363 ―

2. — Risposta del Vico

Contro un meschino il Fato armossi, e ’n lui
sue cieche rabbie in altri unqua disperse
unío, e di venen atro il coverse
nel corpo e i sensi, egri suggetti sui.
    Ma Provvedenza, che suggette altrui
le sue menti non mai volle o sofferse,
quindi il menò per vie tutte diverse
a scovrir com’ell’abbia il regno in nui;
    e i fin spiegò di sue mirabil opre
sopra le genti, u’ tutta ferve ed arde,
ch’entro a’ ciechi suo’ abissi asconde e copre.
    E per tue laudi andrá giá fatto antico,
Pirelli, all’altre etá lontane e tarde
chiaro, in sua vita l’infelice Vico.

364 ―

2. — Risposta del Vico

Il cieco insano vulgo estima uom saggio
chi tra la turba sa mirar sé solo,
e sé inalzando da vil stato a volo,
corse mai di fortuna un gran vïaggio.
    Poiché nullo mi die’ di tal vantaggio,
la pietosa mia patria onoro e colo,
e traggo da mia sorte alto consuolo
che, perch’io giovo altrui, luogo non v’aggio.
    Severa madre non vezzeggia in seno
figlio, che ne fia poscia oscura e vile,
ma grave in viso ancor l’ode e rimira.
    Sí ’l mio fral, messo di ragione in freno,
la Provvedenza benedice e ammira,
ch’or mi fa degno di vostr’alto stile.

XIII
Per le nozze
del marchese di Casalbore Tommaso Caracciolo
con Ippolita di Dura dei duchi d’Erce (1731).

Bench’io mi veggia da quel fato oppresso
che l’ingiust’odio altrui creò sovente
e affatto lungi dalla molta gente
viva, che appena me trovi in me stesso;
    poiché il raro valor dal ciel concesso
a voi, bell’alme, unisce amor possente,
al pubblico piacer mio spirto sente
disio di riveder l’alto Permesso,
    e cantar lieto in dilettosa schiera
vostro nodo real, gli onor degli avi,
e svelar que’ futuri invitti germi.
    Poi ricaggio in me stesso e, da mie gravi
cure sospinto a tornar lá dov’era,
di me, non per mia colpa, ho da dolermi.

365 ―

XIV
A Gaetano Brancone

Per le nozze del principe di Sansevero Raimondo di Sangro con Carlotta Gaetani dei duchi di Laurenzana (1735).

Né corone né ostro o gemme ed auro
giamai mi ponno, o mio Brancon gentile,
rimenar il mio giá caduto aprile,
né qual serpe di nuovo al sol m’innauro.
    Hammi in Pindo aduggiato il verde lauro
ínvida nebbia, a rio tòsco simíle;
da la tremante man cade lo stile
e de’ pensier si è chiuso il mio tesauro.
    Ove manca natura, inferma è l’arte,
perché l’ingegno è ’l gran padre felice
di bell’opre ammirande, eccelse e chiare.
    A te, cui Febo ispira e nuove e rare
forme di laudi, d’allogar ben lice
la gran coppia da tutt’altre in disparte.

XV
Alla duchessa d’Erce Isabella Pignone del Carretto

Donna gentil, tra noi dal ciel discesa
per innalzar al ciel nostri desiri
e contemplar entro gli eterni giri
la bella idea, donde voi foste presa;
    se avversa sorte, al mio mal sempre intesa,
con piú venti crudel d’egri sospiri
non agitasse in mar d’aspri martíri
mia stanca nave combattuta e offesa;
    da tal subbietto qual alta immortale
verrebbe lode al mio non culto stile,
cantando in parte i vostri eccelsi pregi!
    Poiché manca l’ingegno a’ sforzi egregi,
resta il pensiero che v’inchini umíle
e onor vi faccia a le mie forze uguale.

366 ―

XVI
A Ferdinando Carafa
dei principi di Belvedere
autore del poema La santa fede, dedicato al conte di Santostefano
aio di re Carlo di Borbone.

Del fier, perduto mondo i primi vati,
che col vano timor di falsi numi
l’insegnâro civil leggi e costumi,
teologi fûr detti e celebrati.
    Tu, buon Fernando, con bei carmi ornati
di fé nostra spiegando i veri lumi,
non di Elicona ci fai nascer fiumi,
ma perenni dal ciel fonti beati,
    che ben consagri al gran Chirone ispano,
che ’l regal giovinetto eroe Borbone
casto formò, religïoso e pio;
    il cui esemplo è a’ soggetti acuto sprone
di coltivare un viver sovraumano
per amor dell’immenso ottimo Dio.