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Giambattista Vico: Opere
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IV-2: La Scienza Nuova (II) (giusta l'edizione del 1744)
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Principj di Scienza Nuova

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LIBRO TERZO della discoverta del vero Omero

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[SEZIONE PRIMA] [Ricerca del vero Omero]


[Introduzione]

[780] Quantunque la sapienza poetica, nel libro precedente giá dimostrata essere stata la sapienza volgare de’ popoli della Grecia, prima poeti teologi e poscia eroici, debba ella portare di séguito necessario che la sapienza d’Omero non sia stata di spezie punto diversa; però, perché Platone ne lasciò troppo altamente impressa l’oppenione che fusse egli fornito di sublime sapienza riposta (onde l’hanno seguíto a tutta voga tutti gli altri filosofi, e sopra gli altri Plutarco ne ha lavorato un intiero libro), noi qui particolarmente ci daremo ad esaminare se Omero mai fusse stato filosofo; sul qual dubbio scrisse un altro intiero libro Dionigi Longino, il quale da Diogene Laerzio nella Vita di Pirrone sta mentovato.

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[Capitolo Primo]
Della sapienza riposta c’hanno oppinato d’Omero

[781] Perché gli si conceda pure ciò che certamente deelesi dare, ch’Omero dovette andare a seconda de’ sensi tutti volgari, e perciò de’ volgari costumi della Grecia, a’ suoi tempi barbara, perché tali sensi volgari e tai volgari costumi dánno le propie materie a’ poeti. E perciò gli si conceda quello che narra: — estimarsi gli dèi dalla forza, — come dalla somma sua forza Giove vuol dimostrare, nella favola della gran catena, ch’esso sia lo re degli uomini e degli dèi, come si è sopra osservato; sulla qual volgar oppenione fa credibile che Diomede ferisce Venere e Marte con l’aiuto portatogli da Minerva, la quale, nella contesa degli dèi, e spoglia Venere e percuote Marte con un colpo di sasso (tanto Minerva nella volgar credenza era dea della filosofia! e sí ben usa armadura degna della sapienza di Giove!). Gli si conceda narrare il costume immanissimo (il cui contrario gli autori del diritto natural delle genti vogliono essere stato eterno tralle nazioni), che pur allora correva tralle barbarissime genti greche (le quali si è creduto avere sparso l’umanitá per lo mondo), di avvelenar le saette (onde Ulisse per ciò va in Efira, per ritruovarvi le velenose erbe) e di non seppellire i nimici uccisi in battaglia, ma lasciargli inseppolti per pasto de’ corvi e cani (onde tanto costò all’infelice Priamo il riscatto del cadavero di Ettorre da Achille, che, pure nudo, legato al suo carro, l’aveva tre giorni strascinato d’intorno alle mura di Troia).

[782] Però, essendo il fine della poesia d’addimesticare la ferocia del volgo, del quale sono maestri i poeti, non era d’uom saggio di tai sensi e costumi cotanto fieri destar nel volgo la maraviglia per dilettarsene, e col diletto confermargli vieppiú. Non era d’uom saggio al volgo villano destar piacere delle

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villanie degli dèi nonché degli eroi, come, nella contesa, si legge che Marte ingiuria «mosca canina» a Minerva, Minerva dá un pugno a Diana, Achille ed Agamennone, uno il massimo de’ greci eroi, l’altro il principe della greca lega, entrambi re, s’ingiuriano l’un l’altro «cani», ch’appena ora direbbesi da’ servidori nelle commedie.

[783] Ma, per Dio! qual nome piú propio che di «stoltezza» merita la sapienza del suo capitano Agamennone, il quale dev’essere costretto da Achille a far suo dovere di restituire Criseide a Crise, di lei padre, sacerdote d’Apollo, il qual dio per tal rapina faceva scempio dell’esercito greco con una crudelissima pestilenza? e, stimando d’esservi in ciò andato del punto suo, credette rimettersi in onore con usar una giustizia ch’andasse di séguito a sí fatta sapienza, e toglier a torto Briseide ad Achille, il qual portava seco i fati di Troia, acciocché, disgustato dipartendosi con le sue genti e con le sue navi, Ettorre facesse il resto de’ greci ch’erano dalla peste campati? Ecco l’Omero finor creduto ordinatore della greca polizia o sia civiltá, che da tal fatto incomincia il filo con cui tesse tutta l’Iliade, i cui principali personaggi sono un tal capitano ed un tal eroe, quale noi facemmo vedere Achille ove ragionammo dell’Eroismo de’ primi popoli! Ecco l’Omero innarrivabile nel fingere i caratteri poetici, come qui dentro il farem vedere, de’ quali gli piú grandi sono tanto sconvenevoli in questa nostra umana civil natura! Ma eglino sono decorosissimi in rapporto alla natura eroica, come si è sopra detto, de’ puntigliosi.

[784] Che dobbiam poi dire di quello che narra: i suoi eroi cotanto dilettarsi del vino, e, ove sono afflittissimi d’animo, porre tutto il lor conforto, e sopra tutti il saggio Ulisse, in ubbriacarsi? Precetti invero di consolazione, degnissimi di filosofo!

[785] Fanno risentire lo Scaligero quasi tutte le comparazioni prese dalle fiere e da altre selvagge cose. Ma concedasi ciò essere stato necessario ad Omero per farsi meglio intendere dal volgo fiero e selvaggio: però cotanto riuscirvi, che tali comparazioni sono incomparabili, non è certamente d’ingegno addimesticato

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ed incivilito da alcuna filosofia. Né da un animo da alcuna filosofia umanato ed impietosito potrebbe nascer quella truculenza e fierezza di stile, con cui descrive tante, sí varie e sanguinose battaglie, tante, sí diverse e tutte in istravaganti guise crudelissime spezie d’ammazzamenti, che particolarmente fanno tutta la sublimitá dell’Iliade.

[786] La costanza poi, che si stabilisce e si ferma con lo studio della sapienza de’ filosofi, non poteva fingere gli dèi e gli eroi cotanto leggieri, ch’altri ad ogni picciolo motivo di contraria ragione, quantunque commossi e turbati, s’acquetano e si tranquillano; — altri nel bollore di violentissime collere, in rimembrando cosa lagrimevole, si dileguano in amarissimi pianti (appunto come nella ritornata barbarie d’Italia — nel fin della quale provenne Dante, il toscano Omero, che pure non cantò altro che istorie — si legge che Cola di Rienzo — la cui Vita dicemmo sopra esprimer al vivo i costumi degli eroi di Grecia, che narra Omero, — mentre mentova l’infelice stato romano oppresso da’ potenti in quel tempo, esso e coloro, appo i quali ragiona, prorompono in dirottissime lagrime); — al contrario altri, da sommo dolor afflitti, in presentandosi loro cose liete, come al saggio Ulisse la cena da Alcinoo, si dimenticano affatto de’ guai e tutti si sciogliono in allegria; — altri, tutti riposati e quieti, ad un innocente detto d’altrui che lor non vada all’umore, si risentono cotanto e montano in sí cieca collera, che minacciano presente atroce morte a chi ’l disse. Come quel fatto d’Achille, che riceve alla sua tenda Priamo (il quale di notte, con la scorta di Mercurio, per mezzo al campo de’ greci, era venuto tutto solo da essolui per riscattar il cadavero, com’altra volta abbiam detto, di Ettorre), l’ammette a cenar seco; e, per un sol detto il quale non gli va a seconda, ch’all’infelicissimo padre cadde innavvedutamente di bocca per la pietá d’un sí valoroso figliuolo, — dimenticato delle santissime leggi dell’ospitalitá; non rattenuto dalla fede onde Priamo era venuto tutto solo da essolui, perché confidava tutto in lui solo; nulla commosso dalle molte e gravi miserie di un tal re, nulla dalla pietá di tal padre, nulla dalla venerazione

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d’un tanto vecchio; nulla riflettendo alla fortuna comune, della quale non vi ha cosa che piú vaglia a muover compatimento; — montato in una collera bestiale, gl’intuona sopra «volergli mozzar la testa»! Nello stesso tempo ch’empiamente ostinato di non rimettere una privata offesa fattagli da Agamennone (la quale, benché stata fuss’ella grave, non era giusto di vendicare con la rovina della patria e di tutta la sua nazione), si compiace, chi porta seco i fati di Troia, che vadano in rovina tutti i greci, battuti miseramente da Ettorre; né pietá di patria, né gloria di nazione il muovono a portar loro soccorso, il quale non porta finalmente che per soddisfare un suo privato dolore, d’aver Ettorre ucciso il suo Patroclo! E della Briseide toltagli nemmeno morto si placa, senonsé l’infelice bellissima real donzella Polissena, della rovinata casa del poc’anzi ricco e potente Priamo, divenuta misera schiava, fusse sagrificata innanzi al di lui sepolcro, e le di lui ceneri, assetate di vendetta, non insuppasse dell’ultima sua goccia di sangue! Per tacer affatto di quello che non può intendersi: ch’avesse gravitá ed acconcezza di pensar da filosofo chi si trattenesse in truovare tante favole di vecchiarelle da trattener i fanciulli, di quante Omero affollò l’altro poema dell’Odissea.

[787] Tali costumi rozzi, villani, feroci, fieri, mobili, irragionevoli o irragionevolmente ostinati, leggieri e sciocchi, quali nel libro secondo dimostrammo ne’ Corollari della natura eroica, non posson essere che d’uomini per debolezza di menti quasi fanciulli, per robustezza di fantasia come di femmine, per bollore di passioni come di violentissimi giovani; onde hassene a niegar ad Omero ogni sapienza riposta. Le quali cose qui ragionate sono materie per le quali incomincian ad uscir i dubbi che ci pongono nella necessitá per la ricerca del vero Omero.

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[Capitolo Secondo]
Della patria d’Omero

[788] Tal fu la sapienza riposta finor creduta d’Omero; ora vediamo della patria. Per la quale contesero quasi tutte le cittá della Grecia, anzi non mancarono di coloro che ’l vollero greco d’Italia, e per determinarla Leone Allacci (De patria Homeri) invano vi s’affatica. Ma, perché non ci è giunto scrittore che sia piú antico d’Omero, come risolutamente il sostiene Giuseffo contro Appione gramatico, e gli scrittori vennero per lunga etá dopo lui, siamo necessitati con la nostra critica metafisica, come sopra un autore di nazione, qual egli è stato tenuto di quella di Grecia, di ritruovarne il vero, e della etá e della patria, da esso Omero medesimo.

[789] Certamente, di Omero autore dell’Odissea siamo assicurati essere stato dell’occidente di Grecia verso mezzodí da quel luogo d’oro dove Alcinoo, re de’ feaci (ora Corfú) ad Ulisse, che vuol partire, offerisce una ben corredata nave de’ suoi vassalli, i quali dice essere spertissimi marinai, che ’l porterebbero, se bisognasse, fin in Eubea (or Negroponto), la quale, coloro ch’avevano per fortuna veduto, dicevano essere lontanissima, come se fusse l’ultima Tule del mondo greco. Dal qual luogo si dimostra con evidenza Omero dell’Odissea essere stato altro da quello che fu autor dell’Iliade; perocché Eubea non era molto lontana da Troia, ch’era posta nell’Asia lungo la riviera dell’Ellesponto, nel cui angustissimo stretto son ora due fortezze che chiamano Dardanelli, e fin al dí d’oggi conservano l’origine della voce «Dardania», che fu l’antico territorio di Troia. E certamente appo Seneca si ha essere stata celebre quistione tra’ greci gramatici: se l’Iliade e l’Odissea fussero d’un medesimo autore.

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[790] La contesa delle greche cittá per l’onore d’aver ciascuna Omero suo cittadino, ella provenne perché quasi ogniuna osservava ne’ di lui poemi e voci e frasi e dialetti ch’eran volgari di ciascheduna.

[791] Lo che qui detto serve per la discoverta del vero Omero.

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[Capitolo Terzo]
Dell’etá d’Omero

[792] Ci assicurano dell’etá d’Omero le seguenti autoritá de’ di lui poemi:

i

[793] Achille ne’ funerali di Patroclo dá a vedere quasi tutte le spezie de’ giuochi, che poi negli olimpici celebrò la coltissima Grecia.

ii

[794] Eransi giá ritruovate l’arti di fondere in bassirilievi, d’intagliar in metalli, come, fralle altre cose, si dimostra con lo scudo d’Achille ch’abbiamo sopra osservato. La pittura non erasi ancor truovata. Perché la fonderia astrae le superficie con qualche rilevatezza, l’intagliatura fa lo stesso con qualche profonditá; ma la pittura astrae le superficie assolute, ch’è difficilissimo lavoro d’ingegno. Onde né Omero né Mosè mentovano cose dipinte giammai: argomento della loro antichitá.

iii

[795] Le delizie de’ giardini d’Alcinoo, la magnificenza della sua reggia e la lautezza delle sue cene ci appruovano che giá i greci ammiravano lusso e fasto.

iv

[796] I fenici giá portavano nelle greche marine avolio, porpora, incenso arabico, di che odora la grotta di Venere; oltracciò, bisso piú sottile della secca membrana d’una cipolla, vesti

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ricamate, e, tra’ doni de’ proci, una da rigalarsi a Penelope, che reggeva sopra una macchina cosí di dilicate molle contesta, che ne’ luoghi spaziosi la dilargassero, e l’assettassero negli angusti. Ritruovato degno della mollezza de’ nostri tempi!

v

[797] Il cocchio di Priamo, con cui si porta ad Achille, fatto di cedro, e l’antro di Calipso ne odora ancor di profumi, il qual è un buon gusto de’ sensi, che non intese il piacer romano quando piú infuriava a disperdere le sostanze nel lusso sotto i Neroni e gli Eliogabali.

vi

[798] Si descrivono dilicatissimi bagni appo Circe.

vii

[799] I servetti de’ proci, belli, leggiadri e di chiome bionde, quali appunto si vogliono nell’amenitá de’ nostri costumi presenti.

viii

[800] Gli uomini come femmine curano la zazzera; lo che Ettorre e Diomede rinfacciano a Paride effemminato.

ix

[801] E, quantunque egli narri i suoi eroi sempre cibarsi di carni arroste, il qual cibo è ’l piú semplice e schietto di tutti gli altri, perché non ha d’altro bisogno che delle brace: il qual costume restò dopo ne’ sagrifizi, e ne restarono a’ romani dette «prosiicia» le carni delle vittime arroste sopra gli altari, che poi si tagliavano per dividersi a’ convitati, quantunque poscia si arrostirono, come le profane, con gli schidoni. Ond’è che Achille, ove dá la cena a Priamo, esso fende l’agnello e

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Patroclo poi l’arroste, apparecchia la mensa e vi pone sopra il pane dentro i canestri; perché gli eroi non celebravano banchetti che non fussero sagrifizi, dov’essi dovevan esser i sacerdoti. E ne restarono a’ latini «epulae», ch’erano lauti banchetti e, per lo piú, che celebravano i grandi; ed «epulum», che dal pubblico si dava al popolo, e la «cena sagra», in cui banchettavano i sacerdoti detti «epulones». Perciò Agamennone esso uccide i due agnelli, col qual sagrifizio consagra i patti della guerra con Priamo. Tanto allora era magnifica cotal idea, ch’ora ci sembra essere di beccaio! Appresso dovettero venire le carni allesse, ch’oltre al fuoco hanno di bisogno dell’acqua, del caldaio e, con ciò, del treppiedi; delle quali Virgilio fa anco cibar i suoi eroi, e gli fa con gli schidoni arrostir le carni. Vennero finalmente i cibi conditi, i quali, oltre a tutte le cose che si son dette, han bisogno de’ condimenti. — Ora, per ritornar alle cene eroiche d’Omero, benché lo piú dilicato cibo de’ greci eroi egli descriva esser farina con cascio e mèle, però per due comparazioni si serve della pescagione; ed Ulisse, fintosi poverello, domandando la limosina ad un de’ proci, gli dice che gli dèi agli re ospitali, o sien caritatevoli co’ poveri viandanti, dánno i mari pescosi, o sia abbondanti di pesci, che fanno la delizia maggior delle cene.

x

[802] Finalmente (quel che piú importa al nostro proposito) Omero sembra esser venuto in tempi ch’era giá caduto in Grecia il diritto eroico e ’ncominciata a celebrarsi la libertá popolare, perché gli eroi contraggono matrimoni con istraniere e i bastardi vengono nelle successioni de’ regni. E cosí dovett’andar la bisogna, perché, lungo tempo innanzi, Ercole, tinto dal sangue del brutto centauro Nesso, e quindi uscito in furore, era morto; cioè, come si è nel libro secondo spiegato, era finito il diritto eroico.

[803] Adunque, volendo noi d’intorno all’etá d’Omero non disprezzare punto l’autoritá, per tutte queste cose osservate e

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raccolte da’ di lui poemi medesimi, e, piú che dall’Iliade, da quello dell’Odissea, che Dionigi Longino stima aver Omero essendo vecchio composto, avvaloriamo l’oppenion di coloro che ’l pongono lontanissimo dalla guerra troiana; il qual tempo corre per lo spazio di quattrocensessant’anni, che vien ad essere circa i tempi di Numa. E pure crediamo di far loro piacere in ciò, che nol poniamo a’ tempi piú a noi vicini, perché dopo i tempi di Numa dicono che Psammetico aprí a’ greci l’Egitto, i quali, per infiniti luoghi dell’Odissea particolarmente, avevano da lungo tempo aperto il commerzio nella loro Grecia a’ fenici; delle relazioni de’ quali, niente meno che delle mercatanzie, com’ora gli europei di quelle dell’Indie, eran i popoli greci giá usi di dilettarsi. Laonde convengano queste due cose: e che Omero egli non vide l’Egitto, e che narra tante cose e di Egitto e di Libia, e di Fenicia e dell’Asia, e sopra tutto d’Italia e di Sicilia, per le relazioni ch’i greci avute n’avevano da’ fenici.

[804] Ma non veggiamo se questi tanti e sí dilicati costumi ben si convengono con quanti e quali selvaggi e fieri egli nello stesso tempo narra de’ suoi eroi, e particolarmente nell’Iliade. Talché,

ne placidis coëant immitia,

sembrano tai poemi essere stati per piú etá e da piú mani lavorati e condotti.

[805] Cosí, con queste cose qui dette della patria e dell’etá del finora creduto, si avanzano i dubbi per la ricerca del vero Omero.

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[Capitolo Quarto]
Dell’innarrivabile facultá poetica eroica d’Omero

[806] Ma la niuna filosofia, che noi abbiamo sopra dimostrato d’Omero e le discoverte fatte della di lui patria ed etá, che ci pongono in un forte dubbio che non forse egli sia stato un uomo affatto volgare, troppo ci son avvalorate dalla disperata difficultá, che propone Orazio nell’Arte poetica, di potersi dopo Omero fingere caratteri, ovvero personaggi di tragedie, di getto nuovi, ond’esso a’ poeti dá quel consiglio di prenderglisi da’ poemi d’Omero. Ora cotal disperata difficultá si combini con quello: ch’i personaggi della commedia nuova son pur tutti di getto finti, anzi per una legge ateniese dovette la commedia nuova comparire ne’ teatri con personaggi tutti finti di getto; e sí felicemente i greci vi riuscirono, ch’i latini, nel loro fasto, a giudizio di Fabio Quintiliano, ne disperarono anco la competenza, dicendo: «Cum graecis de comoedia non contendimus».

[807] A tal difficultá d’Orazio aggiugniamo in piú ampia distesa quest’altre due. Delle quali una è: come Omero, ch’era venuto innanzi, fu egli tanto innimitabil poeta eroico, e la tragedia, che nacque dopo, cominciò cosí rozza, com’ogniun sa e noi piú a minuto qui appresso l’osserveremo? L’altra è: come Omero, venuto innanzi alle filosofie ed alle arti poetiche e critiche, fu egli il piú sublime di tutti gli piú sublimi poeti, quali sono gli eroici, e, dopo ritruovate le filosofie e le poetiche e critiche arti, non vi fu poeta, il quale [non] potesse che per lunghissimi spazi tenergli dietro? Ma, lasciando queste due nostre, la difficultá d’Orazio, combinata con quello ch’abbiamo detto della commedia nuova, doveva pure porre in ricerca i Patrizi, gli Scaligeri, i Castelvetri ed altri valenti maestri d’arte poetica d’investigarne la ragion della differenza.

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[808] Cotal ragione non può rifondersi altrove che nell’origine della poesia, sopra qui scoverta nella Sapienza poetica, e ’n conseguenza nella discoverta de’ caratteri poetici, ne’ quali unicamente consiste l’essenza della medesima poesia. Perché la commedia nuova propone ritratti de’ nostri presenti costumi umani, sopra i quali aveva meditato la socratica filosofia, donde dalle di lei massime generali d’intorno all’umana morale poterono i greci poeti, in quella addottrinati profondamente (quale Menandro, a petto di cui Terenzio da essi latini fu detto «Menandro dimezzato»); poterono, dico, fingersi cert’esempli luminosi di uomini d’idea, al lume e splendor de’ quali si potesse destar il volgo, il quale tanto è docile ad apprendere da’ forti esempli quanto è incapace d’apparare per massime ragionate. La commedia antica prendeva argomenti ovvero subietti veri e gli metteva in favola quali essi erano, come per una il cattivo Aristofane mise in favola il buonissimo Socrate e ’l rovinò. Ma la tragedia caccia fuori in iscena odi, sdegni, collere, vendette eroiche (ch’escano da nature sublimi, dalle quali naturalmente provengano sentimenti, parlari, azioni in genere, di ferocia, di crudezza, di atrocitá) vestiti di maraviglia; e tutte queste cose sommamente conformi tra loro ed uniformi ne’ lor subietti, i quali lavori si seppero unicamente fare da’ greci ne’ loro tempi dell’eroismo, nel fine de’ quali dovette venir Omero. Lo che con questa critica metafisica si dimostra: che le favole, le quali sul loro nascere eran uscite diritte e convenevoli, elleno ad Omero giunsero e torte e sconce; come si può osservare per tutta la Sapienza poetica sopra qui ragionata, che tutte dapprima furono vere storie, che tratto tratto s’alterarono e si corruppero, e cosí corrotte finalmente ad Omero pervennero. Ond’egli è da porsi nella terza etá de’ poeti eroici: dopo la prima, che ritruovò tali favole in uso di vere narrazioni, nella prima propia significazione della voce μῦθος, che da essi greci è diffinita «vera narrazione»; la seconda di quelli che l’alterarono e le corruppero; la terza, finalmente, d’Omero, che cosí corrotte le ricevé.

[809] Ma, per richiamarci al nostro proponimento, per la ragione

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da noi di tal effetto assegnata, Aristotile nella Poetica dice che le bugie poetiche si seppero unicamente ritruovare da Omero, perché i di lui caratteri poetici, che in una sublime acconcezza sono incomparabili, quanto Orazio gli ammira, furono generi fantastici, quali sopra si sono nella Metafisica poetica diffiniti, a’ quali i popoli greci attaccarono tutti i particolari diversi appartenenti a ciascun d’essi generi. Come ad Achille, ch’è ’l subbietto dell’Iliade, attaccarono tutte le propietá della virtú eroica e tutt’i sensi e costumi uscenti da tali propietá di natura, quali sono risentiti, puntigliosi, collerici, implacabili, violenti, ch’arrogano tutta la ragione alla forza, come appunto gli raccoglie Orazio ove ne descrive il carattere. Ad Ulisse, ch’è ’l subbietto dell’Odissea, appiccarono tutti quelli dell’eroica sapienza, cioè tutti i costumi accorti, tolleranti, dissimulati, doppi, ingannevoli, salva sempre la propietá delle parole e l’indifferenza dell’azioni, ond’altri da se stessi entrasser in errore e s’ingannassero da se stessi. E ad entrambi tali caratteri attaccarono l’azioni de’ particolari, secondo ciascun de’ due generi, piú strepitose, le qual’i greci, ancora storditi e stupidi, avessero potuto destar e muover ad avvertirle e rapportarle a’ loro generi. I quali due caratteri, avendogli formati tutta una nazione, non potevano non fingersi che naturalmente uniformi (nella quale uniformitá, convenevole al senso comune di tutta una nazione, consiste unicamente il decoro, o sia la bellezza e leggiadria d’una favola); e, perché si fingevano da fortissime immaginative, non si potevano fingere che sublimi. Di che rimasero due eterne propietá in poesia: delle quali una è che ’l sublime poetico debba sempre andar unito al popolaresco; l’altra, ch’i popoli, i quali prima si lavoraron essi i caratteri eroici, ora non avvertono a’ costumi umani altrimente che per caratteri strepitosi di luminosissimi esempli.
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[Capitolo Quinto]
Pruove filosofiche per la discoverta del vero Omero

[810] Le quali cose stando cosí, vi si combinino queste pruove filosofiche:

i

[811] Quella che si è sopra tralle Degnitá noverata: che gli uomini sono naturalmente portati a conservare le memorie degli ordini e delle leggi che gli tengono dentro le loro societá.

ii

[812] Quella veritá ch’intese Lodovico Castelvetro: che prima dovette nascere l’istoria, dopo la poesia; perché la storia è una semplice enonziazione del vero, ma la poesia è una imitazione di piú. E l’uomo, per altro acutissimo, non ne seppe far uso per rinvenire i veri princípi della poesia, col combinarvi questa pruova filosofica, che qui si pone per

iii

[813] Ch’essendo stati i poeti certamente innanzi agli storici volgari, la prima storia debba essere la poetica.

iv

[814] Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde μῦθος, la favola, fu diffinita «vera narratio», come abbiamo sopra piú volte detto); le quali nacquero dapprima per lo piú sconce, e perciò poi si resero impropie, quindi alterate, seguentemente inverisimili, appresso oscure, di lá

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scandalose, ed alla fine incredibili; che sono sette fonti della difficultá delle favole, i quali di leggieri si possono rincontrare in tutto il secondo libro.

v

[815] E, come nel medesimo libro si è dimostrato, cosí guaste e corrotte da Omero furono ricevute.

vi

[816] Che i caratteri poetici, ne’ quali consiste l’essenza delle favole, nacquero da necessitá di natura, incapace d’astrarne le forme e le propietá da’ subbietti; e, ’n conseguenza, dovett’essere maniera di pensare d’intieri popoli, che fussero stati messi dentro tal necessitá di natura, ch’è ne’ tempi della loro maggior barbarie. Delle quali è eterna propietá d’ingrandir sempre l’idee de’ particolari: di che vi ha un bel luogo d’Aristotile ne’ Libri morali, ove riflette che gli uomini di corte idee d’ogni particolare fan massime. Del qual detto dev’essere la ragione: perché la mente umana, la qual è indiffinita, essendo angustiata dalla robustezza de’ sensi, non può altrimente celebrare la sua presso che divina natura che con la fantasia ingrandir essi particolari. Onde forse, appresso i poeti greci egualmente e latini, le immagini come degli dèi cosí degli eroi compariscono sempre maggiori di quelle degli uomini; e ne’ tempi barbari ritornati le dipinture, particolarmente del Padre eterno, di Gesú Cristo, della Vergine Maria, si veggono d’una eccedente grandezza.

vii

[817] Perché i barbari mancano di riflessione, la qual, mal usata, è madre della menzogna, i primi poeti latini eroici cantaron istorie vere, cioè le guerre romane. E ne’ tempi barbari ritornati, per sí fatta natura della barbarie, gli stessi poeti latini

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non cantaron altro che istorie, come furon i Gunteri, i Guglielmi pugliesi ed altri; e i romanzieri de’ medesimi tempi credettero di scriver istorie vere: onde il Boiardo, l’Ariosto, venuti in tempi illuminati dalle filosofie, presero i subbietti de’ lor poemi dalla storia di Turpino, vescovo di Parigi. E per questa stessa natura della barbarie, la quale per difetto di riflessione non sa fingere (ond’ella è naturalmente veritiera, aperta, fida, generosa e magnanima), quantunque egli fusse dotto di altissima scienza riposta, con tutto ciò Dante nella sua Commedia spose in comparsa persone vere e rappresentò veri fatti de’ trappassati, e perciò diede al poema il titolo di «commedia», qual fu l’antica de’ greci, che, come sopra abbiam detto, poneva persone vere in favola. E Dante somigliò in questo l’Omero dell’Iliade, la quale Dionigi Longino dice essere tutta «dramatica» o sia rappresentativa, come tutta «narrativa» essere l’Odissea. E Francesco Petrarca, quantunque dottissimo, pure in latino si diede a cantare la seconda guerra cartaginese; ed in toscano, ne’ Trionfi, i quali sono di nota eroica, non fa altro che raccolta di storie. E qui nasce una luminosa pruova di ciò: che le prime favole furon istorie. Perché la satira diceva male di persone non solo vere, ma, di piú, conosciute; la tragedia prendeva per argomenti personaggi della storia poetica; la commedia antica poneva in favola chiari personaggi viventi; la commedia nuova, nata a’ tempi della piú scorta riflessione, finalmente finse personaggi tutti di getto (siccome nella lingua italiana non ritornò la commedia nuova che incominciando il secolo a maraviglia addottrinato del Cinquecento): né appo i greci né appo i latini giammai si finse di getto un personaggio che fusse il principale subbietto d’una tragedia. E ’l gusto del volgo gravemente lo ci conferma, che non vuole drami per musica, de’ quali gli argomenti son tutti tragici, se non sono presi da istorie; ed intanto sopporta gli argomenti finti nelle commedie, perché, essendo privati e perciò sconosciuti, gli crede veri.
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viii

[818] Essendo tali stati i caratteri poetici, di necessitá le loro poetiche allegorie, come si è sopra dimostro per tutta la Sapienza poetica, devon unicamente contenere significati istorici de’ primi tempi di Grecia.

ix

[819] Che tali storie si dovettero naturalmente conservare a memoria da’ comuni de’ popoli, per la prima pruova filosofica testé mentovata: che, come fanciulli delle nazioni, dovettero maravigliosamente valere nella memoria. E ciò, non senza divino provvedimento: poiché infin a’ tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di lui, non si era ritruovata ancora la scrittura volgare (come piú volte sopra si è udito da Giuseffo contro Appione), in tal umana bisogna i popoli, i quali erano quasi tutti corpo e quasi niuna riflessione, fussero tutti vivido senso in sentir i particolari, forte fantasia in apprendergli ed ingrandirgli, acuto ingegno nel rapportargli a’ loro generi fantastici, e robusta memoria nel ritenergli. Le quali facultá appartengono, egli è vero, alla mente, ma mettono le loro radici nel corpo e prendon vigore dal corpo. Onde la memoria è la stessa che la fantasia, la quale perciò «memoria» dicesi da’ latini (come appo Terenzio truovasi «memorabile» in significato di «cosa da potersi immaginare», e volgarmente «comminisci» per «fingere», ch’è propio della fantasia, ond’è «commentum», ch’è un ritruovato finto); e «fantasia» altresí prendesi per l’ingegno (come ne’ tempi barbari ritornati si disse «uomo fantastico» per significar «uomo d’ingegno», come si dice essere stato Cola di Rienzo dall’autore contemporaneo che scrisse la di lui vita). E prende tali tre differenze: ch’è memoria, mentre rimembra le cose; fantasia, mentre l’altera e contrafá; ingegno, mentre le contorna e pone in acconcezza ed assettamento. Per le quali cagioni i poeti teologi chiamarono la Memoria «madre delle muse».

21 ―

x

[820] Perciò i poeti dovetter esser i primi storici delle nazioni: ch’è quello ond’il Castelvetro non seppe far uso del suo detto per rinvenire le vere origini della poesia; ché ed esso e tutti gli altri che ne han ragionato (infino da Aristotile e da Platone) potevano facilmente avvertire che tutte le storie gentilesche hanno favolosi i princípi, come l’abbiamo nelle Degnitá proposto e nella Sapienza poetica dimostrato.

xi

[821] Che la ragion poetica determina esser impossibil cosa ch’alcuno sia e poeta e metafisico egualmente sublime, perché la metafisica astrae la mente da’ sensi, la facultá poetica dev’immergere tutta la mente ne’ sensi; la metafisica s’innalza sopra gli universali, la facultá poetica deve profondarsi dentro i particolari.

xii

[822] Che, ’n forza di quella degnitá sopra posta: — che ’n ogni facultá può riuscire con l’industria chi non vi ha la natura, ma in poesia è affatto niegato a chi non vi ha la natura di potervi riuscir con l’industria, — l’arti poetiche e l’arti critiche servono a fare colti gl’ingegni, non grandi. Perché la dilicatezza è una minuta virtú, e la grandezza naturalmente disprezza tutte le cose picciole; anzi, come grande rovinoso torrente non può far di meno di non portar seco torbide l’acque e rotolare e sassi e tronchi con la violenza del corso, cosí sono le cose vili dette, che si truovano sí spesso in Omero.

xiii

[823] Ma queste non fanno che Omero egli non sia il padre e ’l principe di tutti i sublimi poeti.

22 ―

xiv

[824] Perché udimmo Aristotile stimar innarrivabili le bugie omeriche; ch’è lo stesso che Orazio stima innimitabili i di lui caratteri.

xv

[825] Egli è infin al cielo sublime nelle sentenze poetiche, ch’abbiam dimostrato, ne’ Corollari della natura eroica nel libro secondo, dover esser concetti di passioni vere o che in forza d’un’accesa fantasia ci si facciano veramente sentire, e perciò debbon esser individuate in coloro che le sentono. Onde diffinimmo che le massime di vita, perché sono generali, sono sentenze di filosofi; e le riflessioni sopra le passioni medesime sono di falsi e freddi poeti.

xvi

[826] Le comparazioni poetiche prese da cose fiere e selvagge, quali sopra osservammo, sono incomparabili certamente in Omero.

xvii

[827] L’atrocitá delle battaglie omeriche e delle morti, come pur sopra vedemmo, fanno all’Iliade tutta la maraviglia.

xviii

[828] Ma tali sentenze, tali comparazioni, tali descrizioni pur sopra pruovammo non aver potuto essere naturali di riposato, ingentilito e mansueto filosofo.

xix

[829] Che i costumi degli eroi omerici sono di fanciulli per la leggerezza delle menti, di femmine per la robustezza della fantasia,

23 ―
di violentissimi giovani per lo fervente bollor della collera, come pur sopra si è dimostrato, e, ’n conseguenza, impossibili da un filosofo fingersi con tanta naturalezza e felicitá.

xx

[830] Che l’inezie e sconcezze sono, come pur si è qui sopra pruovato, effetti dell’infelicitá, di che avevano travagliato, nella somma povertá della loro lingua, mentre la si formavano, i popoli greci, a spiegarsi.

xxi

[831] E contengansi pure gli piú sublimi misteri della sapienza riposta, i quali abbiamo dimostrato nella Sapienza poetica non contenere certamente: come suonano, non posson essere stati concetti di mente diritta, ordinata e grave, qual a filosofo si conviene.

xxii

[832] Che la favella eroica, come si è sopra veduto nel libro secondo, nell’Origini delle lingue, fu una favella per simiglianze, immagini, comparazioni, nata da inopia di generi e di spezie, ch’abbisognano per diffinire le cose con propietá, e, ’n conseguenza, nata per necessitá di natura comune ad intieri popoli.

xxiii

[833] Che per necessitá di natura, come anco nel libro secondo si è detto, le prime nazioni parlarono in verso eroico. Nello che è anco da ammirare la provvedenza, che, nel tempo nel quale non si fussero ancor truovati i caratteri della scrittura volgare, le nazioni parlassero frattanto in versi, i quali coi metri e ritmi agevolassero lor la memoria a conservare piú facilmente le loro storie famigliari e civili.

24 ―

xxiv

[834] Che tali favole, tali sentenze, tali costumi, tal favella, tal verso si dissero tutti «eroici», e si celebrarono ne’ tempi ne’ quali la storia ci ha collocato gli eroi, com’appieno si è dimostrato sopra nella Sapienza poetica.

xxv

[835] Adunque tutte l’anzidette furono propietá d’intieri popoli e, ’n conseguenza, comuni a tutti i particolari uomini di tali popoli.

xxvi

[836] Ma noi, per essa natura, dalla quale son uscite tutte l’anzidette propietá, per le quali egli fu il massimo de’ poeti, niegammo che Omero fusse mai stato filosofo.

xxvii

[837] Altronde dimostrammo sopra nella Sapienza poetica che i sensi di sapienza riposta da’ filosofi, i quali vennero appresso, s’intrusero dentro le favole omeriche.

xxviii

[838] Ma, siccome la sapienza riposta non è che di pochi uomini particolari, cosí il solo decoro de’ caratteri poetici eroici, ne’ quali consiste tutta l’essenza delle favole eroiche, abbiamo testé veduto che non posson oggi conseguirsi da uomini dottissimi in filosofie, arti poetiche ed arti critiche. Per lo qual decoro dá Aristotile il privilegio ad Omero d’esser innarrivabili le di lui bugie; ch’è lo stesso che quello, che gli dá Orazio, d’esser innimitabili i di lui caratteri.

25 ―

[Capitolo Sesto]
Pruove filologiche per la discoverta del vero Omero

[839] Con questo gran numero di pruove filosofiche, fatte buona parte in forza della critica metafisica sopra gli autori delle nazioni gentili, nel qual numero è da porsi Omero, perocché non abbiamo certamente scrittor profano che sia piú antico di lui, come risolutamente il sostiene Giuseffo ebreo, si congiugnan ora queste pruove filologiche:

i

[840] Che tutte l’antiche storie profane hanno favolosi i princípi.

ii

[841] Che i popoli barbari, chiusi a tutte l’altre nazioni del mondo, come furono i Germani antichi e gli americani, furono ritruovati conservar in versi i princípi delle loro storie, conforme si è sopra veduto.

iii

[842] Che la storia romana si cominciò a scrivere da’ poeti.

iv

[843] Che ne’ tempi barbari ritornati i poeti latini ne scrissero l’istorie.

26 ―

v

[844] Che Maneto, pontefice massimo egizio, portò l’antichissima storia egiziaca scritta per geroglifici ad una sublime teologia naturale.

vi

[845] E nella Sapienza poetica tale dimostrammo aver fatto i greci filosofi dell’antichissima storia greca narrata per favole.

vii

[846] Onde noi sopra, nella Sapienza poetica, abbiam dovuto tenere un cammino affatto retrogrado da quello ch’aveva tenuto Maneto, e dai sensi mistici restituir alle favole i loro natii sensi storici; e la naturalezza e facilitá, senza sforzi, raggiri e contorcimenti, con che l’abbiam fatto, appruova la propietá dell’allegorie storiche che contenevano.

viii

[847] Lo che gravemente appruova ciò che Strabone in un luogo d’oro afferma: prima d’Erodoto, anzi prima d’Ecateo milesio, tutta la storia de’ popoli della Grecia essere stata scritta da’ lor poeti.

ix

[848] E noi nel libro secondo dimostrammo i primi scrittori delle nazioni cosí antiche come moderne essere stati poeti.

x

[849] Vi sono due aurei luoghi nell’Odissea, dove, volendosi acclamar ad alcuno d’aver lui narrato ben un’istoria, si dice

27 ―
averla raccónta da musico e da cantore. Che dovetter esser appunto quelli che furon i suoi rapsodi, i quali furon uomini volgari, che partitamente conservavano a memoria i libri dei poemi omerici.

xi

[850] Che Omero non lasciò scritto niuno de’ suoi poemi, come piú volte l’hacci detto risolutamente Flavio Giuseffo ebreo contro Appione, greco gramatico.

xii

[851] Ch’i rapsodi partitamente, chi uno, chi altro, andavano cantando i libri d’Omero nelle fiere e feste per le cittá della Grecia.

xiii

[852] Che dall’origini delle due voci, onde tal nome «rapsodi» è composto, erano «consarcinatori di canti», che dovettero aver raccolto non da altri certamente che da’ loro medesimi popoli: siccome ὅμηρος vogliono pur essersi detta da ὁμού,/ «simul», ed εἴρειν, «connectere», ove significa il «mallevadore», perocché leghi insieme il creditore col debitore. La qual origine è cotanto lontana e sforzata quanto è agiata e propia per significare l’Omero nostro, che fu legatore ovvero componitore di favole.

xiv

[853] Che i Pisistratidi, tiranni d’Atene, eglino divisero e disposero, o fecero dividere e disponere, i poemi d’Omero nell’Iliade e nell’Odissea: onde s’intenda quanto innanzi dovevan essere stati una confusa congerie di cose, quando è infinita la differenza che si può osservar degli stili dell’uno e dell’altro poema omerico.

28 ―

xv

[854] Che gli stessi Pisistratidi ordinarono ch’indi in poi da’ rapsodi fussero cantati nelle feste panatenaiche, come scrive Cicerone, De natura deorum, ed Eliano, in ciò seguíto dallo Scheffero.

xvi

[855] Ma i Pisistratidi furono cacciati da Atene pochi anni innanzi che lo furon i Tarquini da Roma: talché, ponendosi Omero a’ tempi di Numa, come abbiam sopra pruovato, pur dovette correre lunga etá appresso ch’i rapsodi avessero seguitato a conservar a memoria i di lui poemi. La qual tradizione toglie affatto il credito all’altra di Aristarco ch’a’ tempi de’ Pisistratidi avesse fatto cotal ripurga, divisione ed ordinamento de’ poemi d’Omero, perché ciò non si poté fare senza la scrittura volgare, e sí da indi in poi non vi era bisogno piú de’ rapsodi che gli cantassero per parti ed a mente.

xvii

[856] Talché Esiodo, che lasciò opere di sé scritte, poiché non abbiamo autoritá che da’ rapsodi fusse stato, com’Omero, conservato a memoria, e da’ cronologi, con una vanissima diligenza, è posto trent’anni innanzi d’Omero, si dee porre dopo de’ Pisistratidi. Se non pure, qual’i rapsodi omerici, tali furono i poeti ciclici, che conservarono tutta la storia favolosa de’ greci dal principio de’ loro dèi fin al ritorno d’Ulisse in Itaca. I quali poeti, dalla voce κύκλος, non poteron esser altri ch’uomini idioti che cantassero le favole a gente volgare raccolta in cerchio il dí di festa; qual cerchio è quell’appunto che Orazio nell’Arte dice «vilem patulumque orbem» che ’l Dacier punto non riman soddisfatto de’ commentatori, ch’Orazio ivi voglia dir «i lunghi episodi». E forse la ragione di punto non soddisfarsene ella è questa: perché non è necessario

29 ―
che l’episodio d’una favola, perocché sia lungo, debba ancor esser vile: come, per cagion d’esemplo, quelli delle delizie di Rinaldo con Armida nel giardino incantato e del ragionamento che fa il vecchio pastore ad Erminia sono lunghi bensí, ma pertanto non sono vili, perché l’uno è ornato, l’altro è tenue o dilicato, entrambi nobili. Ma ivi Orazio, avendo dato l’avviso a’ poeti tragici di prendersi gli argomenti da’ poemi di Omero, va incontro alla difficultá, ch’in tal guisa essi non sarebbon poeti, perché le favole sarebbero le ritruovate da Omero. Però Orazio risponde loro che le favole epiche d’Omero diverranno favole tragiche propie, se essi staranno sopra questi tre avvisi. De’ quali il primo è: se essi non ne faranno oziose parafrasi, come osserviamo tuttavia uomini leggere l’Orlando furioso o innamorato o altro romanzo in rima a’ vili e larghi cerchi di sfaccendata gente gli dí delle feste, e, recitata ciascuna stanza, spiegarla loro in prosa con piú parole; — il secondo, se non ne saranno fedeli traduttori; — il terzo ed ultimo avviso è: se finalmente non ne saranno servili imitatori, ma, seguitando i costumi ch’Omero attribuisce a’ suoi eroi, eglino da tali stessi costumi faranno uscire altri sentimenti, altri parlari, altre azioni conformi, e sí circa i medesimi subietti saranno altri poeti da Omero. Cosí nella stess’Arte lo stesso Orazio chiama «poeta ciclico» un poeta triviale e da fiera. Sí fatti autori ordinariamente si leggono detti κύκλιοι ed ἐγκύκλιοι e la loro raccolta ne fu detta κύκλος ἐπικός, κύκλια ἔπη, ποίημα ἐγκύκλικον e, senz’aggiunta alcuna, talora κύκλος, come osserva Gerardo Langbenio nella sua prefazione a Dionigi Longino. Talché di questa maniera può essere ch’Esiodo, il quale contiene tutte favole di dèi, egli fusse stato innanzi d’Omero.

xviii

[857] Per questa ragione lo stesso è da dirsi d’Ippocrate, il quale lasciò molte e grandi opere scritte non giá in verso ma in prosa, che perciò naturalmente non si potevano conservar a memoria: ond’egli è da porsi circa i tempi d’Erodoto.

30 ―

xix

[858] Per tutto ciò il Vossio troppo di buona fede ha creduto confutare Giuseffo con tre iscrizioni eroiche, una d’Anfitrione, la seconda d’Ippocoonte, la terza di Laomedonte (imposture somiglianti a quelle che fanno tuttavia i falsatori delle medaglie); e Martino Scoockio assiste a Giuseffo contro del Vossio.

xx

[859] A cui aggiugniamo che Omero non mai fa menzione di lettere greche volgari, e la lettera da Preto scritta ad Euria, insidiosa a Bellerofonte, come abbiamo altra volta sopra osservato, dice essere stata scritta per σήματα.^/

xxi

[860] Che Aristarco emendò i poemi d’Omero, i quali pure ritengono tanta varietá di dialetti, tante sconcezze di favellari, che deon essere stati vari idiotismi de’ popoli della Grecia e tante licenze eziandio di misure.

xxii

[861] Di Omero non si sa la patria, come si è sopra notato.

xxiii

[862] Quasi tutti i popoli della Grecia il vollero lor cittadino, come si è osservato pur sopra.

xxiv

[863] Sopra si son arrecate forti congetture l’Omero dell’Odissea essere stato dell’occidente di Grecia verso mezzodí, e quello dell’Iliade essere stato dell’oriente verso settentrione.

31 ―

xxv

[864] Non se ne sa nemmeno l’etá.

xxvi

[865] E l’oppenioni ne sono sí molte e cotanto varie, che ’l divario è lo spazio di quattrocensessant’anni, ponendolo, dalle sommamente opposte tra loro, una a’ tempi della guerra di Troia, l’altra verso i tempi di Numa.

xxvii

[866] Dionigi Longino, non potendo dissimulare la gran diversitá degli stili de’ due poemi, dice che Omero essendo giovine compose l’Iliade e vecchio poi l’Odissea: particolaritá invero da sapersi di chi non si seppero le due cose piú rilevanti nella storia, che sono prima il tempo e poi il luogo, delle quali ci ha lasciato al buio, ove ci narra del maggior lume di Grecia.

xxviii

[867] Lo che dee togliere tutta la fede ad Erodoto, o chi altro ne sia l’autore, nella Vita d’Omero, ove ne racconta tante belle varie minute cose, che n’empie un giusto volume; ed alla Vita che ne scrisse Plutarco, il qual, essendo filosofo, ne parlò con maggiore sobrietá.

xxix

[868] Ma forse Longino formò cotal congettura, perché Omero spiega nell’Iliade la collera e l’orgoglio d’Achille, che sono propietá di giovani, e nell’Odissea narra le doppiezze e le cautele di Ulisse, che sono costumi di vecchi.

32 ―

xxx

[869] È pur tradizione che Omero fu cieco, e dalla cecitá prese sí fatto nome, ch’in lingua ionica vuol dir «cieco».

xxxi

[870] Ed Omero stesso narra ciechi i poeti che cantano nelle cene de’ grandi, come cieco colui che canta in quella che dá Alcinoo ad Ulisse, e pur cieco l’altro che canta nella cena de’ proci.

xxxii

[871] Ed è propietá di natura umana ch’i ciechi vagliono maravigliosamente nella memoria.

xxxiii

[872] E finalmente ch’egli fu povero e andò per gli mercati di Grecia cantando i suoi propi poemi.

33 ―

[SEZIONE SECONDA] Discoverta del vero Omero


[Introduzione]

[873] Or tutte queste cose e ragionate da noi e narrate da altri d’intorno ad Omero e i di lui poemi, senza punto averloci noi eletto o proposto, tanto che nemmeno avevamo sopra ciò riflettuto, quando (né con tal metodo col quale ora questa Scienza si è ragionata) acutissimi ingegni d’uomini eccellenti in dottrina ed erudizione, con leggere la Scienza nuova la prima volta stampata, sospettarono che Omero finor creduto non fusse vero: tutte queste cose, dico, ora ci strascinano ad affermare che tale sia adivenuto di Omero appunto quale della guerra troiana, che, quantunque ella dia una famosa epoca de’ tempi alla storia, pur i critici piú avveduti giudicano che quella non mai siesi fatta nel mondo. E certamente, se, come della guerra troiana, cosí di Omero non fussero certi grandi vestigi rimasti, quanti sono i di lui poemi, a tante difficultá si direbbe che Omero fusse stato un poeta d’idea, il quale non fu particolar uomo in natura. Ma tali e tante difficultá, e insiememente i poemi di lui pervenutici, sembrano farci cotal forza d’affermarlo per la metá: che quest’Omero sia egli stato un’idea ovvero un carattere eroico d’uomini greci, in quanto essi narravano, cantando, le loro storie.

34 ―

[Capitolo Primo]
Le sconcezze e inverisimiglianze dell’Omero finor creduto divengono nell’Omero qui scoverto convenevolezze e necessitá.

[874] Per sí fatta discoverta tutte le cose e discorse e narrate, che sono sconcezze e inverisimiglianze nell’Omero finor creduto, divengono nell’Omero qui ritruovato tutte convenevolezze e necessitá. E primieramente le stesse cose massime lasciateci incerte di Omero ci violentano a dire:

i

[875] Che perciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria e ’l vollero quasi tutti lor cittadino, perché essi popoli greci furono quest’Omero.

ii

[876] Che perciò varino cotanto l’oppenioni d’intorno alla di lui etá, perché un tal Omero veramente egli visse per le bocche e nella memoria di essi popoli greci dalla guerra troiana fin a’ tempi di Numa, che fanno lo spazio di quattrocensessant’anni.

iii

[877] E la cecitá

iv

[878] e la povertá d’Omero furono de’ rapsodi, i quali, essendo ciechi, onde ogniun di loro si disse «omèro», prevalevano

35 ―
nella memoria, ed essendo poveri, ne sostentavano la vita con andar cantando i poemi d’Omero per le cittá della Grecia, de’ quali essi eran autori, perch’erano parte di que’ popoli che vi avevano composte le loro istorie.

v

[879] Cosí Omero compose giovine l’Iliade, quando era giovinetta la Grecia e, ’n conseguenza, ardente di sublimi passioni, come d’orgoglio, di collera, di vendetta, le quali passioni non soffrono dissimulazione ed amano generositá; onde ammirò Achille, eroe della forza: ma vecchio compose poi l’Odissea, quando la Grecia aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione, la qual è madre dell’accortezza; onde ammirò Ulisse, eroe della sapienza. Talché a’ tempi d’Omero giovine a’ popoli della Grecia piacquero la crudezza, la villania, la ferocia, la fierezza, l’atrocitá: a’ tempi d’Omero vecchio giá gli dilettavano i lussi d’Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle sirene, i passatempi de’ proci e di, nonché tentare, assediar e combattere le caste Penelopi; i quali costumi, tutti ad un tempo, sopra ci sembrarono incompossibili. La qual difficultá poté tanto nel divino Platone, che, per solverla, disse che Omero aveva preveduti in estro tali costumi nauseanti, morbidi e dissoluti. Ma egli, cosí, fece Omero uno stolto ordinatore della greca civiltá, perché, quantunque gli condanni, però insegna i corrotti e guasti costumi, i quali dovevano venire dopo lungo tempo ordinate le nazioni di Grecia, affinché, affrettando il natural corso che fanno le cose umane, i greci alla corrottella piú s’avacciassero.

vi

[880] In cotal guisa si dimostra l’Omero autor dell’Iliade avere di molt’etá preceduto l’Omero autore dell’Odissea.

36 ―

vii

[881] Si dimostra che quello fu dell’oriente di Grecia verso settentrione, che cantò la guerra troiana fatta nel suo paese; e che questo fu dell’occidente di Grecia verso mezzodí, che canta Ulisse, ch’aveva in quella parte il suo regno.

viii

[882] Cosí Omero, sperduto dentro la folla de’ greci popoli, si giustifica di tutte le accuse che gli sono state fatte da’ critici, e particolarmente:

ix

[883] delle vili sentenze,

x

[884] de’ villani costumi,

xi

[885] delle crude comparazioni,

xii

[886] degl’idiotismi,

xiii

[887] delle licenze de’ metri,

xiv

[888] dell’incostante varietá de’ dialetti,

37 ―

xv

[889] e di avere fatto gli uomini dèi e gli dèi uomini.

[890] Le quali favole Dionigi Longino non si fida di sostenere che co’ puntelli dell’allegorie filosofiche; cioè a dire che, come suonano cantate a’ greci, non possono avergli produtto la gloria d’essere stato l’ordinatore della greca civiltá. La qual difficultá ricorre in Omero la stessa, che noi sopra, nell’Annotazioni alla Tavola cronologica facemmo contro d’Orfeo, detto il fondatore dell’umanitá della Grecia. Ma le sopradette furono tutte propietá di essi popoli greci, e particolarmente l’ultima: ché, nel fondarsi, come la teogonia naturale sopra l’ha dimostrato, i greci di sé, pii, religiosi, casti, forti, giusti e magnanimi, tali fecero i dèi; e poscia, col lungo volger degli anni, con l’oscurarsi le favole e col corrompersi de’ costumi, come si è a lungo nella Sapienza poetica ragionato, da sé, dissoluti estimaron gli dèi, — per quella degnitá, la qual è stata sopra proposta: che gli uomini naturalmente attirano le leggi oscure o dubbie alla loro passione ed utilitá, — perché temevano gli dèi contrari a’ loro voti, se fussero stati contrari a’ di loro costumi, com’altra volta si è detto.

xvi

[891] Ma di piú appartengono ad Omero per giustizia i due grandi privilegi, che ’n fatti son uno, che gli dánno Aristotile, che le bugie poetiche, Orazio, che i caratteri eroici solamente si seppero finger da Omero. Onde Orazio stesso si professa di non esser poeta, perché o non può o non sa osservare quelli che chiama «colores operum», che tanto suona quanto le «bugie poetiche», le quali dice Aristotile; come appresso Plauto si legge «obtinere colorem» nel sentimento di «dir bugia che per tutti gli aspetti abbia faccia di veritá», qual dev’esser la buona favola.

38 ―

[892] Ma, oltre a questi, gli convengono tutti gli altri privilegi, ch’a lui dánno tutti i maestri d’arte poetica, d’essere stato incomparabile:

xvii

[893] in quelle sue selvagge e fiere comparazioni,

xviii

[894] in quelle sue crude ed atroci descrizioni di battaglie e di morti,

xix

[895] in quelle sue sentenze sparse di passioni sublimi,

xx

[896] in quella sua locuzione piena di evidenza e splendore. Le quali tutte furono propietá dell’etá eroica de’ greci, nella quale e per la quale fu Omero incomparabil poeta; perché, nell’etá della vigorosa memoria, della robusta fantasia e del sublime ingegno, egli non fu punto filosofo.

xxi

[897] Onde né filosofie, né arti poetiche e critiche, le quali vennero appresso, poterono far un poeta che per corti spazi potesse tener dietro ad Omero.

[898] E, quel ch’è piú, egli fa certo acquisto degli tre immortali elogi, che gli son dati:

xxii

[899] primo, d’essere stato l’ordinatore della greca polizia o sia civiltá;

39 ―

xxiii

[900] secondo, d’essere stato il padre di tutti gli altri poeti;

xxiv

[901] terzo, d’essere stato il fonte di tutte le greche filosofie: niuno de’ quali all’Omero finor creduto poteva darsi. Non lo primo, perché, da’ tempi di Deucalione e Pirra, vien Omero da mille e ottocento anni dopo essersi incominciata co’ matrimoni a fondare la greca civiltá, come si è dimostrato in tutta la scorsa della Sapienza poetica che la fondò. Non lo secondo, perché prima d’Omero fiorirono certamente i poeti teologi, quali furon Orfeo, Anfione, Lino, Museo ed altri, tra’ quali i cronologi han posto Esiodo e fattolo di trent’anni prevenir ad Omero; altri poeti eroici innanzi d’Omero sono affermati da Cicerone nel Bruto e nominati da Eusebio nella Preparazione evangelica, quali furono Filamone, Temirida, Demodoco, Epimenide, Aristeo ed altri. Non finalmente il terzo, imperciocché, come abbiamo a lungo ed appieno nella Sapienza poetica dimostrato, i filosofi nelle favole omeriche non ritruovarono, ma ficcarono essi le loro filosofie; ma essa sapienza poetica, con le sue favole, diede l’occasioni a’ filosofi di meditare le lor altissime veritá, e diede altresí le comoditá di spiegarle, conforme il promettemmo nel di lui principio e ’l facemmo vedere per tutto il libro secondo.

40 ―

[Capitolo Secondo]
I poemi d’Omero si truovano due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia.

[902] Ma sopra tutto, per tal discoverta, gli si aggiugne una sfolgorantissima lode:

xxv

[903] d’esser Omero stato il primo storico, il quale ci sia giunto di tutta la gentilitá;

xxvi

[904] onde dovranno, quindi appresso, i di lui poemi salire nell’alto credito d’essere due grandi tesori de’ costumi dell’antichissima Grecia. Tanto che lo stesso fato è avvenuto de’ poemi d’Omero, che avvenne della legge delle XII Tavole: perché, come queste, essendo state credute leggi date da Solone agli ateniesi, e quindi fussero venute a’ romani, ci hanno tenuto finor nascosta la storia del diritto naturale delle genti eroiche del Lazio; cosí, perché tai poemi sono stati creduti lavori di getto d’un uomo particolare, sommo e raro poeta, ci hanno tenuta finor nascosta l’istoria del diritto naturale delle genti di Grecia.

41 ―

[APPENDICE]
Istoria de’ poeti dramatici e lirici ragionata

[905] Giá dimostrammo sopra tre essere state l’etá de’ poeti innanzi d’Omero: la prima de’ poeti teologi, ch’i medesimi furon eroi, i quali cantarono favole vere e severe; la seconda, de’ poeti eroici, che l’alterarono e le corruppero; la terza d’Omero, ch’alterate e corrotte le ricevette. Ora la stessa critica metafisica sopra la storia dell’oscurissima antichitá, ovvero la spiegazione dell’idee ch’andarono naturalmente faccendo le antichissime nazioni, ci può illustrar e distinguere la storia de’ poeti dramatici e lirici, della quale troppo oscura e confusamente hanno scritto i filosofi.

[906] Essi pongono tra’ lirici Anfione metinneo, poeta antichissimo de’ tempi eroici, e ch’egli ritruovò il ditirambo e, con quello, il coro, e che introdusse i satiri a cantar in versi, e che ’l ditirambo era un coro menato in giro, che cantava versi fatti in lode di Bacco. Dicono che dentro il tempo della lirica fiorirono insigni tragici, e Diogene Laerzio afferma che la prima tragedia fu rappresentata dal solo coro. Dicono ch’Eschilo fu il primo poeta tragico, e Pausania racconta essere stato da Bacco comandato a scriver tragedie (quantunque Orazio narri Tespi esserne stato l’autore, ove nell’Arte poetica incomincia dalla satira a trattare della tragedia, e che Tespi introdusse la satira sui carri nel tempo delle vendemmie); che appresso venne Sofocle, il quale da Palemone fu detto l’«Omero de’ tragici»; e che compiè la tragedia finalmente Euripide, che Aristotile chiama τραγικώτατον. Dicono che dentro la medesima etá provenne Aristofane, che ritruovò la commedia antica ed aprí la strada alla nuova (nella quale caminò poi Menandro), per la

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commedia d’Aristofane intitolata Le nebbie, che portò a Socrate la rovina. Poi altri di loro pongono Ippocrate nel tempo de’ tragici, altri in quello de’ lirici. Ma Sofocle ed Euripide vissero alquanto innanzi i tempi della legge delle XII Tavole, e i lirici vennero anco dappoi; lo che sembra assai turbar la cronologia, che pone Ippocrate ne’ tempi de’ sette savi di Grecia.

[907] La qual difficultá per solversi, deesi dire che vi furono due spezie di poeti tragici ed altrettante di lirici.

[908] I lirici antichi devon essere prima stati gli autori degl’inni in lode degli dèi, della spezie della quale sono quelli che si dicon d’Omero, tessuti in verso eroico. Dipoi deon essere stati i poeti di quella lirica onde Achille canta alla lira le laudi degli eroi trappassati. Siccome tra’ latini i primi poeti furono gli autori de’ versi saliari, ch’erano inni che si cantavano nelle feste degli dèi da’ sacerdoti chiamati «salii» (forse detti cosí dal saltare, come saltando in giro s’introdusse il primo coro tra’ greci), i frantumi de’ quali versi sono le piú antiche memorie che ci son giunte della lingua latina, c’hanno un’aria di verso eroico, com’abbiam sopra osservato. E tutto ciò convenevolmente a questi princípi dell’umanitá delle nazioni, che ne primi tempi, i quali furon religiosi, non dovetter altro lodar che gli dèi (siccome a’ tempi barbari ultimi ritornò tal costume religioso, ch’i sacerdoti, i quali soli, come in quel tempo, erano letterati, non composero altre poesie che inni sagri); appresso, ne’ tempi eroici, non dovetter ammirare e celebrare che forti fatti d’eroi, come gli cantò Achille. Cosí di tal sorta di lirici sagri dovett’esser Anfione metinneo, il qual altresí fu autore del ditirambo; e il ditirambo fu il primo abbozzo della tragedia, tessuta in verso eroico (che fu la prima spezie di verso nel quale cantarono i greci, come sopra si è dimostrato); e sí il ditirambo d’Anfione sia stata la prima satira, dalla qual Orazio comincia a ragionare della tragedia.

[909] I nuovi furono i lirici melici, de’ quali è principe Pindaro, che scrissero in versi che nella nostra italiana favella si dicon «arie per musica»; la qual sorta di verso dovette venire dopo

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del giambico, che fu la spezie di verso nel quale, come sopra si è dimostrato, volgarmente i greci parlarono dopo l’eroico. Cosí Pindaro venne ne’ tempi della virtú pomposa di Grecia, ammirata ne’ giuochi olimpici, ne’ quali tai lirici poeti cantarono; siccome Orazio venne a’ tempi piú sfoggiosi di Roma, quali furono quelli sotto di Augusto; e nella lingua italiana è venuta la melica ne’ di lei tempi piú inteneriti e piú molli.

[910] I tragici poi e i comici corsero dentro questi termini: che Tespi in altra parte di Grecia, come Anfione in altra, nel tempo della vendemmia diede principio alla satira, ovvero tragedia antica, co’ personaggi de’ satiri, ch’in quella rozzezza e semplicitá dovettero ritruovare la prima maschera col vestire i piedi, le gambe e cosce di pelli caprine, che dovevan aver alla mano, e tingersi i volti e ’l petto di fecce d’uva, ed armar la fronte di corna (onde forse finor, appresso di noi, i vendemmiatori si dicono volgarmente «cornuti»); e sí può esser vero che Bacco, dio della vendemmia, avesse comandato ad Eschilo di comporre tragedie. E tutto ciò convenevolmente a’ tempi che gli eroi dicevano i plebei esser mostri di due nature, cioè d’uomini e di caproni, come appieno sopra si è dimostrato. Cosí è forte congettura che, anzi da tal maschera che da ciò: — che in premio a chi vincesse in tal sorta di far versi si dasse un capro (il qual Orazio, senza farne poi uso, riflette e chiama pur «vile»), il quale si dice τράγος, — avesse preso il nome la tragedia, e ch’ella avesse incominciato da questo coro di satiri. E la satira serbò quest’eterna propietá, con la qual ella nacque, di dir villanie ed ingiurie, perché i contadini, cosí rozzamente mascherati sopra i carri co’ quali portavano l’uve, avevano licenza, la qual ancor oggi hanno i vendemmiatori della nostra Campagna felice, che fu detta «stanza di Bacco», di dire villanie a’ signori. Quindi s’intenda con quanto di veritá poscia gli addottrinati nella favola di Pane, perché πᾶν significa «tutto», ficcarono la mitologia filosofica che significhi l’universo, e che le parti basse pelose voglian dire la terra, il petto e la faccia rubiconda dinotino l’elemento del fuoco, e le corna significhino il sole e la luna. Ma i romani ce ne serbarono

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la mitologia istorica in essa voce «satyra», la quale, come vuol Festo, fu vivanda di varie spezie di cibi: donde poi se ne disse «lex per satyram» quella la quale conteneva diversi capi di cose: siccome nella satira dramatica, ch’ora qui ragioniamo, al riferire di esso Orazio (poiché né de’ latini né de’ greci ce n’è giunta pur una), comparivano diverse spezie di persone, come dèi, eroi, re, artegiani e servi. Perché la satira, la quale restò a’ romani, non tratta di materie diverse, poiché è assegnata ciascheduna a ciaschedun argomento.

[911] Poscia Eschilo portò la tragedia antica, cioè cotal satira, nella tragedia mezzana con maschere umane, trasportando il ditirambo d’Anfione, ch’era coro di satiri, in coro d’uomini. E la tragedia mezzana dovett’esser principio della commedia antica, nella quale si ponevan in favola grandi personaggi, e perciò le convenne il coro. Appresso vennero Sofocle prima, e poi Euripide, che ci lasciarono la tragedia ultima. Ed in Aristofane finí la commedia antica, per lo scandalo succeduto nella persona di Socrate; e Menandro ci lasciò la commedia nuova, lavorata su personaggi privati e finti, i quali, perché privati, potevan esser finti, e perciò esser creduti per veri, come sopra si è ragionato; onde dovette non piú intervenirvi il coro, ch’è un pubblico che ragiona, né di altro ragiona che di cose pubbliche.

[912] In cotal guisa fu tessuta la satira in verso eroico, come la conservarono poscia i latini, perché in verso eroico parlarono i primi popoli, i quali appresso parlarono in verso giambico; e perciò la tragedia fu tessuta in verso giambico per natura, e la commedia lo fu per una vana osservazione d’esemplo, quando i popoli greci giá parlavano in prosa. E convenne certamente il giambico alla tragedia, perocch’è verso nato per isfogare la collera, che cammina con un piede ch’Orazio chiama «presto» (lo che in una degnitá si è avvisato): siccome dicono volgarmente che Archiloco avesselo ritruovato per isfogare la sua contro di Licambe, il quale non aveva voluto dargli in moglie la sua figliuola, e con l’acerbezza de’ versi avesse ridutti la figliuola col padre alla disperazion d’afforcarsi: che

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dev’esser un’istoria di contesa eroica d’intorno a’ connubi, nella qual i plebei sollevati dovetter afforcar i nobili con le loro figliuole.

[913] Quindi esce quel mostro d’arte poetica, ch’un istesso verso violento, rapido e concitato convenga a poema tanto grande quanto è la tragedia, la qual Platone stima piú grande dell’epopea, e ad un poema dilicato qual è la commedia; e che lo stesso piede, propio, come si è detto, per isfogare collera e rabbia, nelle quali proromper dee atrocissime la tragedia, siesi egualmente buono a ricevere scherzi, giuochi e teneri amori, che far debbono alla commedia tutta la piacevolezza ed amenitá.

[914] Questi stessi nomi non diffiniti di poeti «lirici» e «tragici» fecero porre Ippocrate a’ tempi de’ sette savi; il quale dev’esser posto circa i tempi d’Erodoto, perché venne in tempi ch’ancora si parlava buona parte per favole (com’è di favole tinta la di lui vita, ed Erodoto narra in gran parte per favole le sue storie), e non solo si era introdutto il parlare da prosa, ma anco lo scrivere per volgari caratteri, co’ quali Erodoto le sue storie, ed egli scrisse in medicina le molte opere che ci lasciò, siccome altra volta sopra si è detto.

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LIBRO QUARTO del corso che fanno le nazioni

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[Introduzione]

[915] In forza de’ princípi di questa Scienza, stabiliti nel libro primo; e dell’origini di tutte le divine ed umane cose della gentilitá, ricercate e discoverte dentro la Sapienza poetica nel libro secondo; e nel libro terzo ritruovati i poemi d’Omero essere due grandi tesori del diritto naturale delle genti di Grecia, siccome la legge delle XII Tavole era stata giá da noi ritruovata esser un gravissimo testimone del diritto naturale delle genti del Lazio: — ora con tai lumi cosí di filosofia come di filologia, in séguito delle degnitá d’intorno alla storia ideal eterna giá sopra poste, in questo libro quarto soggiugniamo il corso che fanno le nazioni, con costante uniformitá procedendo in tutti i loro tanto vari e sí diversi costumi sopra la divisione delle tre etá, che dicevano gli egizi essere scorse innanzi nel loro mondo, degli dèi, degli eroi e degli uomini. Perché sopra di essa si vedranno reggere con costante e non mai interrotto ordine di cagioni e d’effetti, sempre andante nelle nazioni, per tre spezie di nature; e da esse nature uscite tre spezie di costumi; da essi costumi osservate tre spezie di diritti naturali delle genti; e, ’n conseguenza di essi diritti, ordinate tre spezie di Stati civili o sia di repubbliche; e, per comunicare tra loro gli uomini venuti all’umana societá tutte queste giá dette tre spezie di cose massime, essersi formate tre spezie di lingue ed altrettante di caratteri; e, per giustificarle, tre spezie di giurisprudenze, assistite da tre spezie d’autoritá e da altrettante di ragioni in altrettante spezie di giudizi; le quali giurisprudenze si celebrarono per

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tre sètte de’ tempi, che professano in tutto il corso della lor vita le nazioni. Le quali tre speziali unitá, con altre molte che loro vanno di séguito e saranno in questo libro pur noverate, tutte mettono capo in una unitá generale, ch’è l’unitá della religione d’una divinitá provvedente, la qual è l’unitá dello spirito, che informa e dá vita a questo mondo di nazioni. Le quali cose sopra sparsamente essendosi ragionate, qui si dimostra l’ordine del lor corso.
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[SEZIONE PRIMA] Tre spezie di nature

[916] La prima natura, per forte inganno di fantasia, la qual è robustissima ne’ debolissimi di raziocinio, fu una natura poetica o sia creatrice, lecito ci sia dire divina, la qual a’ corpi diede l’essere di sostanze animate di dèi, e gliele diede dalla sua idea. La qual natura fu quella de’ poeti teologi, che furono gli piú antichi sappienti di tutte le nazioni gentili, quando tutte le gentili nazioni si fondarono sulla credenza, ch’ebbe ogniuna, di certi suoi propi dèi. Altronde era natura tutta fiera ed immane; ma, per quello stesso lor errore di fantasia, eglino temevano spaventosamente gli dèi ch’essi stessi si avevano finti. Di che restarono queste due eterne propietá: una, che la religione è l’unico mezzo potente a raffrenare la fierezza de’ popoli; l’altra, ch’allora vanno bene le religioni, ove coloro che vi presiedono, essi stessi internamente le riveriscano.

[917] La seconda fu natura eroica, creduta da essi eroi di divina origine; perché, credendo che tutto facessero i dèi, si tenevano esser figliuoli di Giove, siccome quelli ch’erano stati generati con gli auspíci di Giove. Nel qual eroismo essi, con giusto senso, riponevano la natural nobiltá: — perocché fussero della spezie umana; — per la qual essi furono i principi dell’umana generazione. La quale natural nobiltá essi vantavano sopra quelli che dall’infame comunion bestiale, per salvarsi nelle risse ch’essa comunion produceva, s’erano dappoi riparati a’

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di lor asili: i quali, venutivi senza dèi, tenevano per bestie. Siccome l’una e l’altra natura sopra si è ragionata.

[918] La terza fu natura umana, intelligente, e quindi modesta, benigna e ragionevole, la quale riconosce per leggi la coscienza, la ragione, il dovere.

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[SEZIONE SECONDA] Tre spezie di costumi

[919] I primi costumi [furono] tutti aspersi di religione e pietá, quali ci si narrano quelli di Deucalione e Pirra, venuti di fresco dopo il diluvio.

[920] I secondi furono collerici e puntigliosi, quali sono narrati di Achille.

[921] I terzi son officiosi, insegnati dal propio punto de’ civili doveri.

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[SEZIONE TERZA] Tre spezie di diritti naturali

[922] Il primo diritto fu divino, per lo quale credevano e sé e le loro cose essere tutte in ragion degli dèi, sull’oppenione che tutto fussero o facessero i dèi.

[923] Il secondo fu eroico, ovvero della forza, ma però prevenuta giá dalla religione, che sola può tener in dovere la forza, ove non sono, o, se vi sono, non vagliono, le umane leggi per raffrenarla. Perciò la provvedenza dispose che le prime genti, per natura feroci, fussero persuase di sí fatta loro religione, acciocché si acquetassero naturalmente alla forza, e che, non essendo capaci ancor di ragione, estimassero la ragione dalla fortuna, per la quale si consigliavano con la divinazion degli auspíci. Tal diritto della forza è ’l diritto di Achille, che pone tutta la ragione nella punta dell’asta.

[924] Il terzo è ’l diritto umano dettato dalla ragion umana tutta spiegata.

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[SEZIONE QUARTA] Tre spezie di governi

[925] I primi furono divini, che i greci direbbono «teocratici», ne’ quali gli uomini credettero ogni cosa comandare gli dèi; che fu l’etá degli oracoli, che sono la piú antica delle cose che si leggono sulla storia.

[926] I secondi furono governi eroici ovvero aristocratici, ch’è tanto dire quanto «governi d’ottimati», in significazion di «fortissimi»; ed anco, in greco, «governi d’Eraclidi» o usciti da razza erculea, in sentimento di «nobili», quali furono sparsi per tutta l’antichissima Grecia, e poi restò lo spartano; ed eziandio «governi di cureti», ch’i greci osservarono sparsi nella Saturnia, o sia antica Italia, in Creta ed in Asia; e quindi «governo di quiriti» ai romani, o sieno di sacerdoti armati in pubblica ragunanza. Ne’ quali, per distinzion di natura piú nobile, perché creduta di divina origine, ch’abbiam sopra detto, tutte le ragioni civili erano chiuse dentro gli ordini regnanti de’ medesimi eroi, ed a’ plebei, come riputati d’origine bestiale, si permettevano i soli usi della vita e della natural libertá.

[927] I terzi sono governi umani, ne’ quali, per l’ugualitá di essa intelligente natura, la qual è la propia natura dell’uomo, tutti si uguagliano con le leggi, perocché tutti sien nati liberi nelle loro cittá, cosí libere popolari, ove tutti o la maggior parte sono esse forze giuste della cittá, per le quali forze giuste son essi i signori della libertá popolare; o nelle monarchie, nelle qual’i monarchi uguagliano tutti i soggetti con le lor leggi, e, avendo essi soli in lor mano tutta la forza dell’armi, essi vi sono solamente distinti in civil natura.

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[SEZIONE QUINTA] Tre spezie di lingue

[928] Tre spezie di lingue.

[929] Delle quali la prima fu una lingua divina mentale per atti muti religiosi, o sieno divine cerimonie; onde restaron in ragion civile a’ romani gli «atti legittimi», co’ quali celebravano tutte le faccende delle loro civili utilitá. Qual lingua si conviene alle religioni per tal eterna propietá: che piú importa loro essere riverite che ragionate; e fu necessaria ne’ primi tempi, che gli uomini gentili non sapevano ancora articolar la favella.

[930] La seconda fu per imprese eroiche, con le quali parlano l’armi; la qual favella, come abbiam sopra detto, restò alla militar disciplina.

[931] La terza è per parlari, che per tutte le nazioni oggi s’usano, articolati.

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[SEZIONE SESTA] Tre spezie di caratteri

[932] Tre spezie di caratteri.

[933] De’ qual’i primi furon divini, che propiamente si dissero «geroglifici», de’ quali sopra pruovammo che ne’ loro princípi si servirono tutte le nazioni. E furono certi universali fantastici, dettati naturalmente da quell’innata propietá della mente umana di dilettarsi dell’uniforme (di che proponemmo una degnitá), lo che non potendo fare con l’astrazione per generi, il fecero con la fantasia per ritratti. A’quali universali poetici riducevano tutte le particolari spezie a ciascun genere appartenenti, com’a Giove tutte le cose degli auspíci, a Giunone tutte le cose delle nozze, e cosí agli altri l’altre.

[934] I secondi furono caratteri eroici, ch’erano pur universali fantastici, a’ quali riducevano le varie spezie delle cose eroiche; come ad Achille tutti i fatti de’ forti combattidori, ad Ulisse tutti i consigli de’ saggi. I quali generi fantastici, con avvezzarsi poscia la mente umana ad astrarre le forme e le propietá da’ subbietti, passarono in generi intelligibili, onde provennero appresso i filosofi; da’ quali poscia gli autori della commedia nuova, la quale venne ne’ tempi umanissimi della Grecia, presero i generi intelligibili de’ costumi umani e ne fecero ritratti nelle loro commedie.

[935] Finalmente si ritruovarono i volgari caratteri, i quali andarono di compagnia con le lingue volgari: poiché, come queste si compongono di parole, che sono quasi generi de’ particolari co’ quali avevan innanzi parlato le lingue eroiche (come, per l’esemplo sopra arrecato, della frase eroica «mi bolle il sangue nel cuore», ne fecero questa voce: «m’adiro»); cosí di

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cenventimila caratteri geroglifici, che, per esemplo, usano fin oggi i chinesi, ne fecero poche lettere, alle quali, come generi, si riducono le cenventimila parole delle quali i chinesi compongono la loro lingua articolata volgare. Il qual ritruovato è certamente un lavoro di mente ch’avesse piú che dell’umana; onde sopra udimmo Bernardo da Melinckrot ed Ingewaldo Elingio che ’l credono ritruovato divino. E tal comun senso di maraviglia è facile ch’abbia mosso le nazioni a credere ch’uomini eccellenti in divinitá avesser loro ritruovato sí fatte lettere, come san Girolamo agl’illiri, come san Cirillo agli slavi, come altri ad altre, conforme osserva e ragiona Angelo Rocha nella Biblioteca vaticana, ove gli autori delle lettere, che diciamo «volgari», coi lor alfabeti sono dipinti. Le quali oppenioni si convincono manifestamente di falso col solo domandare: — Perché non l’insegnarono le loro propie? — La qual difficultá abbiam noi sopra fatto di Cadmo, che dalla Fenicia aveva portato a’ greci le lettere, e questi poi usarono forme di lettere cotanto diverse dalle fenicie.

[936] Dicemmo sopra tali lingue e tali lettere esser in signoria del volgo de’ popoli, onde sono dette e l’une e l’altre «volgari». Per cotal signoria e di lingue e di lettere debbon i popoli liberi esser signori delle lor leggi, perché dánno alle leggi que’ sensi ne’ quali vi traggono ad osservarle i potenti, che, come nelle Degnitá fu avvisato, non le vorrebbono. Tal signoria è naturalmente niegato a’ monarchi di toglier a’ popoli; ma, per questa stessa loro niegata natura di umane cose civili, tal signoria, inseparabile da’ popoli, fa in gran parte la potenza d’essi monarchi, perch’essi possano comandare le loro leggi reali, alle quali debbano star i potenti, secondo i sensi ch’a quelle dánno i lor popoli. Per tal signoria di volgari lettere e lingue è necessario, per ordine di civil natura, che le repubbliche libere popolari abbiano preceduto alle monarchie.

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[SEZIONE SETTIMA] Tre spezie di giurisprudenze

[937] Tre spezie di giurisprudenze ovvero sapienze.

[938] La prima fu una sapienza divina, detta, come sopra vedemmo, «teologia mistica», che vuol dire «scienza di divini parlari» o d’intendere i divini misteri della divinazione, e sí fu scienza in divinitá d’auspíci e sapienza volgare, della quale furono sappienti i poeti teologi, che furono i primi sappienti del gentilesimo; e da tal mistica teologia essi se ne dissero «mystae», i quali Orazio, con iscienza, volta «interpetri degli dèi». Talché di questa prima giurisprudenza fu il primo e propio «interpretari», detto quasi «interpatrari», cioè «entrare in essi padri», quali furono dapprima detti gli dèi, come si è sopra osservato; che Dante direbbe «indiarsi», cioè entrare nella mente di Dio. E tal giurisprudenza estimava il giusto dalla sola solennitá delle divine cerimonie; onde venne a’ romani tanta superstizione degli atti legittimi, e nelle loro leggi ne restarono quelle frasi «iustae nuptiae», «iustum testamentum», per nozze e testamento «solenni».

[939] La seconda fu la giurisprudenza eroica, di cautelarsi con certe propie parole, qual è la sapienza di Ulisse, il quale, appo Omero, sempre parla sí accorto, che consiegua la propostasi utilitá, serbata sempre la propietá delle sue parole. Onde tutta la riputazione de’ giureconsulti romani antichi consisteva in quel lor «cavere»; e quel loro «de iure respondere» pur altro non era che cautelar coloro, ch’avevano da sperimentar in giudizio la lor ragione, d’esporre al pretore i fatti cosí circostanziati, che le formole dell’azioni vi cadessero sopra a livello, talché il pretore non potesse loro niegarle. Cosí, a’ tempi barbari

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ritornati, tutta la riputazion de’ dottori era in truovar cautele d’intorno a’ contratti o ultime volontá ed in saper formare domande di ragione ed articoli; ch’era appunto il «cavere» e «de iure respondere» de’ romani giureconsulti.

[940] La terza è la giurisprudenza umana, che guarda la veritá d’essi fatti e piega benignamente la ragion delle leggi a tutto ciò che richiede l’ugualitá delle cause; la qual giurisprudenza si celebra nelle repubbliche libere popolari, e molto piú sotto le monarchie, ch’entrambe sono governi umani.

[941] Talché le giurisprudenze divina ed eroica si attennero al certo ne’ tempi delle nazioni rozze; l’umana guarda il vero ne’ tempi delle medesime illuminate. E tutto ciò, in conseguenza delle diffinizioni del certo e del vero, e delle degnitá che se ne sono poste negli Elementi.

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[SEZIONE OTTAVA] Tre spezie d’autoritá

[942] Furono tre spezie d’autoritá. Delle quali la prima è divina, per la quale dalla provvedenza non si domanda ragione; la seconda eroica, riposta tutta nelle solenni formole delle leggi; la terza umana, riposta nel credito di persone sperimentate, di singolar prudenza nell’agibili e di sublime sapienza nell’intelligibili cose.

[943] Le quali tre spezie d’autoritá, ch’usa la giurisprudenza dentro il corso che fanno le nazioni, vanno di séguito a tre sorte d’autoritá de’ senati, che si cangiano dentro il medesimo loro corso.

[944] Delle quali la prima fu autoritá di dominio, dalla quale restarono detti «autores» coloro da’ quali abbiamo cagion di dominio, ed esso dominio nella legge delle XII Tavole sempre «autoritas» vien appellato. La qual autoritá mise capo ne’ governi divini fin dallo stato delle famiglie, nel quale la divina autoritá dovett’essere degli dèi, perch’era creduto, con giusto senso, tutto essere degli dèi. Convenevolmente, appresso, nelle aristocrazie eroiche, dove i senati composero (com’ancor in quelle de’ nostri tempi compongono) la signoria, tal autoritá fu di essi senati regnanti. Onde i senati eroici davano la lor approvagione a ciò ch’avevano innanzi trattato i popoli, che Livio dice «eius, quod populus iussisset, deinde patres fierent autores»: però, non dall’interregno di Romolo, come narra la storia, ma da’ tempi piú bassi dell’aristocrazia, ne’ quali era stata comunicata la cittadinanza alla plebe, come sopra si è ragionato. Il qual ordinamento, come lo stesso Livio dice, «saepe spectabat ad vim», sovente minacciava rivolte; tanto che, se ’l popolo ne

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voleva venir a capo, doveva, per esemplo, nominar i consoli ne’ qual’inchinasse il senato: appunto come sono le nominazioni de’ maestrati che si fanno da’ popoli sotto le monarchie.

[945] Dalla legge di Publilio Filone in poi, con la quale fu dichiarato il popolo romano libero ed assoluto signor dell’imperio, come sopra si è detto, l’autoritá del senato fu di tutela; conforme l’approvagione de’ tutori a’ negozi che si trattano da’ pupilli, che sono signori de’ loro patrimoni, si dice «autoritas tutorum». La qual autoritá si prestava dal senato al popolo in essa formola della legge, conceputa innanzi in senato, nella quale, conforme dee prestarsi l’autoritá da’ tutori a’ pupilli, il senato fusse presente al popolo, presente nelle grandi adunanze, nell’atto presente di comandar essa legge, s’egli volessela comandare; altrimente, l’antiquasse e «probaret antiqua», ch’è tanto dire quanto ch’egli dichiarasse che non voleva novitá. E tutto ciò, acciocché il popolo, nel comandare le leggi, per cagione del suo infermo consiglio, non facesse un qualche pubblico danno, e perciò, nel comandarle, si facesse regolar dal senato. Laonde le formole delle leggi, che dal senato si portavano al popolo perch’egli le comandasse, sono con iscienza da Cicerone diffinite «perscriptae autoritates»: non autoritá personali, come quelle de’ tutori, i quali con la loro presenza appruovano gli atti che si fan da’ pupilli: ma autoritá distese a lungo in iscritto (ché tanto suona «perscribere»), a differenza delle formole per azioni, scritte «per notas», le quali non s’intendevan dal popolo. Ch’è quello ch’ordinò la legge publilia: che, da essa in poi, l’autoritá del senato, per dirla come Livio la riferisce, «valeret in incertum comitiorum eventum».

[946] Passò finalmente la repubblica dalla libertá popolare sotto la monarchia, e succedette la terza spezie d’autoritá, ch’è di credito o di riputazione in sapienza, e perciò autoritá di consiglio, dalla qual i giureconsulti sotto gl’imperadori se ne dissero «autores». E tal autoritá dev’essere de’ senati sotto i monarchi, i quali son in piena ed assoluta libertá di seguir o no ciò che loro han consigliato i senati.

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[SEZIONE NONA] Tre spezie di ragioni

[Capitolo Primo]
[Ragione divina e ragione di stato]

[947] Furono tre le spezie delle ragioni.

[948] La prima, divina, di cui Iddio solamente s’intende, e tanto ne sanno gli uomini quanto è stato loro rivelato: agli ebrei prima e poi a’ cristiani, per interni parlari, alle menti, perché voci d’un Dio tutto mente; ma con parlari esterni, cosí da’ profeti, come da Gesú Cristo agli appostoli, e da questi palesati alla Chiesa; — a’ gentili, per gli auspíci, per gli oracoli ed altri segni corporei creduti divini avvisi, perché creduti venire dagli dèi, ch’essi gentili credevano esser composti di corpo. Talché in Dio, ch’è tutto ragione, la ragion e l’autoritá è una medesima cosa; onde nella buona teologia la divina autoritá tiene lo stesso luogo che di ragione. Ov’è da ammirare la provvedenza, che, ne’ primi tempi che gli uomini del gentilesimo non intendevan ragione (lo che sopra tutto dovett’essere nello stato delle famiglie), permise loro ch’entrassero nell’errore di tener a luogo di ragione l’autoritá degli auspíci e co’ creduti divini consigli di quelli si governassero, per quella eterna propietá: ch’ove gli uomini nelle cose umane non vedon ragione, e molto piú se la vedon contraria, s’acquetano negl’imperscrutabili consigli che si nascondono nell’abisso della provvedenza divina.

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[949] La seconda fu la ragion di Stato, detta da’ romani «civilis aequitas», la quale Ulpiano tralle Degnitá sopra ci diffiní da ciò ch’ella non è naturalmente conosciuta da ogni uomo, ma da pochi pratici di governo, che sappian vedere ciò ch’appartiensi alla conservazione del gener umano. Della quale furono naturalmente sappienti i senati eroici, e sopra tutti fu il romano sappientissimo ne’ tempi della libertá cosí aristocratica, ne’ quali la plebe era affatto esclusa di trattar cose pubbliche, come della popolare, per tutto il tempo che ’l popolo nelle pubbliche faccende si fece regolar dal senato, che fu fin a’ tempi de’ Gracchi.

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[Capitolo Secondo]
Corollario
della sapienza di stato degli antichi romani

[950] Quindi nasce un problema, che sembra assai difficile a solversi: come ne’ tempi rozzi di Roma fussero stati sappientissimi di Stato i romani, e ne’ loro tempi illuminati dice Ulpiano ch’«oggi di Stato s’intendono soli e pochi pratici di governo»? — Perché, per quelle stesse naturali cagioni che produssero l’eroismo de’ primi popoli, gli antichi romani, che furono gli eroi del mondo, essi naturalmente guardavano la civil equitá, la qual era scrupolosissima delle parole con le quali parlavan le leggi; e, con osservarne superstiziosamente le lor parole, facevano camminare le leggi diritto per tutti i fatti, anco dov’esse leggi riuscissero severe, dure, crudeli (per ciò che se n’è detto piú sopra), com’oggi suol praticare la ragione di Stato; e sí la civil equitá naturalmente sottometteva tutto a quella legge, regina di tutte l’altre, conceputa da Cicerone con gravitá eguale alla materia: «Suprema lex populi salus esto». Perché ne’ tempi eroici, ne’ quali gli Stati furono aristocratici, come si è appieno sopra pruovato, gli eroi avevano privatamente ciascuno gran parte della pubblica utilitá, ch’erano le monarchie famigliari conservate lor dalla patria, e, per tal grande particolar interesse, conservato loro dalla repubblica, naturalmente posponevano i privati interessi minori; onde naturalmente, e magnanimi, difendevano il ben pubblico, ch’è quello dello Stato, e saggi, consigliavano d’intorno allo Stato. Lo che fu alto consiglio della provvedenza divina, perché i padri polifemi dalla loro vita selvaggia (come con Omero e Platone si sono sopra osservati), senza un tale e tanto lor privato interesse medesimato col pubblico, non si potevano altrimente indurre a celebrare la civiltá, com’altra volta sopra si è riflettuto.

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[951] Al contrario, ne’ tempi umani, ne’ quali gli Stati provengono o liberi popolari o monarchici, perché i cittadini ne’ primi comandano il ben pubblico, che si ripartisce loro in minutissime parti quanti son essi cittadini, che fanno il popolo che vi comanda, e ne’ secondi son i sudditi comandati d’attender a’ loro privati interessi e lasciare la cura del pubblico al sovrano principe; aggiugnendo a ciò le naturali cagioni, le quali produssero tali forme di Stati, che sono tutte contrarie a quelle che produtto avevano l’eroismo, le quali sopra dimostrammo esser affetto d’agi, tenerezza di figliuoli, amor di donne e disiderio di vita: per tutto ciò, son oggi gli uomini naturalmente portati ad attendere all’ultime circostanze de’ fatti, le quali agguaglino le loro private utilitá. Ch’è l’«aequum bonum», considerato dalla terza spezie di ragione (che qui era da ragionarsi), la quale si dice «ragion naturale», e da’ giureconsulti «aequitas naturalis» vien appellata. Della quale sola è capace la moltitudine, perché questa considera gli ultimi a sé appartenenti motivi del giusto, che meritano le cause nell’individuali loro spezie de’ fatti. E nelle monarchie bisognano pochi sappienti di Stato per consigliare con equitá civile le pubbliche emergenze ne’ gabinetti, e moltissimi giureconsulti di giurisprudenza privata, che professa equitá naturale, per ministrare giustizia a’ popoli.

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[Capitolo Terzo]
Corollario
istoria fondamentale del diritto romano

[952] Le cose qui ragionate d’intorno alle tre spezie della ragione posson esser i fondamenti che stabiliscono la storia del diritto romano. Perché i governi debbon esser conformi alla natura degli uomini governati, come se n’è proposta sopra una degnitá; — perché dalla natura degli uomini governati escon essi governi, come per questi Princípi sopra si è dimostrato; — e ché le leggi perciò debbon essere ministrate in conformitá de’ governi e, per tal cagione, dalla forma de’ governi si debbono interpetrare (lo che non sembra aver fatto niuno di tutti i giureconsulti ed interpetri, prendendo lo stesso errore ch’avevano innanzi preso gli storici delle cose romane, i quali narrano le leggi comandate in vari tempi in quella repubblica, ma non avvertono a’ rapporti che dovevano le leggi aver con gli stati per gli quali quella repubblica procedé; ond’escono i fatti tanto nudi delle loro propie cagioni le quali naturalmente l’avevano dovuto produrre, che Giovanni Bodino, egualmente eruditissimo giureconsulto e politico, le cose fatte dagli antichi romani nella libertá, che falsamente gli storici narrano popolare, argomenta essere stati effetti di repubblica aristocratica, conforme in questi libri di fatto si è ritruovata): — per tutto ciò, se tutti gli adornatori della storia del diritto romano son domandati: — Perché la giurisprudenza antica usò tanti rigori d’intorno alla legge delle XII Tavole? perché la mezzana, con gli editti de’ pretori, cominciò ad usare benignitá di ragione, ma con rispetto però d’essa legge? perché la giurisprudenza nuova, senz’alcun velo o riguardo di essa legge, prese generosamente a professare l’equitá naturale? — essi, per renderne una qualche ragione, dánno in quella grave offesa alla romana generositá,

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con cui dicono ch’i rigori, le solennitá, gli scrupoli, le sottigliezze delle parole e finalmente il segreto delle medesime leggi furon imposture de’ nobili, per aver essi le leggi in mano, che fanno una gran parte della potenza nelle cittá.

[953] Ma tanto sí fatte pratiche furono da ogn’impostura lontane, che furono costumi usciti dalle lor istesse nature, le quali, con tali costumi, produssero tali Stati, che naturalmente dettavano tali e non altre pratiche. Perché, nel tempo della somma fierezza del loro primo gener umano, essendo la religione l’unico potente mezzo d’addimesticarla, la provvedenza, come si è veduto sopra, dispose che vivessero gli uomini sotto governi divini e dappertutto regnassero leggi sagre, ch’è tanto dire quanto arcane e segrete al volgo de’ popoli; le quali, nello stato delle famiglie, tanto lo erano state naturalmente, che si custodivano con lingue mutole, le quali si spiegavano con consagrate solennitá (che poi restarono negli atti legittimi), le quali tanto da quelle menti balorde erano credute abbisognate per accertarsi uno della volontá efficace dell’altro d’intorno a comunicare l’utilitá, quanto ora, in questa naturale intelligenza delle nostre, basta accertarsene con semplici parole ed anche con nudi cenni. Dipoi succedettero i governi umani di Stati civili aristocratici, e, per natura perseverando a celebrarsi i costumi religiosi, con essa religione seguitarono a custodirsi le leggi arcane o segrete (il qual arcano è l’anima con cui vivono le repubbliche aristocratiche), e con tal religione si osservarono severamente le leggi; ch’è ’l rigore della civil equitá, la quale principalmente conserva l’aristocrazie. Appresso, avendo a venire le repubbliche popolari, che naturalmente son aperte, generose e magnanime (dovendovi comandare la moltitudine, ch’abbiam dimostro naturalmente intendersi dell’equitá naturale), vennero con gli stessi passi le lingue e le lettere che si dicon «volgari» (delle quali, come sopra dicemmo, è signora la moltitudine), e con quelle comandarono e scrisser le leggi, e naturalmente se n’andò a pubblicar il segreto: ch’è ’l «ius latens», che Pomponio narra non avere sofferto piú la plebe romana, onde volle le leggi descritte in tavole, poich’eran venute le

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lettere volgari da’ greci in Roma, come si è sopra detto. Tal ordine di cose umane civili finalmente si truovò apparecchiato per gli Stati monarchici, ne’ qual’i monarchi vogliono ministrate le leggi secondo l’equitá naturale e, ’n conseguenza, conforme l’intende la moltitudine, e perciò adeguino in ragione i potenti co’ deboli: lo che fa unicamente la monarchia. E l’equitá civile, o ragion di Stato, fu intesa da pochi sappienti di ragion pubblica e, con la sua eterna propietá, è serbata arcana dentro de’ gabinetti.
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[SEZIONE DECIMA] Tre spezie di giudizi

[Capitolo Primo]
[Prima spezie: giudizi divini]

[954] Le spezie de’ giudizi furono tre.

[955] La prima di giudizi divini, ne’ quali, nello stato che dicesi «di natura» (che fu quello delle famiglie), non essendo imperi civili di leggi, i padri di famiglia si richiamavano agli dèi de’ torti ch’erano stati lor fatti (che fu, prima e propiamente, «implorare deorum fidem»), chiamavano in testimoni della loro ragion essi dèi (che fu, prima e propiamente, «deos obtestari»). E tali accuse o difese furono, con natia propietá, le prime orazioni del mondo, come restò a’ latini «oratio» per «accusa» o «difesa». Di che vi sono bellissimi luoghi in Plauto e ’n Terenzio, e ne serbò due luoghi d’oro la legge delle XII Tavole, che sono «furto orare» e «pacto orare» (non «adorare», come legge Lipsio), nel primo per «agere» e nel secondo per «excipere». Talché da queste orazioni restaron a’ latini detti «oratores» coloro ch’arringano le cause in giudizio. Tali richiami agli dèi si facevano dapprima dalle genti semplici e rozze, sulla credulitá ch’essi eran uditi dagli dèi, ch’immaginavano starsi sulle cime de’ monti, siccome Omero gli narra su quella del monte Olimpo; e Tacito ne scrive tra gli ermonduri e catti una guerra con tal superstizione: che dagli dèi se non dall’alte cime de’ monti «preces mortalium nusquam propius audiri».

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[956] Le ragioni, le quali s’arrecavano in tali divini giudizi, eran essi dèi, siccome ne’ tempi ne’ quali i gentili tutte le cose immaginavano esser dèi: come «Lar» per lo dominio della casa, «dii Hospitales» per la ragion dell’albergo, «dii Penates» per la paterna potestá, «deus Genius» per lo diritto del matrimonio, «deus Terminus» per lo dominio del podere, «dii Manes» per la ragion del sepolcro; di che restò nella legge delle XII Tavole un aureo vestigio: «ius deorum manium».

[957] Dopo tali orazioni (ovvero obsecrazioni, ovvero implorazioni) e dopo tali obtestazioni, venivan all’atto di esegrare essi rei; onde appo i greci, come certamente in Argo, vi furono i templi di essa esegrazione, e tali esegrati si dicevano ἀναθήματα,/ che noi diciamo «scomunicati». E contro loro concepivano i voti (che fu il primo «nuncupare vota», che significa far voti solenni ovvero con formole consagrate) e gli consagravano alle Furie (che furono veramente «diris devoti»), e poi gli uccidevano (ch’era quello degli sciti, lo che sopra osservammo, i quali ficcavano un coltello in terra e l’adoravan per dio, e poi uccidevano l’uomo). E i latini tal uccidere dissero col verbo «mactare», che restò vocabolo sagro che si usava ne’ sagrifizi; onde agli spagnuoli restò «matar» ed agl’italiani altresí «ammazzare» per «uccidere». E sopra vedemmo ch’appo i greci restò ἄρα per significar il «corpo che danneggia», il «voto» e la «furia»; ed appo i latini «ara» significò e l’«altare» e la «vittima». Quindi restò appo tutte le nazioni una spezie di scomunica: della quale, tra’ Galli, ne lasciò Cesare un’assai spiegata memoria; e tra’ romani restonne l’interdetto dell’acqua e fuoco, come sopra si è ragionato. Delle quali consagrazioni molte passarono nella legge delle XII Tavole: come «consagrato a Giove» chi aveva violato un tribuno della plebe, «consagrato agli dèi de’ padri» il figliuolo empio, «consagrato a Cerere» chi aveva dato fuoco alle biade altrui, il quale fusse bruciato vivo (si veda crudeltá di pene divine, somigliante all’immanitá, ch’abbiamo nelle Degnitá detto, dell’immanissime streghe!), che debbon essere state quelle sopra da Plauto dette «Saturni hostiae».

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[958] Con questi giudizi praticati privatamente, usciron i popoli a far le guerre che si dissero «pura et pia bella»; e si facevano «pro aris et focis», per le cose civili come pubbliche cosí private, col qual aspetto di divine si guardavano tutte le cose umane. Onde le guerre eroiche tutt’erano di religione, perché gli araldi, nell’intimarle, dalle cittá, alle quali le portavano, chiamavan fuori gli dèi e consagravano i nimici agli dèi. Onde gli re trionfati erano da’ romani presentati a Giove Feretrio nel Campidoglio e dappoi s’uccidevano, sull’esemplo de’ violenti empi, ch’erano state le prime ostie, le prime vittime, ch’aveva consagrato Vesta sulle prime are del mondo. E i popoli arresi erano considerati uomini senza dèi, sull’esemplo de’ primi famoli: onde gli schiavi, come cose inanimate, in lingua romana si dissero «mancipia» ed in romana giurisprudenza si tennero «loco rerum».

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[Capitolo Secondo]
Corollario
de’ duelli e delle ripresaglie

[959] Talché furon una spezie di giudizi divini, nella barbarie delle nazioni, i duelli, che dovettero nascere sotto il governo antichissimo degli dèi e condursi per lunga etá dentro le repubbliche eroiche. Delle quali riferimmo nelle Degnitá quel luogo d’oro d’Aristotile ne’ Libri politici, ove dice che non avevano leggi giudiziarie da punir i torti ed emendare le violenze private: lo che, sulla falsa oppenione finor avuta dalla boria de’ dotti d’intorno all’eroismo filosofico de’ primi popoli, il quale andasse di séguito alla sapienza innarrivabile degli antichi, non si è creduto finora.

[960] Certamente, tra’ romani furono tardi introdutti, e pur dal pretore, cosí l’interdetto «Unde vi» come le azioni «De vi bonorum raptorum» e «Quod metus caussa», come altra volta si è detto. E, per lo ricorso della barbarie ultima, le ripresaglie private durarono fin a’ tempi di Bartolo, che dovetter essere «condiczioni», o «azioni personali» degli antichi romani, perché «condicere», secondo Festo, vuol dire «dinonziare» (talché il padre di famiglia doveva dinonziare, a colui che gli aveva ingiustamente tolto ciò ch’era suo, che glielo restituisse, per poi usare la ripresaglia); onde tal dinonzia restò solennitá dell’azioni personali: lo che da Udalrico Zasio acutamente fu inteso.

[961] Ma i duelli contenevano giudizi reali, che, perocché si facevano in re praesenti, non avevano bisogno della dinonzia; onde restarono le vindiciae, le quali, tolte all’ingiusto possessore con una finta forza, che Aulo Gellio chiama «festucaria», «di paglia» (le quali dalla forza vera, che si era fatta prima, dovettero dirsi «vindiciae»), si dovevano portare dal giudice, per dire, in quella «gleba» o zolla: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium». Quindi coloro che scrivono i duelli

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essersi introdutti per difetto di pruove, egli è falso; ma devon dire: per difetto di leggi giudiziarie. Perché certamente Frotone, re di Danimarca, comandò che tutte le contese si terminassero per mezzo degli abbattimenti, e sí vietò che si diffinissero con giudizi legittimi. E, per non terminarle con giudizi legittimi, sono di duelli piene le leggi de’ longobardi, salii, inghilesi, borghignoni, normanni, danesi, alemanni. Per lo che Cuiacio ne’ Feudi dice: «Et hoc genere purgationis diu usi sunt christiani tam in civilibus quam in criminalibus caussis, re omni duello commissa». Di che è restato che in Lamagna professano scienza di duello coloro che si dicon «reistri», i quali obbligano quelli c’hanno da duellare a dire la veritá, perocché i duelli, ammessivi i testimoni, e perciò dovendovi intervenire i giudici, passerebbero in giudizi o criminali o civili.

[962] Non si è creduto della barbarie prima, perché non ce ne sono giunte memorie, ch’avesse praticato i duelli. Ma non sappiamo intendere come in questa parte sieno stati, nonché umani, sofferenti di torti i polifemi d’Omero, ne’ quali riconosce gli antichissimi padri delle famiglie, nello stato di natura, Platone. Certamente Aristotile ne ha detto nelle Degnitá che nell’antichissime repubbliche, nonché nello stato delle famiglie, che furon innanzi delle cittá, non avevano leggi da emendar i torti e punire l’offese, con le qual’i cittadini s’oltraggiassero privatamente tra loro (e noi l’abbiamo testé dimostro della romana antica); e perciò Aristotile pur ci disse, nelle Degnitá, che tal costume era de’ popoli barbari, perché, come ivi avvertimmo, i popoli per ciò ne’ lor incominciamenti son barbari, perché non son addimesticati ancor con le leggi.

[963] Ma di essi duelli vi hanno due grandi vestigi — uno nella greca storia, un altro nella romana — ch’i popoli dovettero incominciar le guerre (che si dissero dagli antichi latini «duella») dagli abbattimenti di essi particolari offesi, quantunque fussero re, ed essendo entrambi i popoli spettatori, che pubblicamente volevano difendere o vendicare l’offese. Come, certamente, cosí la guerra troiana incomincia dall’abbattimento di Menelao e di Paride (questi ch’aveva, quegli a cui era stata rapita la

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moglie Elena), il quale restando indeciso, seguitò poi a farsi tra greci e troiani la guerra; e noi sopra avvertimmo il costume istesso delle nazioni latine nella guerra de’ romani ed albani, che con l’abbattimento degli tre Orazi e degli tre Curiazi (uno de’ quali dovette rapire l’Orazia) si diffiní dello ’n tutto. In sí fatti giudizi armati estimarono la ragione dalla fortuna della vittoria: lo che fu consiglio della provvedenza divina, acciocché, tra genti barbare e di cortissimo raziocinio, che non intendevan ragione, da guerre non si seminassero guerre, e sí avessero idea della giustizia o ingiustizia degli uomini dall’aver essi propizi o pur contrari gli dèi: siccome i gentili schernivano il santo Giobbe dalla regale sua fortuna caduto, perocch’egli avesse contrario Dio. E, ne’ tempi barbari ritornati, perciò alla parte vinta, quantunque giusta, si tagliava barbaramente la destra.

[964] Da sí fatto costume, privatamente da’ popoli celebrato, uscí fuori la giustizia esterna, ch’i morali teologi dicono, delle guerre, onde le nazioni riposassero sulla certezza de’ lor imperi. Cosí quelli auspíci, che fondarono gl’imperi paterni monarchici a’ padri nello stato delle famiglie e apparecchiarono e conservarono loro i regni aristocratici nell’eroiche cittá e, comunicati loro, produssero le repubbliche libere alle plebi de’ popoli (come la storia romana apertamente lo ci racconta), finalmente legittimano le conquiste, con la fortuna dell’armi, a’ felici conquistatori. Lo che tutto non può provenire altronde che dal concetto innato della provvedenza c’hanno universalmente le nazioni, alla quale si debbono conformare, ove vedono affliggersi i giusti e prosperarsi gli scellerati, come nell’Idea dell’opera altra volta si è detto.

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[Capitolo Terzo]
[Seconda spezie: giudizi ordinari]

[965] I secondi giudizi, per la recente origine da’ giudizi divini, furono tutti ordinari, osservati con una somma scrupolositá di parole, che da’ giudizi, innanzi stati, divini dovette restar detta «religio verborum»; conforme le cose divine universalmente son concepute con formole consagrate, che non si possono d’una letteruccia alterare, onde delle antiche formole dell’azioni si diceva: «qui cadit virgula, caussa cadit». Ch’è ’l diritto naturale delle genti eroiche, osservato naturalmente dalla giurisprudenza romana antica, e fu il «fari» del pretore, ch’era un parlar innalterabile, dal quale furono detti «dies fasti» i giorni ne’ quali rendeva ragion il pretore. La quale, perché i soli eroi ne avevano la comunione nell’eroiche aristocrazie, dev’esser il «fas deorum» de’ tempi ne’ quali, come sopra abbiamo spiegato, gli eroi s’avevano preso il nome di «dèi», donde poi fu detto «Fatum» sopra le cose della natura l’ordine ineluttabile delle cagioni che le produce, perché tale sia il parlare di Dio: onde forse agl’italiani venne detto «ordinare», ed in ispezie in ragionamento di leggi, per «dare comandi che si devono necessariamente eseguire».

[966] Per cotal ordine (che, ’n ragionamento di giudizi, significa «solenne formola d’azione»), ch’aveva dettato la crudele e vil pena contro l’inclito reo d’Orazio, non potevano i duumviri essi stessi assolverlo, quantunque fussesi ritruovato innocente; e ’l popolo, a cui n’appellò, l’assolvette, come Livio il racconta, «magis admiratione virtutis quam iure caussae». E tal ordine di giudizi bisognò ne’ tempi d’Achille, che riponeva tutta la ragion nella forza, per quella propietá de’ potenti che descrive Plauto con la sua solita grazia: «pactum non pactum, non pactum pactum», ove le promesse non vanno a seconda delle lor

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orgogliose voglie o non vogliono essi adempiere le promesse. Cosí, perché non prorompessero in piati, risse ed uccisioni, fu consiglio della provvedenza ch’avessero naturalmente tal oppenione del giusto, che tanto e tale fusse loro diritto quanto e quale si fusse spiegato con solenni formole di parole; onde la riputazione della giurisprudenza romana e de’ nostri antichi dottori fu in cautelare i clienti. Il qual diritto naturale delle genti eroiche diede gli argomenti a piú commedie di Plauto: nelle qual’i ruffiani, per inganni orditi loro da’ giovani innamorati delle loro schiave, ne sono ingiustamente fraudati, fatti da quelli innocentemente truovar rei d’una qualche formola delle leggi; e non solamente non isperimentano alcun’azione di dolo, ma altro rimborsa al doloso giovane il prezzo della schiava venduta, altro priega l’altro che si contenti della metá della pena, alla qual era tenuto, di furto non manifesto, altro si fugge dalla cittá per timore d’esser convinto d’aver corrotto lo schiavo altrui. Tanto a’ tempi di Plauto regnava ne’ giudizi l’equitá naturale!

[967] Né solamente tal diritto stretto fu naturalmente osservato tra gli uomini; ma, dalle loro nature, gli uomini credettero osservarsi da essi dèi anco ne’ lor giuramenti. Siccome Omero narra che Giunone giura a Giove, ch’è de’ giuramenti non sol testimone ma giudice, ch’essa non aveva solecitato Nettunno a muovere la tempesta contro i troiani, perocché ’l fece per mezzo dello dio Sonno; e Giove ne riman soddisfatto. Cosí Mercurio, finto Sosia, giura a Sosia vero che, se esso l’inganna, sia Mercurio contrario a Sosia: né è da credersi che Plauto nell’Anfitrione avesse voluto introdurre i dèi ch’insegnassero i falsi giuramenti al popolo nel teatro. Lo che meno è da credersi di Scipione Affricano e di Lelio (il quale fu detto il «romano Socrate»), due sappientissimi principi della romana repubblica, co’ quali si dice Terenzio aver composte le sue commedie; il quale nell’Andria finge che Davo fa poner il bambino innanzi l’uscio di Simone con le mani di Miside, acciocché, se per avventura di ciò sia domandato dal suo padrone, possa in buona coscienza niegare d’averlovi posto esso.

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[968] Ma quel che fa di ciò una gravissima pruova si è ch’in Atene, cittá di scorti ed intelligenti, ad un verso di Euripide, che Cicerone voltò in latino:

Iuravi lingua, mentem iniuratam habui,

gli spettatori del teatro, disgustati, fremettero, perché naturalmente portavano oppenione che «uti lingua nuncupassit, ita ius esto», come comandava la legge delle XII Tavole. Tanto l’infelice Agamennone poteva assolversi del suo temerario voto, col quale consagrò ed uccise l’innocente e pia figliuola Ifigenia! Onde s’intenda che, perché sconobbe la provvedenza, perciò Lucrezio al fatto d’Agamennone fa quell’empia acclamazione:
Tantum relligio potuit suadere malorum!

che noi sopra nelle Degnitá proponemmo.

[969] Finalmente inchiovano al nostro proposito questo ragionamento queste due cose di giurisprudenza e d’istoria romana certa: una ch’a’ tempi ultimi Gallo Aquilio introdusse l’azione de dolo; l’altra, che Augusto diede la tavoletta a’ giudici d’assolvere gl’ingannati e sedutti.

[970] A tal costume avvezze in pace, le nazioni poi, nelle guerre essendo vinte, esse, con le leggi delle rese, o furono miserevolmente oppresse o felicemente schernirono l’ira de’ vincitori.

[971] Miserevolmente oppressi furon i cartaginesi, i quali dal Romano avevano ricevuta la pace sotto la legge che sarebbero loro salve la vita, la cittá e le sostanze, intendendo essi la «cittá» per gli «edifici», che da’ latini si dice «urbs». Ma, perché dal Romano si era usata la voce «civitas», che significa «comune di cittadini», quando poi, in esecuzion della legge, comandati di abbandonar la cittá posta al lido del mare e ritirarsi entro terra, ricusando essi ubbidire e di nuovo armandosi alla difesa, furono dal Romano dichiarati rubelli, e, per diritto di guerra eroico, presa Cartagine, barbaramente fu messa a fuoco.

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I cartaginesi non s’acquetarono alla legge della pace data lor da’ romani, ch’essi non avevano inteso nel patteggiarla, perch’anzi tempo divenuti erano intelligenti, tra per l’acutezza affricana e per la negoziazione marittima, per la quale si fanno piú scorte le nazioni. Né pertanto i romani quella guerra tennero per ingiusta; perocché, quantunque alcuni stimino aver i romani incominciato a fare le guerre ingiuste da quella di Numanzia, che fu finita da esso Scipione Affricano, però tutti convengono aver loro dato principio da quella, che poi fecero, di Corinto.

[972] Ma da’ tempi barbari ritornati si conferma meglio il nostro proposito. Corrado terzo imperadore, avendo dato la legge della resa a Veinsberga, la qual aveva fomentato il suo competitore dell’imperio: — che ne uscissero solamente salve le donne con quanto esse via ne portassero addosso fuora, — quivi le pie donne veinsbergesi si caricarono de’ loro figliuoli, mariti, padri; e, stando alla porta della cittá l’imperadore vittorioso, nell’atto dell’usar la vittoria (che per natura è solita insolentire), non ascoltò punto la collera (ch’è spaventosa ne’ grandi e dev’essere funestissima ove nasca da impedimento che lor si faccia di pervenire o di conservarsi la loro sovranitá), stando a capo dell’esercito, ch’era accinto, con le spade sguainate e le lance in resta, di far strage degli uomini veinsbergesi, se ’l vide e ’l sofferse che salvi gli passassero dinanzi tutti, ch’aveva voluto a fil di spada tutti passare. Tanto il diritto naturale della ragion umana spiegata di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio corse naturalmente per tutti i tempi in tutte le nazioni!

[973] Ciò che si è finor ragionato, e tutto ciò che ragionerassene appresso, esce da quelle diffinizioni che sopra, tralle Degnitá, abbiamo proposto d’intorno al vero ed al certo delle leggi e de’ patti; e che cosí a’ tempi barbari è naturale la ragion stretta osservata nelle parole, ch’è propiamente il «fas gentium», com’a’ tempi umani lo è la ragione benigna, estimata da essa uguale utilitá delle cause, che propiamente «fas naturae» dee dirsi, diritto immutabile dell’umanitá ragionevole, ch’è la vera e propia natura dell’uomo.

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[Capitolo Quarto]
[Terza spezie: giudizi umani]

[974] I terzi giudizi sono tutti straordinari, ne’ quali signoreggia la veritá d’essi fatti, a’ quali, secondo i dettami della coscienza, soccorrono ad ogni uopo benignamente le leggi in tutto ciò che domanda essa uguale utilitá delle cause; — tutti aspersi di pudor naturale (ch’è parte dell’intelligenza), e garantiti perciò dalla buona fede (ch’è figliuola dell’umanitá), convenevole all’apertezza delle repubbliche popolari e molto piú alla generositá delle monarchie, ov’i monarchi, in questi giudizi, fan pompa d’esser superiori alle leggi e solamente soggetti alla loro coscienza e a Dio. E da questi giudizi, praticati negli ultimi tempi in pace, sono usciti, in guerra, gli tre sistemi di Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio. Ne’ quali avendo osservato molti errori e difetti il padre Niccolò Concina ne ha meditato uno piú conforme alla buona filosofia e piú utile all’umana societá, che, con gloria dell’Italia, tuttavia insegna nell’inclita universitá di Padova, in séguito della metafisica, che primario lettor vi professa.

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[SEZIONE UNDECIMA] Tre sètte di tempi


[Capitolo Unico]
[Sètte dei tempi religiosi, puntigliosi e civili]

[975] Tutte l’anzidette cose si sono praticate per tre sètte de’ tempi.

[976] Delle quali la prima fu de’ tempi religiosi, che si celebrò sotto i governi divini.

[977] La seconda, de’ puntigliosi, come di Achille; ch’a’ tempi barbari ritornati fu quella de’ duellisti.

[978] La terza, de’ tempi civili ovvero modesti, ne’ tempi del diritto naturale delle genti, che, nel diffinirlo, Ulpiano lo specifica con l’aggiunto d’«umane», dicendo «ius naturale gentium humanarum»; onde, appo gli scrittori latini sotto gl’imperadori, il dovere de’ sudditi si dice «officium civile», e ogni peccato, che si prende nell’interpetrazion delle leggi contro l’equitá naturale, si dice «incivile». Ed è l’ultima setta de’ tempi della giurisprudenza romana, cominciando dal tempo della libertá popolare. Onde prima i pretori, per accomodare le leggi alla natura, costumi, governo romano, di giá cangiati, dovetter addolcire la severitá ed ammollire la rigidezza della legge delle XII Tavole, comandata, quand’era naturale, ne’ tempi eroici di Roma; e dipoi gl’imperadori dovettero snudare di tutti i veli, di che l’avevano coverta i pretori, e far comparire tutta aperta e generosa, qual si conviene alla gentilezza alla quale le nazioni s’erano accostumate, l’equitá naturale.

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[979] Per ciò i giureconsulti con la «setta de’ loro tempi» (come si posson osservare) giustificano ciò ch’essi ragionano d’intorno al giusto: perché queste sono le sètte propie della giurisprudenza romana, nelle quali convennero i romani con tutte l’altre nazioni del mondo, insegnate loro dalla provvedenza divina, ch’i romani giureconsulti stabiliscono per principio del diritto natural delle genti; non giá le sètte de’ filosofi, che vi hanno a forza intruso alcuni interpetri eruditi della romana ragione, come si è sopra detto nelle Degnitá. Ed essi imperadori, ove vogliono render ragione delle loro leggi o di altri ordinamenti dati da essoloro, dicono essere stati a ciò far indutti dalla «setta de’ loro tempi», come ne raccoglie i luoghi Barnaba Brissonio, De formulis romanorum: perocché la scuola de’ principi sono i costumi del secolo, siccome Tacito appella la setta guasta de’ tempi suoi, ove dice «corrumpere et corrumpi seculum vocatur», ch’or direbbesi «moda».

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[SEZIONE DUODECIMA] Altre pruove tratte dalle propietá dell’aristocrazie eroiche


[Introduzione]

[980] Cosí costante perpetua ordinata successione di cose umane civili, dentro la forte catena di tante e tanto varie cagioni ed effetti che si sono osservati nel corso che fanno le nazioni, debbe strascinare le nostre menti a ricevere la veritá di questi princípi. Ma, per non lasciare verun luogo di dubitarne, aggiugniamo la spiegazione d’altri civili fenomeni, i quali non si possono spiegare che con la discoverta, la qual sopra si è fatta, delle repubbliche eroiche.

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[Capitolo Primo]
Della custodia de’ confini

[981] Imperciocché le due eterne massime propietá delle repubbliche aristocratiche sono le due custodie, come sopra si è detto, una de’ confini, l’altra degli ordini.

[982] La custodia de’ confini cominciò ad osservarsi, come si è sopra veduto, con sanguinose religioni sotto i governi divini, perché si avevano da porre i termini a’ campi, che riparassero all’infame comunion delle cose dello stato bestiale; sopra i quali termini avevano a fermarsi i confini prima delle famiglie, poi delle genti o case, appresso de’ popoli e alfin delle nazioni. Onde i giganti, come dice Polifemo ad Ulisse, se ne stavano ciascuno con le loro mogli e figliuole dentro le loro grotte, né s’impacciavano nulla l’uno delle cose dell’altro, servando in ciò il vezzo dell’immane loro recente origine, e fieramente uccidevano coloro che fussero entrati dentro i confini di ciascheduno, come voleva Polifemo fare d’Ulisse e de’ suoi compagni (nel qual gigante, come piú volte si è detto, Platone ravvisa i padri nello stato delle famiglie); onde sopra dimostrammo esser poi derivato il costume di guardarsi lunga stagione le cittá con l’aspetto di eterne nimiche tra loro. Tanto è soave la divisione de’ campi che narra Ermogeniano giureconsulto, e di buona fede si è ricevuta da tutti gl’interpetri della romana ragione! E da questo primo antichissimo principio di cose umane, donde ne incominciò la materia, sarebbe ragionevole incominciar ancor la dottrina ch’insegna De rerum divisione et acquirendo earum dominio. Tal custodia de’ confini è naturalmente osservata nelle repubbliche aristocratiche, le quali, come avvertono i politici, non sono fatte per le conquiste. Ma, poi che, dissipata affatto l’infame comunion delle cose, furono ben fermi i confini de’ popoli, vennero le repubbliche

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popolari, che sono fatte per dilatare gl’imperi, e finalmente le monarchie, che vi vagliono molto piú.

[983] Questa e non altra dev’essere la cagione perché la legge delle XII Tavole non conobbe nude possessioni; e l’usucapione ne’ tempi eroici serviva a solennizzare le tradizioni naturali, come i miglior interpetri ne leggono la diffinizione che dica «dominii adiectio», aggiunzione del dominio civile al naturale innanzi acquistato. Ma, nel tempo della libertá popolare, vennero, dopo, i pretori ed assisterono alle nude possessioni con gl’interdetti, e l’usucapione incominciò ad essere «dominii adeptio», modo d’acquistare da principio il dominio civile; e, quando prima le possessioni non comparivano affatto in giudizio, perché ne conosceva estragiudizialmente il pretore, per ciò che se n’è sopra detto, oggi i giudizi piú accertati sono quelli che si dicono «possessòri».

[984] Laonde, nella libertá popolare di Roma in gran parte, ed affatto sotto la monarchia, cadde quella distinzione di dominio bonitario, quiritario, ottimo e finalmente civile, i quali nelle lor origini portavano significazioni diversissime dalle significazioni presenti: il primo, di dominio naturale, che si conservava con la perpetua corporale possessione; — il secondo, di dominio che potevasi vindicare, che correva tra plebei, comunicato loro da’ nobili con la legge delle XII Tavole, ma ch’a’ plebei dovevano vindicare, laudati in autori, essi nobili, da’ qual’i plebei avevano la cagion del dominio, come pienamente sopra si è dimostrato; — il terzo, di dominio libero d’ogni peso pubblico nonché privato, che celebrarono tra essoloro i patrizi innanzi d’ordinarsi il censo che fu pianta della libertá popolare, come si è sopra detto; — il quarto ed ultimo, di dominio ch’avevan esse cittá, ch’or si dice «eminente». Delle quali differenze, quella d’ottimo e di quiritario da essi tempi della libertá si era di giá oscurata, tanto che non n’ebbero niuna contezza i giureconsulti della giurisprudenza ultima. Ma sotto la monarchia quel che si dice «dominio bonitario» (nato dalla nuda tradizion naturale) e ’l detto «dominio quiritario» (nato dalla mancipazione o tradizion civile) affatto si confusero da

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Giustiniano con le costituzioni De nudo iure quiritium tollendo e De usucapione transformanda, e la famosa differenza delle cose mancipi e nec mancipi si tolse affatto; e restarono «dominio civile» in significazione di dominio valevole a produrre revindicazione, e «dominio ottimo» in significazione di dominio non soggetto a veruno peso privato.
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[Capitolo Secondo]
Della custodia degli ordini

[985] La custodia degli ordini cominciò da’ tempi divini con le gelosie (onde vedemmo sopra esser gelosa Giunone, dea de’ matrimoni solenni), acciocché indi provenisse la certezza delle famiglie incontro la nefaria comunion delle donne. Tal custodia è propietá naturale delle repubbliche aristocratiche, le quali vogliono i parentadi, le successioni, e quindi le ricchezze, e per queste la potenza, dentro l’ordine de’ nobili; onde tardi vennero nelle nazioni le leggi testamentarie (siccome tra’ Germani antichi narra Tacito che non era alcun testamento): il perché, volendo il re Agide introdurle in Isparta, funne fatto strozzare dagli efori, custodi della libertá signorile de’ lacedemoni, com’altra volta si è detto. Quindi s’intenda con quanto accorgimento gli adornatori della legge delle XII Tavole fissano nella tavola decimaprima il capo «Auspicia incommunicata plebi sunto», de’ quali dapprima furono dipendenze tutte le ragioni civili cosí pubbliche come private, che si conservavano tutte dentro l’ordine de’ nobili; e le private furono nozze, patria potestá, suitá, agnazioni, gentilitá, successioni legittime, testamenti e tutele, come sopra si è ragionato; — talché, dopo avere, nelle prime tavole, col comunicare tai ragioni tutte alla plebe, stabilite le leggi propie d’una repubblica popolare, particolarmente con la legge testamentaria, dappoi, nella tavola decimaprima, in un sol capo la formano tutta aristocratica. Ma, in tanta confusione di cose, dicono pur questo, quantunque indovinando, di vero: che nelle due ultime tavole passarono in leggi alcune costumanze antiche d’essi romani; il qual detto avvera che lo Stato romano antico fu aristocratico.

[986] Ora, ritornando al proposito, poi che fu fermato dappertutto il gener umano con la solennitá de’ matrimoni, vennero le

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repubbliche popolari e, molto piú appresso, le monarchie; nelle quali, per mezzo de’ parentadi con le plebi de’ popoli e delle successioni testamentarie, se ne turbarono gli ordini della nobiltá, e quindi andarono tratto tratto uscendo le ricchezze dalle case nobili. Perché appieno sopra si è dimostrato ch’i plebei romani sin al trecento e nove di Roma, che riportarono da’ patrizi finalmente comunicati i connubi, o sia la ragione di contrarre nozze solenni, essi contrassero matrimoni naturali; né, in quello stato sí miserevole quasi di vilissimi schiavi, come la storia romana pure gli ci racconta, potevano pretendere d’imparentare con essi nobili. Ch’è una delle cose massime, onde dicevamo in quest’opera la prima volta stampata che, se non si dánno questi princípi alla giurisprudenza romana, la romana storia è piú incredibile della favolosa de’ greci, quale finora ci è stata ella narrata. Perché di questa non sapevamo che si avesse voluto dire; ma, della romana, sentiamo nella nostra natura l’ordine de’ disidèri umani esser tutto contrario: che uomini miserabilissimi pretendessero prima nobiltá nella contesa de’ connubi, poi onori con quella che loro comunicassesi il consolato, finalmente ricchezze con l’ultima pretensione che fecero de’ sacerdozi; quando, per eterna comune civil natura, gli uomini prima disiderano ricchezze, dopo di queste onori, e per ultimo nobiltá.

[987] Laonde s’ha necessariamente a dire ch’avendo i plebei riportato da’ nobili il dominio certo de’ campi con la legge delle XII Tavole (che noi sopra dimostrammo essere stata la seconda agraria del mondo) ed essendo ancora stranieri (perché tal dominio puossi concedere agli stranieri), con la sperienza furono fatti accorti che non potevano lasciargli ab intestato a’ loro congionti, perché, non contraendo nozze solenni tra essoloro, non avevano suitá, agnazioni, gentilitá; molto meno in testamento, non essendo cittadini. Né è maraviglia, essendo stati uomini di niuna o pochissima intelligenza, come lo ci appruovano le leggi furia, voconia e falcidia, che tutte e tre furono plebisciti; e tante ve n’abbisognarono perché con la legge falcidia si fermasse finalmente la disiderata utilitá ch’i retaggi

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non si assorbissero da’ legati. Perciò, con le morti d’essi plebei ch’eran avvenute in tre anni, accortisi che, per tal via, i campi loro assegnati ritornavano a’ nobili, coi connubi pretesero la cittadinanza, come sopra si è ragionato. Ma i gramatici, confusi da tutti i politici, ch’immaginarono Roma essere stata fondata da Romolo sullo stato nel quale ora stanno le cittá, non seppero che le plebi delle cittá eroiche per piú secoli furono tenute per istraniere, e quindi contrassero matrimoni naturali tra loro; e perciò essi non avvertirono ch’era una, quanto in fatti sconcia, tanto nelle parole men latina espressione quella della storia: che «plebei tentarunt connubia patrum», ch’arebbe dovuto dire «cum patribus» (perché le leggi connubiali parlan cosí per esemplo: «patruus non habet cum fratris filia connubium»), come si è sopra detto. Che, se avessero ciò avvertito, avrebbono certamente inteso ch’i plebei non pretesero aver diritto d’imparentare co’ nobili, ma di contrarre nozze solenni, il qual diritto era de’ nobili.

[988] Quindi, se si considerano le successioni legittime, ovvero le comandate dalla legge delle XII Tavole: — ch’al padre di famiglia difonto succedessero in primo luogo i suoi, in lor difetto gli agnati e ’n mancanza di questi i gentili, — sembra la legge delle XII Tavole essere stata appunto una legge salica de’ romani; la quale ne’ suoi primi tempi si osservò ancora per la Germania (onde si può congetturare lo stesso per l’altre nazioni prime della ritornata barbarie), e finalmente si ristò nella Francia e, fuori di Francia, nella Savoia. Il qual diritto di successioni Baldo, assai acconciamente al nostro proposito, chiama «ius gentium Gallorum»: alla qual istessa fatta, cotal diritto romano di successioni agnatizie e gentilizie si può con ragion chiamare «ius gentium romanarum», aggiontavi la voce «heroicarum», e, per dirla con piú acconcezza, «romanum»; che sarebbe appunto «ius quiritium romanorum», che noi provammo qui sopra essere stato il diritto naturale comune a tutte le genti eroiche.

[989] Né ciò, come sembra, egli turba punto le cose da noi qui dette d’intorno alla legge salica, in quanto esclude le femmine

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dalla successione de’ regni: che Tanaquille, femmina, governò il regno romano. Perché ciò fu detto, con frase eroica, ch’egli fu un re d’animo debole, che si fece regolare dallo scaltrito di Servio Tullio, il qual invase il regno romano col favor della plebe, alla qual aveva portato la prima legge agraria, come sopra si è dimostrato. Alla qual fatta di Tanaquille, per la stessa maniera di parlar eroico, ricorsa ne’ tempi barbari ritornati, Giovanni papa fu detto femmina (contro la qual favola Lione Allacci scrisse un intiero libro), perché mostrò la gran debolezza di ceder a Fozio, patriarca di Costantinopoli, come ben avvisa il Baronio e, dopo di lui, lo Spondano.

[990] Sciolta adunque sí fatta difficultá, diciamo ch’alla stessa maniera che prima si era detto «ius quiritium romanorum», nel significato di «ius naturale gentium heroicarum romanarum», non altrimente sotto gl’imperadori, quando Ulpiano il diffinisce, con peso di parole dice «ius naturale gentium humanarum», che corre nelle repubbliche libere e molto piú sotto le monarchie. E per tutto ciò il titolo dell’Instituta sembra doversi leggere: De iure naturali gentium civili, non solo, con Ermanno Vulteio, togliendo la virgola tralle voci «naturali» «gentium» (supplita, con Ulpiano, la seconda «humanarum»), ma anco la particella «et» innanzi alla voce «civili». Perché i romani dovetter attendere al diritto loro propio, come, dall’etá di Saturno introdutto, l’avevano conservato prima coi costumi e poi con le leggi, siccome Varrone, nella grand’opera Rerum divinarum et humanarum, trattò le cose romane per origini tutte quante natie, nulla mescolandovi di straniere.

[991] Ora, ritornando alle successioni eroiche romane, abbiamo assai molti e troppo forti motivi di dubitare se, ne’ tempi romani antichi, di tutte le donne succedessero le figliuole; perché non abbiamo nessuno motivo di credere ch’i padri eroi n’avessero sentito punto di tenerezza, anzi n’abbiamo ben molti e grandi tutti contrari. Imperciocché la legge delle XII Tavole chiamava un agnato anco in settimo grado ad escludere un figliuolo, che trovavasi emancipato, dalla succession di suo padre. Perché i padri di famiglia avevano un sovrano diritto di vita

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e morte, e quindi un dominio dispotico sopra gli acquisti d’essi figliuoli: essi contraevano i parentadi per gli medesimi, per far entrar femmine nelle loro case degne delle lor case (la qual istoria ci è narrata da esso verbo «spondere», ch’è, propiamente, «promettere per altrui», onde vengono detti «sponsalia»); consideravano le adozioni quanto le medesime nozze, perché rinforzassero le cadenti famiglie con eleggere strani allievi che fussero generosi; tenevano l’emancipazioni a luogo di castigo e di pena; non intendevano legittimazioni, perché i concubinati non erano che con affranchite e straniere, con le quali ne’ tempi eroici non si contraevano matrimoni solenni, onde i figliuoli degenerassero dalla nobiltá de’ lor avoli; i loro testamenti per ogni frivola ragione o erano nulli o s’annullavano o si rompevano o non conseguivano il loro effetto, acciocché ricorressero le successioni legittime. Tanto furono naturalmente abbagliati dalla chiarezza de’ loro privati nomi, onde furono per natura infiammati per la gloria del comun nome romano! Tutti costumi propi di repubbliche aristocratiche, quali furono le repubbliche eroiche, le quali tutte sono propietá confaccenti all’eroismo de’ primi popoli.

[992] Ed è degno di riflessione questo sconcissimo errore preso da cotesti eruditi adornatori della legge delle XII Tavole, i quali vogliono essersi portata da Atene in Roma: che de’ padri di famiglia romani l’ereditá ab intestato, per tutto il tempo innanzi di portarvi tal legge le successioni testamentarie e legittime, dovettero andare nelle spezie delle cose che sono dette nullius. Ma la provvedenza dispose che, perché ’l mondo non ricadesse nell’infame comunion delle cose, la certezza de’ domíni si conservasse con essa e per essa forma delle repubbliche aristocratiche. Onde tali successioni legittime per tutte le prime nazioni naturalmente si dovettero celebrare innanzi d’intendersi i testamenti, che sono propi delle repubbliche popolari e molto piú delle monarchie, siccome de’ Germani antichi (i quali ci dánno luogo d’intendere lo stesso costume di tutti i primi popoli barbari) apertamente da Tacito ci è narrato; onde testé congetturammo la legge salica, la quale certamente fu celebrata

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nella Germania, essere stata osservata universalmente dalle nazioni nel tempo della seconda barbarie.

[993] Però i giureconsulti della giurisprudenza ultima, per quel fonte d’innumerabili errori (i quali si sono notati in quest’opera) d’estimare le cose de’ tempi primi non conosciuti da quelle de’ loro tempi ultimi, han creduto che la legge delle XII Tavole avesse chiamate le figliuole di famiglia all’ereditá de’ loro padri, che morti fussero ab intestato, con la parola «suus», su quella massima che ’l genere maschile contenga ancora le donne. Ma la giurisprudenza eroica, della quale tanto in questi libri si è ragionato, prendeva le parole delle leggi nella propissima loro significazione; talché la voce «suus» non significasse altro che ’l figliuol di famiglia. Di che con un’invitta pruova ne convince la formola dell’istituzione de’ postumi, introdutta tanti secoli dopo da Gallo Aquilio, la quale sta cosí conceputa: «Si quis natus natave erit», per dubbio che nella sola voce «natus» la postuma non s’intendesse compresa. Onde, per ignorazione di queste cose, Giustiniano nell’Istituta dice che la legge delle XII Tavole con la voce «adgnatus» avesse chiamati egualmente gli agnati maschi e l’agnate femmine, e che poi la giurisprudenza mezzana avesse irrigidito essa legge, restringendola alle sole sorelle consanguinee; lo che dev’esser avvenuto tutto il contrario, e che prima avesse steso la parola «suus» alle figliuole ancor di famiglia, e dipoi la voce «adgnatus» alle sorelle consanguinee. Ove a caso, ma però bene, tal giurisprudenza vien detta «media», perch’ella da questi casi incominciò a rallentare i rigori della legge delle XII Tavole: la qual venne dopo la giurisprudenza antica, la quale n’aveva custodito con somma scrupolositá le parole, siccome dell’una e dell’altra appieno si è sopra detto.

[994] Ma, essendo passato l’imperio da’ nobili al popolo, perché la plebe pone tutte le sue forze, tutte le sue ricchezze, tutta la sua potenza nella moltitudine de’ figliuoli, s’incominciò a sentire la tenerezza del sangue, ch’innanzi i plebei delle cittá eroiche non avevano dovuto sentire, perché generavano i figliuoli per fargli schiavi de’ nobili, da’ quali erano posti a

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generare in tempo ch’i parti provenissero nella stagione di primavera, perché nascessero non solo sani, ma ancor robusti (onde se ne dissero «vernae», come vogliono i latini etimologi, da’ quali, come si è detto sopra, le lingue volgari furono dette «vernaculae»), e le madri dovevano odiargli anzi che no, siccome quelli de’ quali sentivano il solo dolore nel partorirgli e le sole molestie nel lattargli, senza prenderne alcun piacere d’utilitá nella vita. Ma, perché la moltitudine de’ plebei, quanto era stata pericolosa alle repubbliche aristocratiche, che sono e si dicon di pochi, tanto ingrandiva le popolari, e molto piú le monarchiche (onde sono i tanti favori che fanno le leggi imperiali alle donne per gli pericoli e dolori del parto), quindi da’ tempi della popolar libertá cominciaron i pretori a considerare i diritti del sangue ed a riguardarlo con le bonorum possessioni; cominciaron a sanare co’ loro rimedi i vizi o difetti de’ testamenti, perché si divolgassero le ricchezze, le quali sole son ammirate dal volgo.

[995] Finalmente, venuti gl’imperadori, a’ quali faceva ombra lo splendore della nobiltá, si dieder a promuovere le ragioni dell’umana natura, comune cosí a’ plebei com’a’ nobili, incominciando da Augusto, il quale applicò a proteggere i fedecommessi (per gli quali, con la puntualitá degli eredi gravati, erano innanzi passati i beni agl’incapaci d’ereditá), e lor assisté tanto, che nella sua vita passarono in necessitá di ragione di costrignere gli eredi a mandargli in effetto. Succedettero tanti senaticonsulti, co’ quali i cognati entrarono nell’ordine degli agnati; finché venne Giustiniano e tolse le differenze de’ legati e de’ fedecommessi, confuse le quarte falcidia e trebellianica, di poco distinse i testamenti da’ codicilli e, ab intestato, adeguò gli agnati e i cognati in tutto e per tutto. E tanto le leggi romane ultime si profusero in favorire l’ultime volontá, che, quando anticamente per ogni leggier motivo si viziavano, oggi si devono sempre interpetrar in maniera che reggano piú tosto che cadano.

[996] Per l’umanitá de’ tempi (ché le repubbliche popolari amano i figliuoli, e le monarchie vogliono i padri occupati nell’amor

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de’ figliuoli), essendo giá caduto il diritto ciclopico ch’avevano i padri delle famiglie sopra le persone, perché cadesse anco quello sopra gli acquisti de’ lor figliuoli, gl’imperadori introdussero prima il peculio castrense per invitar i figliuoli alla guerra, poi lo stesero al quasi castrense per invitargli alla milizia palatina, e finalmente, per tener contenti i figliuoli che né eran soldati né letterati, introdussero il peculio avventizio. Tolsero l’effetto della patria potestá all’adozioni, le quali non si contengono ristrette dentro pochi congionti. Appruovarono universalmente le arrogazioni, difficili alquanto ch’i cittadini, di padri di famiglia propia, divengano soggetti nelle famiglie d’altrui. Riputarono l’emancipazioni per benefizi. Diedero alle legittimazioni che dicono «per subsequens matrimonium» tutto il vigore delle nozze solenni. Ma sopra tutto, perché sembrava scemare la loro maestá quell’«imperium paternum», il disposero a chiamarsi «patria potestá»; sul lor esemplo, introdutto con grand’avvedimento da Augusto, che, per non ingelosire il popolo che volessegli togliere punto dell’imperio, si prese il titolo di «potestá tribunizia», o sia di protettore della romana libertá, che ne’ tribuni della plebe era stata una potestá di fatto, perch’essi non ebbero giammai imperio nella repubblica: come ne’ tempi del medesimo Augusto, avendo un tribuno della plebe ordinato a Labeone che comparisse avanti di lui, questo principe d’una delle due sètte de’ romani giureconsulti ragionevolmente ricusò d’ubbidire, perché i tribuni della plebe non avessero imperio. Talché né da’ gramatici né da’ politici né da’ giureconsulti è stato osservato il perché, nella contesa di comunicarsi il consolato alla plebe, i patrizi, per farla contenta senza pregiudicarsi di comunicarle punto d’imperio, fecero quell’uscita di criare i tribuni militari, parte nobili parte plebei, «cum consulari potestate», come sempre legge la storia, non giá «cum imperio consulari», che la storia non legge mai.

[997] Onde la repubblica romana libera si concepí tutta con questo motto, in queste tre parti diviso: «senatus autoritas», «populi imperium», «tribunorum plebis potestas». E queste due voci restarono nelle leggi con tali loro native eleganze: che l’«imperio»

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si dice de’ maggiori maestrati, come de’ consoli, de’ pretori, e si stende fino a poter condennare di morte; la «potestá» si dice de’ maestrati minori, come degli edili, e «modica coërcitione continetur».

[998] Finalmente, spiegando i romani principi tutta la loro clemenza verso l’umanitá, presero a favorire la schiavitú e raffrenarono la crudeltá de’ signori contro i loro miseri schiavi; ampliarono negli effetti e restrinsero nelle solennitá le manomessioni; e la cittadinanza, che prima non si dava ch’a’ grandi stranieri benemeriti del popolo romano, diedero ad ogniuno ch’anco di padre schiavo, purché da madre libera (nonché nata, affranchita) nascesse in Roma. Dalla qual sorta di nascere liberi nelle cittá, il diritto naturale, ch’innanzi dicevasi «delle genti» o delle case nobili (perché ne’ tempi eroici erano state tutte repubbliche aristocratiche, delle quali era propio cotal diritto, come sopra si è ragionato), poi che vennero le repubbliche popolari (nelle quali l’intiere nazioni sono signore degl’imperi) e quindi le monarchie (dove i monarchi rappresentano l’intiere nazioni loro soggette), restò detto «diritto naturale delle nazioni».

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[Capitolo Terzo]
Della custodia delle leggi

[999] La custodia degli ordini porta di séguito quella de’ maestrati e de’ sacerdozi, e quindi quella ancor delle leggi e della scienza d’interpetrarle. Ond’è che si legge nella storia romana, a’ tempi ne’ quali era quella repubblica aristocratica, che dentro l’ordine senatorio (ch’allora era tutto di nobili) erano chiusi e connubi e consolati e sacerdozi, e dentro il collegio de’ pontefici (nel quale non si ammettevano che patrizi), come appo tutte l’altre nazioni eroiche, si custodiva sagra ovvero segreta (che sono lo stesso) la scienza delle lor leggi: che durò tra’ romani fin a cento anni dopo la legge delle XII Tavole, al narrare di Pomponio giureconsulto. E ne restarono detti «viri», che tanto in que’ tempi a’ latini significò quanto a’ greci significarono «eroi», e con tal nome s’appellarono i mariti solenni, i maestrati, i sacerdoti e i giudici, come altra volta si è detto. Però noi qui ragioneremo della custodia delle leggi, siccome quella ch’era una massima propietá dell’aristocrazie eroiche; onde fu l’ultima ad essere da’ patrizi comunicata alla plebe.

[1000] Tal custodia scrupolosamente si osservò ne’ tempi divini; talché l’osservanza delle leggi divine se ne chiama «religione», la quale si perpetuò per tutti i governi appresso, ne’ quali le leggi divine si devon osservare con certe innalterabili formole di consagrate parole e di cerimonie solenni. La qual custodia delle leggi è tanto propia delle repubbliche aristocratiche che nulla piú. Perciò Atene (e, al di lei esemplo, quasi tutte le cittá della Grecia) andò prestamente alla libertá popolare, per quello che gli spartani (ch’erano di repubblica aristocratica) dicevano agli ateniesi: che le leggi in Atene tante se ne scrivevano, e le poche ch’erano in Isparta si osservavano.

[1001] Furono i romani, nello stato aristocratico, rigidissimi custodi della legge delle XII Tavole, come si è sopra veduto; tanto

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che da Tacito funne detta «finis omnis aequi iuris», perché, dopo quelle che furono stimate bastevoli per adeguare la libertá (che dovettero essere comandate dopo i decemviri, a’ quali, per la maniera di pensare per caratteri poetici degli antichi popoli, che si è sopra dimostra, furono richiamate), leggi consolari di diritto privato furono appresso o niune o pochissime; e per quest’istesso da Livio fu ella detta «fons omnis aequi iuris», perch’ella dovett’esser il fonte di tutta l’interpetrazione. La plebe romana, a guisa dell’ateniese, tuttodí comandava delle leggi singolari, perché d’universali ella non è capace. Al qual disordine Silla, che fu capoparte di nobili, poi che vinse Mario, ch’era stato capoparte di plebe, riparò alquanto con le Quistioni perpetue; ma, rinnunziata ch’ebbe la dittatura, ritornarono a moltiplicarsi, come Tacito narra, le leggi singolari niente meno di prima. Della qual moltitudine delle leggi, com’i politici l’avvertiscono, non vi è via piú spedita di pervenir alla monarchia; e perciò Augusto, per istabilirla, ne fece in grandissimo numero, e i seguenti principi usarono sopra tutto il senato per fare senaticonsulti di privata ragione. Niente di manco, dentro essi tempi della libertá popolare si custodirono sí severamente le formole dell’azioni, che vi bisognò tutta l’eloquenza di Crasso, che Cicerone chiamava il «romano Demostene», perché la sustituzione pupillar espressa contenesse la volgar tacita, e vi bisognò tutta l’eloquenza di Cicerone per combattere una «r» che mancava alla formola, con la qual letteruccia pretendeva Sesto Ebuzio ritenersi un podere d’Aulo Cecina. Finalmente si giunse a tanto, poi che Costantino cancellò affatto le formole, ch’ogni motivo particolar d’equitá fa mancare le leggi: tanto sotto i governi umani le umane menti sono docili a riconoscere l’equitá naturale. Cosí, da quel capo della legge delle XII Tavole: «Privilegia ne irroganto», osservato nella romana aristocrazia, per le tante leggi singolari, fatte, come si è detto, nella libertá popolare, si giunse a tanto sotto le monarchie, ch’i principi non fann’altro che concedere privilegi, de’ quali, conceduti con merito, non vi è cosa piú conforme alla natural equitá. Anzi tutte l’eccezioni, ch’oggi si
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dánno alle leggi, si può con veritá dire che sono privilegi dettati dal particolar merito de’ fatti, il quale gli tragge fuori dalla comun disposizion delle leggi.

[1002] Quindi crediamo esser quello avvenuto: che, nella crudezza della barbarie ricorsa, le nazioni sconobbero le leggi romane; tanto che in Francia era con gravi pene punito, ed in Ispagna anco con quella di morte, chiunque nella sua causa n’avesse allegato alcuna. Certamente, in Italia si recavano a vergogna i nobili di regolar i lor affari con le leggi romane e professavano soggiacere alle longobarde; e i plebei, che tardi si disavvezzano de’ lor costumi, praticavano alcuni diritti romani in forza di consuetudini: ch’è la cagione onde il corpo delle leggi di Giustiniano ed altri del diritto romano occidentale tra noi latini, e i libri Basilici ed altri del diritto romano orientale tra’ greci si seppellirono. Ma poi, rinnate le monarchie e rintrodutta la libertá popolare, il diritto romano compreso ne’ libri di Giustiniano è stato ricevuto universalmente, tanto che Grozio afferma esser oggi un diritto naturale delle genti d’Europa.

[1003] Però qui è da ammirare la romana gravitá e sapienza: che, in queste vicende di stati, i pretori e i giureconsulti si studiarono a tutto loro potere che di quanto meno e con tardi passi s’impropiassero le parole della legge delle XII Tavole. Onde forse per cotal cagione principalmente l’imperio romano cotanto s’ingrandí e durò: perché, nelle sue vicende di stato, proccurò a tutto potere di star fermo sopra i suoi princípi, che furono gli stessi che quelli di questo mondo di nazioni; come tutti i politici vi convengono che non vi sia miglior consiglio di durar e d’ingrandire gli Stati. Cosí la cagione, che produsse a’ romani la piú saggia giurisprudenza del mondo (di che sopra si è ragionato), è la stessa che fece loro il maggior imperio del mondo; ed è la cagione della grandezza romana, che Polibio, troppo generalmente, rifonde nella religione de’ nobili, al contrario Macchiavello nella magnanimitá della plebe, e Plutarco, invidioso della romana virtú e sapienza, rifonde nella loro fortuna nel libro De fortuna romanorum, a cui per altre vie meno diritte Torquato Tasso scrisse la sua generosa Risposta.

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[SEZIONE DECIMATERZA]

[Capitolo Primo]
Altre pruove prese dal temperamento delle repubbliche, fatto degli stati delle seconde coi governi delle primiere.

[1004] Per tutte le cose che in questo libro si sono dette, con evidenza si è dimostrato che, per tutta l’intiera vita onde vivon le nazioni, esse corrono con quest’ordine sopra queste tre spezie di repubbliche, o sia di Stati civili, e non piú: che tutti mettono capo ne’ primi, che furon i divini governi; da’ quali, appo tutte, incominciando (per le degnitá sopra poste come princípi della storia ideal eterna), debbe correre questa serie di cose umane, prima in repubbliche d’ottimati, poi nelle libere popolari e finalmente sotto le monarchie. Onde Tacito, quantunque non le veda con tal ordine, dice (quale nell’Idea dell’opera l’avvisammo) che, oltre a queste tre forme di Stati pubblici, ordinate dalla natura de’ popoli, l’altre di queste tre, mescolate per umano provvedimento, sono piú da disiderarsi dal cielo che da potersi unquemai conseguire, e, se per sorte ve n’hanno, non sono punto durevoli. Ma, per non trallasciare punto di dubbio d’intorno a tal naturale successione di Stati politici o sien civili, secondo questa ritruoverassi le repubbliche mescolarsi naturalmente, non giá di forme (che sarebbero mostri), ma di forme seconde mescolate coi governi delle primiere; il qual

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mescolamento è fondato sopra quella degnitá: che, cangiandosi gli uomini, ritengono per qualche tempo l’impressione del loro vezzo primiero.

[1005] Perciò diciamo che, come i primi padri gentili, venuti dalla vita lor bestiale all’umana, eglino, a’ tempi religiosi, nello stato di natura, sotto i divini governi, ritennero molto di fierezza e d’immanitá della lor fresca origine (onde Platone riconosce ne’ polifemi d’Omero i primi padri di famiglia del mondo); cosí, nel formarsi le prime repubbliche aristocratiche, restaron intieri gl’imperi sovrani privati a’ padri delle famiglie, quali gli avevano essi avuto nello stato giá di natura; e, per lo loro sommo orgoglio, non dovendo niuno ceder ad altri, perch’erano tutti uguali, con la forma aristocratica s’assoggettirono all’imperio sovrano pubblico d’essi ordini loro regnanti; onde il dominio alto privato di ciascun padre di famiglia andò a comporre il dominio alto superiore pubblico d’essi senati, siccome delle potestá sovrane private, ch’avevano sopra le loro famiglie, essi composero la potestá sovrana civile de’ loro medesimi ordini. Fuori della qual guisa, è impossibil intendere come altrimente delle famiglie si composero le cittá, le quali, perciò, ne dovettero nascere repubbliche aristocratiche, naturalmente mescolate d’imperi famigliari sovrani.

[1006] Mentre i padri si conservarono cotal autoritá di dominio dentro gli ordini loro regnanti, finché le plebi de’ loro popoli eroici, per leggi di essi padri, riportarono comunicati loro il dominio certo de’ campi, i connubi, gl’imperi, i sacerdozi e, co’ sacerdozi, la scienza ancor delle leggi, le repubbliche durarono aristocratiche. Ma, poi che esse plebi dell’eroiche cittá, divenute numerose ed anco agguerrite (che mettevano paura a’ padri, che nelle repubbliche di pochi debbon essere pochi) ed assistite dalla forza (ch’è la loro moltitudine), cominciarono a comandare leggi senza autoritá de’ senati, si cangiarono le repubbliche, e da aristocratiche divennero popolari: perché non potevano pur un momento vivere ciascuna con due potestá somme legislatrici, senza essere distinte di subbietti, di tempi, di territori, d’intorno a’ quali, ne’ quali e dentro i quali dovessero

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comandare le leggi: come con la legge publilia, perciò, Filone dittatore dichiarò la repubblica romana essersi per natura fatta giá popolare. In tal cangiamento, perché l’autoritá di dominio ritenesse ciò che poteva della cangiata sua forma, ella naturalmente divenne autoritá di tutela (siccome la potestá c’hanno i padri sopra i loro figliuoli impuberi, morti essi, diviene in altri autoritá di tutori); per la quale autoritá, i popoli liberi, signori de’ lor imperi, quasi pupilli regnanti, essendo di debole consiglio pubblico, essi naturalmente si fanno governare, come da’ tutori, da’ lor senati; e sí furono repubbliche libere per natura, governate aristocraticamente. Ma, poi che i potenti delle repubbliche popolari ordinarono tal consiglio pubblico a’ privati interessi della loro potenza, e i popoli liberi, per fini di private utilitá, si fecero da’ potenti sedurre ad assoggettire la loro pubblica libertá all’ambizione di quelli, con dividersi in partiti, sedizioni, guerre civili, in eccidio delle loro medesime nazioni, s’introdusse la forma monarchica.
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[Capitolo Secondo]
D’un’eterna natural legge regia, per la quale le nazioni
vanno a riposare sotto le monarchie

[1007] E tal forma monarchica s’introdusse con questa eterna natural legge regia, la qual sentirono pure tutte le nazioni, che riconoscono da Augusto essersi fondata la monarchia de’ romani. La qual legge non han veduto gl’interpetri della romana ragione, occupati tutti d’intorno alla favola della «legge regia» di Triboniano, di cui apertamente si professa autore nell’Istituta, ed una volta l’appicca ad Ulpiano nelle Pandette. Ma l’intesero bene i giureconsulti romani, che seppero bene del diritto naturale delle genti, per ciò che Pomponio, nella brieve storia del diritto romano, ragionando di cotal legge, con quella ben intesa espressione ci lasciò scritto: «rebus ipsis dictantibus, regna condita».

[1008] Cotal legge regia naturale è conceputa con questa formola naturale di eterna utilitá: che, poiché nelle repubbliche libere tutti guardano a’ loro privati interessi, a’ quali fanno servire le loro pubbliche armi in eccidio delle loro nazioni, perché si conservin le nazioni, vi surga un solo (come tra’ romani un Augusto), che con la forza dell’armi richiami a sé tutte le cure pubbliche e lasci a’ soggetti curarsi le loro cose private, e tale e tanta cura abbiano delle pubbliche qual e quanta il monarca lor ne permetta; e cosí si salvino i popoli, ch’anderebbono altrimente a distruggersi. Nella qual veritá convengono i volgari dottori, ove dicono che «universitates sub rege habentur loco privatorum», perché la maggior parte de’ cittadini non curano piú ben pubblico. Lo che Tacito, sappientissimo del diritto natural delle genti, negli Annali, dentro la sola famiglia de’ Cesari l’insegna con quest’ordine d’idee umane civili: avvicinandosi al fine Augusto, «pauci bona libertatis incassum

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disserere»; tosto venuto Tiberio, «omnes principis iussa adspectare»; sotto gli tre Cesari appresso, prima venne «incuria» e finalmente «ignorantia reipublicae tanquam alienae»: onde, essendo i cittadini divenuti quasi stranieri delle loro nazioni, è necessario ch’i monarchi nelle loro persone le reggano e rappresentino. Ora, perché nelle repubbliche libere per portarsi un potente alla monarchia vi deve parteggiare il popolo, perciò le monarchie per natura si governano popolarmente: prima con le leggi, con le quali i monarchi vogliono i soggetti tutti uguagliati; dipoi per quella propietá monarchica, ch’i sovrani, con umiliar i potenti, tengono libera e sicura la moltitudine dalle lor oppressioni; appresso per quell’altra di mantenerla soddisfatta e contenta circa il sustentamento che bisogna alla vita e circa gli usi della libertá naturale; e finalmente co’ privilegi, ch’i monarchi concedono o ad intieri ordini (che si chiamano «privilegi di libertá») o a particolari persone, con promuovere fuori d’ordine uomini di straordinario merito agli onori civili (che sono leggi singolari dettate dalla natural equitá). Onde le monarchie sono le piú conformi all’umana natura della piú spiegata ragione, com’altra volta si è detto.
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[Capitolo Terzo]
Confutazione de’ princípi della dottrina politica
fatta sopra il sistema di Giovanni Bodino

[1009] Dallo che si è fino qui ragionato s’intenda quanto Gian Bodino stabilí con iscienza i princípi della sua dottrina politica, che dispone le forme degli Stati civili con sí fatt’ordine: che prima furono monarchici, dipoi per le tirannie passati in liberi popolari, e finalmente vennero gli aristocratici. Qui basterebbe averlo appien confutato con la natural successione delle forme politiche, spezialmente in questo libro a tante innumerabili pruove dimostrata di fatto. Ma ci piace, ad exuberantiam, confutarlo dagl’impossibili e dagli assurdi di cotal sua posizione.

[1010] Esso, certamente, conviene in quello ch’è vero: che sopra le famiglie si composero le cittá. Altronde, per comun errore, che si è qui sopra ripreso, ha creduto che le famiglie sol fussero di figliuoli. Or il domandiamo: come sopra tali famiglie potevano surger le monarchie?

[1011] Due sono i mezzi: o la forza o la froda.

[1012] Per forza, come un padre di famiglia poteva manomettere gli altri? Perché, se nelle repubbliche libere (che, per esso, vennero dopo le tirannie) i padri di famiglia consagravano sé e le loro famiglie per le loro patrie, che loro conservavano le famiglie (e, per esso, erano quelli giá stati addimesticati alle monarchie), quanto è da stimarsi ch’i padri di famiglia, allor polifemi, nella recente origine della loro ferocissima libertá bestiale, si arebbono tutti con le lor intiere famiglie fatti piú tosto uccidere che sopportar inegualitá?

[1013] Per froda, ella è adoperata da coloro ch’affettano il regno nelle repubbliche libere, con proporre a’ sedutti o libertá o potenza o ricchezze. Se libertá, nello stato delle famiglie i padri erano tutti sovrani. Se potenza, la natura de’ polifemi era di

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starsi tutti soli nelle loro grotte e curare le lor famiglie, e nulla impacciarsi di quelle ch’eran d’altrui, convenevolmente al vezzo della lor origine immane. Se ricchezze, in quella semplicitá e parsimonia de’ primi tempi non s’intendevano affatto.

[1014] Cresce a dismisura la difficultá, perché ne’ tempi barbari primi non vi eran fortezze, e le cittá eroiche, le quali si composero dalle famiglie, furono lungo tempo smurate, come ce n’accertò sopra Tucidide. E, nelle gelosie di Stato, che furono funestissime nell’aristocrazie eroiche che sopra abbiam detto, Valerio Publicola, per aversi fabbricato una casa in alto, venutone in sospetto d’affettata tirannide, affin di giustificarsene, in una notte fecela smantellare, e ’l giorno appresso, chiamata pubblica ragunanza, fece da’ littori gittar i fasci consolari a’ piedi del popolo. E ’l costume delle cittá smurate piú durò ove furono piú feroci le nazioni; talché in Lamagna si legge ch’Arrigo detto l’uccellatore fu il primo che ’ncominciasse a ridurre i popoli, da’ villaggi dove innanzi avevano vivuto dispersi, a celebrar le cittá ed a cingere le cittá di muraglie. Tanto i primi fondatori delle cittá essi furono quelli che con l’aratro vi disegnarono le mura e le porte: ch’i latini etimologi dicono essersi cosí dette a «portando aratro», perché l’avessero portato alto, ove volevano che si aprisser le porte! Quindi, tra per la ferocia de’ tempi barbari e per la poca sicurtá delle regge, nella corte di Spagna in sessant’anni furon uccisi piú di ottanta reali; talché i padri del concilio illiberitano, uno degli piú antichi della Chiesa latina, con gravi scomuniche ne condennarono la tanto frequentata scelleratezza.

[1015] Ma giugne la difficultá all’infinito, poste le famiglie sol di figliuoli. Ché o per forza o per froda debbon i figliuoli essere stati i ministri dell’altrui ambizione, e o tradire o uccidere i propi padri; talché le prime sarebbono state, non giá monarchie, ma empie e scellerate tirannidi. Come i giovani nobili in Roma congiurarono contro i lor propi padri a favore del tiranno Tarquinio, per l’odio ch’avevano al rigor delle leggi, propio delle repubbliche aristocratiche (come le benigne sono delle repubbliche popolari, le clementi de’ regni legittimi, le

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dissolute sotto i tiranni); ed essi giovani congiurati le sperimentarono a costo delle propie lor vite; e, tra quelli, due figliuoli di Bruto, dettando esso padre la severissima pena, furon entrambi decapitati. Tanto il regno romano era stato monarchico e la libertá da Bruto ordinatavi popolare!

[1016] Per tali e tante difficultá debbe Bodino (e con lui tutti gli altri politici) riconoscere le monarchie famigliari nello stato delle famiglie che si sono qui dimostrate, e riconoscere le famiglie, oltre de’ figliuoli, ancora de’ famoli (da’ quali principalmente si dissero le famiglie), i quali si sono qui truovati che abbozzi furono degli schiavi, i quali vennero dopo le cittá con le guerre. E ’n cotal guisa sono la materia delle repubbliche uomini liberi e servi, i quali il Bodino pone per materia delle repubbliche, ma, per la sua posizione, non posson esserlo.

[1017] Per tale difficultá di poter essere uomini liberi e servi materia delle repubbliche con la sua posizione, si maraviglia esso Bodino che la sua nazione sia stata detta di «franchi», i quali osserva essere stati ne’ loro primi tempi trattati da vilissimi schiavi; perché, per la sua posizione, non poté vedere che sugli sciolti dal nodo della legge petelia si compierono le nazioni. Talché i franchi, de’ quali si maraviglia il Bodino, sono gli stessi che [gli] «homines», de’ quali si maraviglia Ottomano essere stati detti i vassalli rustici, de’ quali, come in questi libri si è dimostrato, si composero le plebi de’ primi popoli, i quali eran d’eroi. Le quali moltitudini, come pure si è dimostrato, trassero l’aristocrazie alla libertá popolare e, finalmente, alle monarchie; e ciò, in forza della lingua volgare, con cui, in ogniuno dei due ultimi Stati, si concepiscon le leggi, come sopra si è ragionato. Onde da’ latini si disse «vernacula» la volgar lingua, perocché venne da questi servi nati in casa, ché tanto «verna» significa, non «fatti in guerra»; quali sopra dimostrammo essere stati per tutte le nazioni antiche fin dallo stato delle famiglie. Il perché i greci non si dissero piú «achivi» (onde da Omero si dicono «filii achivorum» gli eroi), ma si dissero «elleni» da Elleno, che ’ncominciò la lingua greca volgare; appunto come non piú si dissero «filii Israël», come ne’ tempi

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primi, ma restò detto «popolo ebreo», da Eber, che i padri vogliono essere stato il propagator della lingua santa. Tanto Bodino, e tutti gli altri c’hanno scritto di dottrina politica, videro questa luminosissima veritá, la quale per tutta quest’opera, particolarmente con la storia romana, ad evidenza si è dimostrata: che le plebi de’ popoli, sempre ed in tutte le nazioni, han cangiato gli Stati da aristocratici in popolari, da popolari in monarchici, e che, come elleno fondarono le lingue volgari (come sopra appieno si è pruovato nell’Origini delle lingue), cosí hanno dato i nomi alle nazioni, conforme testé si è veduto! E sí gli antichi franchi, de’ quali il Bodino si maraviglia, il diedero alla sua Francia.

[1018] Finalmente gli Stati aristocratici, per la sperienza ch’ora n’abbiamo, sono pochissimi, rimastici da essi tempi della barbarie, che sono Vinegia, Genova, Lucca in Italia, Ragugia in Dalmazia e Norimberga in Lamagna, perocché gli altri sono Stati popolari governati aristocraticamente. Laonde lo stesso Bodino — che, sulla sua posizione, vuole il regno romano monarchico, e, cacciati indi i tiranni, vuole in Roma introdutta la popolar libertá, — non vedendo ne’ tempi primi di Roma libera riuscirgli gli effetti conformi al disegno de’ suoi princípi (perch’eran propi di repubblica aristocratica), osservammo sopra che, per uscirne onestamente, dice prima che Roma fu popolare di Stato ma di governo aristocratico, ma poi, essendo costretto dalla forza del vero, in altro luogo, con brutta incostanza, confessa essere stata aristocratica, nonché di governo, di Stato.

[1019] Tali errori nella dottrina politica sono nati da quelle tre voci non diffinite, ch’altre volte abbiamo sopra osservato: «popolo», «regno» e «libertá». E si è creduto i primi popoli comporsi di cittadini cosí plebei come nobili, i quali a mille pruove qui si sono truovati essere stati di soli nobili. Si è creduto libertá popolare di Roma antica, cioè libertá del popolo da’ signori, quella che qui si è truovata libertá signorile, cioè libertá de’ signori da’ tiranni Tarquini; onde agli uccisori di tai tiranni s’ergevano le statue, perché gli uccidevano per

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ordine di essi senati regnanti. Gli re, nella ferocia de’ primi popoli e nella mala sicurtá delle regge, furono aristocratici, quali i due re spartani a vita in Isparta (repubblica, fuor di dubbio, aristocratica, come si è qui dimostrata), e poi furono i due consoli annali in Roma, che Cicerone chiama «reges annuos» nelle sue Leggi. Col qual ordinamento fatto da Giunio Bruto, apertamente Livio professa che ’l regno romano di nulla fu mutato d’intorno alla regal potestá; come l’abbiamo sopra osservato che da questi re annali, durante il loro regno, vi era l’appellagione al popolo, e, quello finito, dovevano render conto del regno da essi amministrato allo stesso popolo. E riflettemmo che, ne’ tempi eroici, gli re tutto giorno si cacciavano di sedia l’un l’altro, come ci disse Tucidide; co’ quali componemmo i tempi barbari ritornati, ne’ quali non si legge cosa piú incerta e varia che la fortuna de’ regni. Ponderammo Tacito (che nella propietá ed energia di esse voci spesso suol dare i suoi avvisi), che ’ncomincia gli Annali con questo motto: «Urbem Romam principio reges habuere», ch’è la piú debole spezie di possessione delle tre che ne fanno i giureconsulti, quando dicono «habere», «tenere», «possidere»; ed usò la voce «urbem», che, propiamente, son gli edifici, per significare una possessione conservata col corpo: non disse «civitatem», ch’è ’l comune de’ cittadini, i quali tutti, o la maggior parte, con gli animi fanno la ragion pubblica.
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[SEZIONE DECIMAQUARTA] Ultime pruove le quali confermano tal corso di nazioni


[Capitolo Primo]
[Pene, guerre, ordine dei numeri]

[1020] Vi sono altre convenevolezze di effetti con le cagioni che lor assegna questa Scienza ne’ suoi princípi, per confermare il natural corso che fanno nella lor vita le nazioni. La maggior parte delle quali sparsamente sopra e senz’ordine si sono dette, e qui, dentro tal naturale successione di cose umane civili, si uniscono e si dispongono.

[1021] Come le pene, che nel tempo delle famiglie erano crudelissime quanto erano quelle de’ polifemi, nel quale stato Apollo scortica vivo Marsia. E seguitarono nelle repubbliche aristocratiche; onde Perseo col suo scudo, come sopra spiegammo, insassiva coloro che ’l riguardavano. E le pene se ne dissero da’ greci παραδείγματα, nello stesso senso che da’ latini si chiamarono «exempla», in senso di «castighi esemplari»; e da’ tempi barbari ritornati, come si è anco osservato sopra, «pene ordinarie» si dissero le pene di morte. Onde le leggi di Sparta, repubblica a tante pruove da noi dimostrata aristocratica, elleno, selvagge e crude cosí da Platone come da Aristotile giudicate, vollero un chiarissimo re, Agide, fatto strozzare dagli efori; e quelle di Roma, mentre fu di stato aristocratico,

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volevano un inclito Orazio vittorioso battuto nudo con le bacchette e quindi all’albero infelice afforcato, come l’un e l’altro sopra si è detto ad altro proposito. Dalla legge delle XII Tavole condennati ad esser bruciati vivi coloro ch’avevano dato fuoco alle biade altrui, precipitati giú dal monte Tarpeo li falsi testimoni, fatti vivi in brani i debitori falliti: la qual pena Tullo Ostilio non aveva risparmiato a Mezio Fuffezio, re di Alba, suo pari, che gli aveva mancato la fede dell’alleanza; [ed] esso Romolo, innanzi, fu fatto in brani da’ padri per un semplice sospetto di Stato. Lo che sia detto per coloro i quali vogliono che tal pena non fu mai praticata in Roma.

[1022] Appresso vennero le pene benigne, praticate nelle repubbliche popolari, dove comanda la moltitudine, la quale, perché di deboli, è naturalmente alla compassione inchinata; e quella pena — della qual Orazio (inclito reo d’una collera eroica, con cui aveva ucciso la sorella, la qual esso vedeva piangere alla pubblica felicitá) il popolo romano assolvette «magis admiratione virtutis quam iure caussae» (conforme all’elegante espressione di Livio, altra volta sopra osservata), — nella mansuetudine della di lui libertá popolare, come Platone ed Aristotile, ne’ tempi d’Atene libera, poco fa udimmo riprendere le leggi spartane, cosí Cicerone grida esser inumana e crudele, per darsi ad un privato cavaliere romano, Rabirio, ch’era reo di ribellione. Finalmente si venne alle monarchie, nelle qual’i principi godono di udire il grazioso titolo di «clementi».

[1023] Come dalle guerre barbare de’ tempi eroici, che si rovinavano le cittá vinte, e gli arresi, cangiati in greggi di giornalieri, erano dispersi per le campagne a coltivar i campi per gli popoli vincitori (che, come sopra ragionammo, furono le colonie eroiche mediterranee) — quindi per la magnanimitá delle repubbliche popolari, le quali, finché si fecero regolare da’ lor senati, toglievano a’ vinti il diritto delle genti eroiche e lasciavano loro tutti liberi gli usi del diritto natural delle genti umane ch’Ulpiano diceva (onde, [con] la distesa delle conquiste, si ristrinsero a’ cittadini romani tutte le ragioni, che poi si dissero «propriae civium romanorum», come sono nozze, patria

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potestá, suitá, agnazione, gentilitá, dominio quiritario o sia civile, mancipazioni, usucapioni, stipulazioni, testamenti, tutele ed ereditá; le quali ragioni civili tutte, innanzi d’esser soggette, dovettero aver propie loro le libere nazioni) — si venne finalmente alle monarchie, che vogliono, sotto Antonino Pio, di tutto il mondo romano fatta una sola Roma. Perch’è voto propio de’ gran monarchi di far una cittá sola di tutto il mondo, come diceva Alessandro magno che tutto il mondo era per lui una cittá, della qual era ròcca la sua falange. Onde il diritto natural delle nazioni, promosso da’ pretori romani nelle provincie, venne, a capo di lunga etá, a dar le leggi in casa d’essi romani; perché cadde il diritto eroico de’ romani sulle provincie, perché i monarchi vogliono tutti i soggetti uguagliati con le lor leggi. E la giurisprudenza romana, la quale ne’ tempi eroici tutta si celebrò sulla legge delle XII Tavole, e poi, fin da’ tempi di Cicerone (com’egli il riferisce in un libro De legibus), era incominciata a praticarsi sopra l’editto del romano pretore, finalmente, dall’imperador Adriano in poi, tutta s’occupò d’intorno all’Editto perpetuo, composto ed ordinato da Salvio Giuliano quasi tutto d’editti provinciali.

[1024] Come da’ piccioli distretti, che convengono a ben governarsi le repubbliche aristocratiche, poi per le conquiste, alle quali sono ben disposte le repubbliche libere, si viene finalmente alle monarchie, le quali, quanto sono piú grandi, sono piú belle e magnifiche.

[1025] Come da’ funesti sospetti delle aristocrazie, per gli bollori delle repubbliche popolari, vanno finalmente le nazioni a riposare sotto le monarchie.

[1026] Ma ci piace finalmente di dimostrare come sopra quest’ordine di cose umane civili, corpolento e composto, vi convenga l’ordine de’ numeri, che sono cose astratte e purissime. Incominciarono i governi dall’uno, con le monarchie famigliari; indi passarono a’ pochi, con l’aristocrazie eroiche; s’innoltrarono ai molti e tutti nelle repubbliche popolari, nelle quali o tutti o la maggior parte fanno la ragion pubblica; finalmente ritornarono all’uno nelle monarchie civili. Né nella natura de’

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numeri si può intendere divisione piú adeguata né con altr’ordine che uno, pochi, molti e tutti, e che i pochi, molti e tutti ritengano, ciascheduno nella sua spezie, la ragione dell’uno; siccome i numeri consistono in indivisibili, al dir d’Aristotile, e, oltrepassando i tutti, si debba ricominciare dall’uno. E sí l’umanitá si contiene tutta tralle monarchie famigliari e civili.
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[Capitolo Secondo]
Corollario
Il diritto romano antico fu un serioso poema e l’antica giurisprudenza fu una severa poesia, dentro la quale si truovano i primi dirozzamenti della legal metafisica, e come a’ greci dalle leggi uscí la filosofia.

[1027] Vi sono altri ben molti e ben grandi effetti, particolarmente nella giurisprudenza romana, i quali non truovano le loro cagioni che ’n questi stessi princípi. E sopra tutto per quella degnitá: — che, perocché sono gli uomini naturalmente portati al conseguimento del vero, per lo cui affetto, ove non possono conseguirlo, s’attengono al certo, — quindi le mancipazioni cominciarono con vera mano, per dire con «vera forza», perché «forza» è astratto, «mano» è sensibile. E la mano appo tutte le nazioni significò «potestá»; onde sono le «chirotesie» e le «chirotonie» che dicon i greci, delle quali quelle erano criazioni che si facevano con le imposizioni delle mani sopra il capo di colui ch’aveva da eleggersi in potestá, queste eran acclamazioni delle potestá giá criate fatte con alzare le mani in alto. Solennitá propie de’ tempi mutoli, conforme a’ tempi barbari ritornati cosí acclamavano all’elezioni de’ re. Tal mancipazion vera è l’occupazione, primo gran fonte naturale di tutti i domíni, ch’a’ romani detta poi restò nelle guerre; ond’e gli schiavi furono detti «mancipia», e le prede e le conquiste «res mancipi» de’ romani, divenute con le vittorie «res nec mancipi» ad essi vinti. Tanto la mancipazione nacque dentro le mura della sola cittá di Roma per modo d’acquistar il dominio civile ne’ commerzi privati d’essi romani!

[1028] A tal mancipazione andò di séguito una conforme vera usucapione, cioè acquisto di dominio (ché tanto suona «capio»)

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con vero uso (in senso che la voce «usus» significa «possessio»). E le possessioni dapprima si celebrarono col continuo ingombramento de’ corpi sopra esse cose possedute, talché «possessio» dev’essere stata detta quasi «porro sessio» (per lo quale proseguito atto di sedere o star fermo i domicili latinamente restaron chiamati «sedes»), e non giá «pedum positio», come dicono i latini etimologi, perché il pretore assiste a quella e non a questa possessione e la mantiene con gl’interdetti. Dalla qual posizione, detta θέσις da’ greci, dovette chiamarsi Teseo, non dalla bella sua positura, come dicono gli etimologi greci, perché uomini d’Attica fondaron Atene con lo stare lungo tempo ivi fermi; ch’è l’usucapione, la qual legittima appo tutte le nazioni gli Stati.

[1029] Ancora, in quelle repubbliche eroiche d’Aristotile che non avevano leggi da ammendar i torti privati, vedemmo, sopra, le revindicazioni esercitarsi con vera forza (che furono i primi duelli o private guerre del mondo), e le condiczioni essere state le ripresaglie private, che dalla barbarie ricorsa duraron fin a’ tempi di Bartolo.

[1030] Imperciocché, essendosi incominciata ad addimesticare la ferocia de’ tempi e, con le leggi giudiziarie, incominciate a proibirsi le violenze private, tutte le private forze andandosi ad unire nella forza pubblica, che si dice «imperio civile», i primi popoli, per natura poeti, dovettero naturalmente imitare quelle forze vere, ch’avevan innanzi usate per conservarsi i loro diritti e ragioni. E cosí fecero una favola della mancipazion naturale, e ne fecero la solenne tradizion civile, la quale si rappresentava con la consegna d’un nodo finto, per imitare la catena con la qual Giove aveva incatenati i giganti alle prime terre vacue, e poi essi v’incatenarono i loro clienti ovvero famoli; e, con tal mancipazione favoleggiata, celebrarono tutte le loro civili utilitá con gli atti legittimi, che dovetter essere cerimonie solenni de’ popoli ancora mutoli. Poscia (essendosi la favella articolata formata appresso), per accertarsi l’uno della volontá dell’altro nel contrarre tra loro, vollero ch’i patti, nell’atto della consegna di esso nodo, si vestissero

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con parole solenni, delle quali fussero concepute stipulazioni certe e precise; e cosí dappoi in guerra concepivano le leggi con le quali si facevano le rese delle vinte cittá, le quali si dissero «paci» da «pacio», che lo stesso suona che «pactum». Di che restò un gran vestigio nella formola con la quale fu conceputa la resa di Collazia, che, qual è riferita da Livio, ella è un contratto recettizio fatto con solenni interrogazioni e risposte; onde con tutta propietá gli arresi ne furon detti «recepti», conforme l’araldo romano disse agli oratori collatini: — «Et ego recipio». — Tanto la stipulazione ne’ tempi eroici fu de’ soli cittadini romani! e tanto con buon senno si è finora creduto che Tarquinio Prisco, nella formola con cui fu resa Collazia, avesse ordinato alle nazioni com’avesser a fare le rese!

[1031] In cotal guisa il diritto delle genti eroiche del Lazio restò fisso nel famoso capo della legge delle XII Tavole cosí conceputo: «Si quis nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto», ch’è il gran fonte di tutto il diritto romano antico, ch’i pareggiatori del diritto attico confessano non esser venuto da Atene in Roma.

[1032] L’usucapione procedé con la possessione presa col corpo, e poi, finta, ritenersi con l’animo. Alla stessa fatta favoleggiarono con una pur finta forza le vindicazioni; e le ripresaglie eroiche passarono dappoi in azioni personali, serbata la solennitá di dinonziarla a coloro ch’erano debitori. Né poté usar altro consiglio la fanciullezza del mondo, poiché i fanciulli, come se n’è proposta una degnitá, vagliono potentemente nell’imitar il vero di che sono capaci, nella qual facultá consiste la poesia, ch’altro non è ch’imitazione.

[1033] Si portarono in piazza tante maschere quante son le persone, ché «persona» non altro propiamente vuol dire che «maschera», e quanti sono i nomi, i quali, ne’ tempi de’ parlari mutoli, che si facevan con parole reali, dovetter essere l’insegne delle famiglie, con le quali furono ritruovati distinguere le famiglie loro gli americani, come sopra si è detto; e sotto la persona o maschera d’un padre d’una famiglia si nascondevano tutti i figliuoli e tutti i servi di quella, sotto un nome reale

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ovvero insegna di casa si nascondevano tutti gli agnati e tutti i gentili della medesima. Onde vedemmo ed Aiace torre de’ greci, ed Orazio solo sostenere sul ponte tutta Toscana, ed a’ tempi barbari ritornati rincontrammo quaranta normanni eroi cacciare da Salerno un esercito intiero di saraceni; e quindi furono credute le stupende forze de’ paladini di Francia (che erano sovrani principi, come restarono cosí detti nella Germania) e, sopra tutti, del conte Rolando, poi detto Orlando. La cui ragione esce da’ princípi della poesia che si sono sopra truovati: che gli autori del diritto romano, nell’etá che non potevano intendere universali intelligibili, ne fecero universali fantastici; e come poi i poeti, per arte, ne portarono i personaggi e le maschere nel teatro, cosí essi, per natura, innanzi avevano portato i «nomi» e le «persone» nel fòro.

[1034] Perché «persona» non dev’essere stata detta da «personare», che significa «risuonar dappertutto» — lo che non bisognava ne’ teatri assai piccioli delle prime cittá (quando, come dice Orazio, i popoli spettatori erano piccioli che si potevano numerare) che le maschere si usassero, perché ivi dentro talmente risuonasse la voce ch’empiesse un ampio teatro; né vi acconsente la quantitá della sillaba, la quale, da «sono», debb’esser brieve; — ma dev’esser venuto da «personari», il qual verbo congetturiamo aver significato «vestir pelli di fiere» (lo che non era lecito ch’a’ soli eroi), e ci è rimasto il verbo compagno «opsonari», che dovette dapprima significare «cibarsi di carne salvaggine cacciate», che dovetter essere le prime mense opime, qual’appunto de’ suoi eroi le descrive Virgilio. Onde le prime spoglie opime dovetter essere tali pelli di fiere uccise, che riportarono dalle prime guerre gli eroi, le quali prime essi fecero con le fiere per difenderne sé e le loro famiglie, come sopra si è ragionato, e i poeti di tali pelli fanno vestire gli eroi e, sopra tutti, di quella del lione, Ercole. E da tal origine del verbo «personari», nel suo primiero significato che gli abbiamo restituito, congetturiamo che gl’italiani dicono «personaggi» gli uomini d’alto stato e di grande rappresentazione.

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[1035] Per questi stessi princípi, perché non intendevano forme astratte, ne immaginarono forme corporee, e l’immaginarono, dalla loro natura, animate. E finsero l’ereditá signora delle robe ereditarie, ed in ogni particolar cosa ereditaria la ravvisavano tutta intiera: appunto come una gleba o zolla del podere, che presentavano al giudice, con la formola della revindicazione essi dicevano «hunc fundum». E cosí, se non intesero, sentirono rozzamente almeno ch’i diritti fussero indivisibili.

[1036] In conformitá di tali nature, l’antica giurisprudenza tutta fu poetica, la quale fingeva i fatti non fatti, i non fatti fatti, nati gli non nati ancora, morti i viventi, i morti vivere nelle loro giacenti ereditá; introdusse tante maschere vane senza subbietti, che si dissero «iura imaginaria», ragioni favoleggiate da fantasia; e riponeva tutta la sua riputazione in truovare sí fatte favole ch’alle leggi serbassero la gravitá ed ai fatti ministrassero la ragione. Talché tutte le finzioni dell’antica giurisprudenza furono veritá mascherate; e le formole con le quali parlavan le leggi, per le loro circoscritte misure di tante e tali parole — né piú, né meno, né altre, — si dissero «carmina», come sopra udimmo dirsi da Livio quella che dettava la pena contro di Orazio. Lo che vien confermato con un luogo d’oro di Plauto nell’Asinaria, dove Diabolo dice il parasito esser un gran poeta, perché sappia piú di tutti ritruovare cautele o formole, le quali or si è veduto che si dicevano «carmina».

[1037] Talché tutto il diritto romano antico fu un serioso poema, che si rappresentava da’ romani nel fòro, e l’antica giurisprudenza fu una severa poesia. Ch’è quello che, troppo acconciamente al nostro proposito, Giustiniano nel proemio dell’Istituta chiama «antiqui iuris fabulas»: il qual motto dev’essere stato d’alcun antico giureconsulto, ch’avesse inteso queste cose qui ragionate; ma egli l’usa per farne beffe. Ma da queste antiche favole richiama i suoi princípi, come qui si dimostra, la romana giurisprudenza; e dalle maschere, le quali usarono tali favole dramatiche e vere e severe, che furon dette «personae», derivano nella dottrina De iure personarum le prime origini.

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[1038] Ma, venuti i tempi umani delle repubbliche popolari, s’incominciò nelle grandi adunanze a ravvisar intelletto; e le ragioni astratte dell’intelletto ed universali si dissero indi in poi «consistere in intellectu iuris». Il qual intelletto è della volontá che ’l legislatore ha spiegato nella sua legge (la qual volontá si appella «ius»), che fu la volontá de’ cittadini uniformati in un’idea d’una comune ragionevole utilitá, la qual dovettero intendere essere spirituale di sua natura, perché tutti que’ diritti che non hanno corpi dov’essi si esercitino (i quali si chiamano «nuda iura», diritti nudi di corpolenza) dissero «in intellectu iuris consistere». Perché, adunque, son i diritti modi di sostanza spirituale, perciò son individui, e quindi son anco eterni, perché la corrozione non è altro che divisione di parti.

[1039] Gl’interpetri della romana ragione hanno riposta tutta la riputazione della legal metafisica in considerare l’indivisibilitá de’ diritti sopra la famosa materia De dividuis et individuis. Ma non ne considerarono l’altra non meno importante, ch’era l’eternitá, la qual dovevano pur avvertire in quelle due regole di ragione, che stabiliscono, la prima, che, «cessante fine legis, cessat lex»; ove non dicono «cessante ratione», perché il fine della legge è l’uguale utilitá delle cause, la qual può mancare; ma la ragione della legge è una conformazione della legge al fatto, vestito di tali circostanze, le quali, sempre che vestono il fatto, vi regna viva sopra la ragion della legge; — l’altra, che «tempus non est modus constituendi vel dissolvendi iuris» perché ’l tempo non può cominciare né finire l’eterno, e nell’usucapioni e prescrizioni il tempo non produce né finisce i diritti, ma è pruova che chi gli aveva abbia voluto spogliarsene; né, perché si dica «finire l’usufrutto», per cagion d’esemplo, il diritto finisce, ma dalla servitú si riceve alla primiera sua libertá. Dallo che escono questi due importantissimi corollari: il primo, ch’essendo i diritti eterni nel di lor intelletto, o sia nella lor idea, e gli uomini essendo in tempo, non posson i diritti altronde venire agli uomini che da Dio; il secondo, che tutti gl’innumerabili vari diversi diritti, che sono stati, sono e saranno nel mondo, sono varie modificazioni diverse della potestá

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del primo uomo, che fu il principe del gener umano, e del dominio ch’egli ebbe sopra tutta la terra.

[1040] Or, poiché certamente furono prima le leggi, dopo i filosofi, egli è necessario che Socrate, dall’osservare ch’i cittadini ateniesi nel comandare le leggi si andavan ad unire in un’idea conforme d’un’ugual utilitá partitamente comune a tutti, cominciò ad abbozzare i generi intelligibili, ovvero gli universali astratti, con l’induzione, ch’è una raccolta di uniformi particolari, che vanno a comporre un genere di ciò nello che quei particolari sono uniformi tra loro.

[1041] Platone, dal riflettere che ’n tali ragunanze pubbliche le menti degli uomini particolari, che son appassionate ciascuna del propio utile, si conformavano in un’idea spassionata di comune utilitá (ch’è quello che dicono: «gli uomini partitamente sono portati da’ loro interessi privati, ma in comune voglion giustizia»), s’alzò a meditare l’idee intelligibili ottime delle menti criate, divise da esse menti criate, le qual’in altri non posson esser che in Dio, e s’innalzò a formare l’eroe filosofico, che comandi con piacere alle passioni.

[1042] Onde Aristotile poscia divinamente ci lasciò diffinita la buona legge: che sia una «volontá scevera di passioni», quanto è dire volontá d’eroe; intese la giustizia regina, la qual siede nell’animo dell’eroe e comanda a tutte l’altre virtú. Perché aveva osservato la giustizia legale (la qual siede nell’animo della civil potestá sovrana) comandar alla prudenza nel senato, alla fortezza negli eserciti, alla temperanza nelle feste, alla giustizia particolare, cosí distributiva negli erari, come per lo piú commutativa nel fòro, e la commutativa la proporzione aritmetica e la distributiva usare la geometrica. E dovette avvertire questa dal censo, ch’è la pianta delle repubbliche popolari, il quale distribuisce gli onori e i pesi con la proporzione geometrica, secondo i patrimoni de’ cittadini. Perché innanzi non si era inteso altro che la sola aritmetica; onde Astrea, la giustizia eroica, ci fu dipinta con la bilancia, e nella legge delle XII Tavole tutte le pene — le quali ora i filosofi, i morali teologi e dottori che scrivono de iure publico dicono

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doversi dispensare dalla giustizia distributiva con la proporzione geometrica — tutte si leggono richiamate a «duplio» quelle in danaio e [a] «talio» l’afflittive del corpo. E, poiché la pena del taglione fu ritruovata da Radamanto, per cotal merito egli ne fu fatto giudice nell’inferno, dove certamente si distribuiscono pene. E ’l taglione da Aristotile ne’ Libri morali fu detto «giusto pittagorico», ritrovato da quel Pittagora che si è qui truovato fondatore di nazione, i cui nobili della Magna Grecia si dissero pittagorici, come sopra abbiamo osservato: che sarebbe vergogna di Pittagora il quale poi divenne sublime filosofo e mattematico.

[1043] Dallo che tutto si conchiude che dalla piazza d’Atene uscirono tali princípi di metafisica, di logica, di morale. E dall’avviso di Solone dato agli ateniesi: «Nosce te ipsum» (conforme ragionammo sopra in uno de’ corollari della Logica poetica) uscirono le repubbliche popolari, dalle repubbliche popolari le leggi, e dalle leggi uscí la filosofia; e Solone, da sappiente di sapienza volgare, fu creduto sappiente di sapienza riposta. Che sarebbe una particella della storia della filosofia narrata filosoficamente, ed ultima ripruova delle tante che ’n questi libri si son fatte contro Polibio, il qual diceva che, se vi fussero al mondo filosofi, non farebber uopo religioni. Ché se non vi fussero state religioni, e quindi repubbliche, non sarebber affatto al mondo filosofi, e che se le cose umane non avesse cosí condotto la provvedenza divina, non si avrebbe niuna idea né di scienza né di virtú.

[1044] Ora, ritornando al proposito e [per] conchiudere l’argomento che ragioniamo, da questi tempi umani, ne’ quali provennero le repubbliche popolari e appresso le monarchie, intesero che le cause, le quali prima erano state formole cautelate di propie e precise parole (che a «cavendo» si dissero dapprima «cavissae», e poi restaron dette in accorcio «caussae»), fussero essi affari o negozi negli altri contratti (i qual’affari o negozi oggi solennizzano i patti, i quali nell’atto del contrarre son convenuti acciocché producano l’azioni); ed in quelli che sono valevoli titoli a trasferir il dominio, solennizzassero la natural

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tradizione per farlo d’un in altro passare, e ne’ contratti soli che si dicono compiersi con le parole (che sono le stipulazioni), in quelli esse cautele fussero le «cause» nella lor antica propietá. Le quali cose qui dette illustrano vieppiú i princípi sopra posti dell’obbligazioni che nascono da’ contratti e da’ patti.

[1045] Insomma — non essendo altro l’uomo, propiamente, che mente, corpo e favella, e la favella essendo come posta in mezzo alla mente ed al corpo — il certo d’intorno al giusto cominciò ne’ tempi muti dal corpo; dipoi, ritruovate le favelle che si dicon articolate, passò alle certe idee, ovvero formole di parole; finalmente, essendosi spiegata tutta la nostra umana ragione, andò a terminare nel vero dell’idee d’intorno al giusto, determinate con la ragione dell’ultime circostanze de’ fatti. Ch’è una formola informe d’ogni forma particolare, che ’l dottissimo Varrone chiamava «formulam naturae», ch’a guisa di luce, di sé informa in tutte le ultime minutissime parti della lor superficie i corpi opachi de’ fatti sopra i quali ella è diffusa, siccome negli Elementi si è tutto ciò divisato.

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LIBRO QUINTO del ricorso delle cose umane nel risurgere che fanno le nazioni

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[Introduzione]

[1046] Agl’innumerabili luoghi, che, per tutta quest’opera, d’intorno a innumerabili materie si sono finora sparsamente osservati corrispondersi con maravigliosa acconcezza i tempi barbari primi e i tempi barbari ritornati, si può facilmente intendere il ricorso delle cose umane nel risurgere che fanno le nazioni. Ma, per maggiormente confermarlo, ci piace in quest’ultimo libro dar a quest’argomento un luogo particolare, per ischiarire con maggior lume i tempi della barbarie seconda (i quali erano giaciuti piú oscuri di quelli della barbarie prima, che chiamava «oscuri», nella sua divisione de’ tempi, il dottissimo dell’antichitá prime Marco Terenzio Varrone), e per dimostrar altresí come l’Ottimo Grandissimo Iddio i consigli della sua provvedenza, con cui ha condotto le cose umane di tutte le nazioni, ha fatto servire agl’ineffabili decreti della sua grazia.

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[Capitolo Primo]
[La storia barbara ultima schiarita col ricorso
della storia barbara prima]

[1047] Imperciocché, avendo per vie sovraumane schiarita e ferma la veritá della cristiana religione con la virtú de’ martiri incontro la potenza romana e con la dottrina de’ Padri e co’ miracoli incontro la vana sapienza greca, avendo poi a surgere nazioni armate, ch’avevano da combattere da ogni parte la vera divinitá del suo Autore, permise nascere nuovo ordine d’umanitá tralle nazioni, acciocché secondo il natural corso delle medesime cose umane ella fermamente fussesi stabilita.

[1048] Con tal eterno consiglio, rimenò i tempi veramente divini, ne’ quali gli re catolici dappertutto, per difendere la religion cristiana, della qual essi son protettori, vestirono le dalmatiche de’ diaconi e consagrarono le loro persone reali (onde serbano il titolo di «Sagra Real Maestá»), presero degnitadi ecclesiastiche, come di Ugone Ciapeto narra Sinforiano Camperio, nella Geanologia degli re di Francia, che s’intitolava «conte ed abate di Parigi», e ’l Paradino negli Annali della Borgogna osserva antichissime scritture nelle quali i principi di Francia comunemente «duchi ed abati» ovvero «conti ed abati» s’intitolavano. Cosí i primi re cristiani fondarono religioni armate, con le quali ristabilirono ne’ loro reami la cristiana catolica religione incontro ad ariani (de’ quali san Girolamo dice essere stato il mondo cristiano quasi tutto bruttato), contro saraceni ed altro gran numero d’infedeli.

[1049] Quivi ritornarono con veritá quelle che si dicevano «pura et pia bella» da’ popoli eroici; onde ora tutte le cristiane potenze con le loro corone sostengono sopra un orbe innalberata la croce, la qual avevano spiegata innanzi nelle bandiere, quando facevano le guerre che si dicevano «crociate».

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[1050] Ed è maraviglioso il ricorso di tali cose umane civili de’ tempi barbari ritornati, che, come gli antichi araldi, nell’intimare le guerre, essi «evocabant deos» dalle cittá alle quali le intimavano, con l’elegantissima formola e piena di splendore qual ci si conservò da Macrobio, onde credevano che le genti vinte rimanessero senza dèi, e quindi senz’auspíci (ch’è ’l primo principio di tutto ciò ch’abbiamo in quest’opera ragionato) — ché, per lo diritto eroico delle vittorie, a’ vinti non rimaneva niuna di tutte le civili cosí pubbliche come private ragioni, le quali, come abbiamo sopra pienamente pruovato principalmente con la storia romana, tutte ne’ tempi eroici erano dipendenze degli auspíci divini; lo che tutto era contenuto nella formola delle rese eroiche, la quale Tarquinio Prisco praticò in quella di Collazia, che gli arresi «debebant divina et humana omnia» a’ popoli vincitori; — cosí i barbari ultimi, nel prendere delle cittá, non ad altro principalmente attendevano ch’a spiare, truovare e portar via dalle cittá prese famosi depositi o reliquie di santi. Ond’è che i popoli in que’ tempi erano diligentissimi in sotterrarle e nasconderle, e perciò tai luoghi dappertutto si osservano nelle chiese gli piú addentrati e profondi: ch’è la cagione per la quale in tali tempi avvennero quasi tutte le traslazioni de’ corpi santi. E n’è restato questo vestigio: che tutte le campane delle cittá prese i popoli vinti devono riscattare da’ generali capitani vittoriosi.

[1051] Di piú, perché fino dal Quattrocento, cominciando ad allagare l’Europa ed anco l’Affrica e l’Asia tante barbare nazioni, e i popoli vincitori non s’intendendo co’ vinti dalla barbarie de’ nimici della catolica religione, avvenne che di que’ tempi ferrei non si truova scrittura in lingua volgare propia di quelli tempi, o italiana o francese o spagnuola o anco tedesca (con la quale, come vuole l’Aventino, De annalibus boiorum, non s’incominciaron a scriver diplomi che da’ tempi di Federico di Suevia, anzi voglion altri da quelli dell’imperadore Ridolfo d’Austria, come altra volta si è detto), e tra tutte le nazioni anzidette non si truovano scritture che ’n latino barbaro, della qual lingua s’intendevano pochissimi nobili, ch’erano

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ecclesiastici: onde resta da immaginare che ’n tutti que’ secoli infelici le nazioni fussero ritornate a parlare una lingua muta tra loro. Per la quale scarsezza di volgari lettere, dovette ritornar dappertutto la scrittura geroglifica dell’imprese gentilizie, le quali, per accertar i domíni (come sopra si è ragionata), significassero diritti signorili sopra, per lo piú, case, sepolcri, campi ed armenti.

[1052] Ritornarono certe spezie di giudizi divini, che furon detti «purgazioni canoniche»; de’ quali giudizi una spezie abbiam sopra dimostro ne’ tempi barbari primi essere stati i duelli, i quali però non furono riconosciuti da’ sagri canoni.

[1053] Ritornarono i ladronecci eroici; de’ quali vedemmo sopra che, come gli eroi s’avevano recato ad onore d’esser chiamati «ladroni», cosí titolo di signoria fu quello poi di «corsali».

[1054] Ritornarono le ripresaglie eroiche, le quali sopra osservammo aver durato fin a’ tempi di Bartolo.

[1055] E, perché le guerre de’ tempi barbari ultimi furono, come quelle de’ primi, tutte di religione, quali testé abbiam veduto, ritornarono le schiavitú eroiche, che durarono molto tempo tra esse nazioni cristiane medesime. Perché, costumandosi in que’ tempi i duelli, i vincitori credevano che i vinti non avessero Dio (come sopra, ove ragionammo de’ duelli, si è detto), e sí gli tenevano niente meno che bestie. Il qual senso di nazioni si conserva tuttavia tra’ cristiani e turchi. La qual voce vuol dire «cani» (onde i cristiani, ove vogliono o debbon trattare co’ turchi con civiltá, gli chiamano «musulmani», che significa «veri credenti»); e i turchi, al contrario, i cristiani chiamano «porci». E quindi nelle guerre entrambi praticano le schiavitú eroiche, quantunque con maggior mansuetudine i cristiani.

[1056] Ma sopra tutto maraviglioso è ’l ricorso che ’n questa parte fecero le cose umane, che ’n tali tempi divini ricominciarono i primi asili del mondo antico, dentro i quali udimmo da Livio essersi fondate tutte le prime cittá. Perché — scorrendo dappertutto le violenze, le rapine, l’uccisioni, per la somma ferocia e fierezza di que’ secoli barbarissimi; né (come si è detto

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nelle Degnitá) essendovi altro mezzo efficace di ritener in freno gli uomini, prosciolti da tutte le leggi umane, che le divine, dettate dalla religione — naturalmente, per timore d’esser oppressi e spenti gli uomini, come in tanta barbarie piú mansueti, essi si portavano da’ vescovi e dagli abati di que’ secoli violenti, e ponevano sé, le loro famiglie e i loro patrimoni sotto la protezione di quelli, e da quelli vi erano ricevuti; le quali suggezioni e protezione sono i principali costitutivi de’ feudi. Ond’è che nella Germania, che dovett’essere piú fiera e feroce di tutte l’altre nazioni d’Europa, restarono quasi piú sovrani ecclesiastici (o vescovi o abati) che secolari, e, come si è detto, nella Francia quanti sovrani principi erano, tanti s’intitolavano conti o duchi ed abati. Quindi nell’Europa in uno sformato numero tante cittá, terre e castella s’osservano con nomi di santi; perché in luoghi o erti o riposti, per udire la messa e fare gli altri ufizi di pietá comandati dalla nostra religione, si aprivano picciole chiesiccuole, le quali si possono diffinire essere state in que’ tempi i naturali asili de’ cristiani, i quali ivi da presso fabbricavano i lor abituri: onde dappertutto le piú antiche cose, che si osservano di questa barbarie seconda, sono picciole chiese in sí fatti luoghi, per lo piú dirute. Di tutto ciò un illustre esempio nostrale sia l’abadia di San Lorenzo d’Aversa, a cui s’incorporò l’abadia di San Lorenzo di Capova. Ella, nella Campania, Sannio, Puglia e nell’antica Calabria, dal fiume Volturno fin al Mar Picciolo di Taranto, governò cento e dieci chiese, o per se stessa o per abati o monaci a lei soggetti; e quasi di tutti i luoghi anzidetti gli abati di San Lorenzo eran essi baroni.
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[Capitolo Secondo]
Ricorso che fanno le nazioni sopra la natura eterna de’ feudi e quindi il ricorso del diritto romano antico fatto col diritto feudale.

[1057] A questi succedettero certi tempi eroici, per una certa distinzione ritornata di nature quasi diverse, eroica ed umana; da che esce la cagione di quell’effetto, di che si maraviglia Ottomano, ch’i vassalli rustici in lingua feudale si dicon «homines». Dalla qual voce deve venir l’origine di quelle due voci feudali «hominium» ed «homagium», che significano lo stesso; detto «hominium» quasi «hominis dominium», che Elmodio, all’osservar di Cuiacio, vuole che sia piú elegante che «homagium», detto quasi «hominis agium», menamento dell’uomo o vassallo dove voglia il barone. La qual voce barbara i feudisti eruditi, per lo vicendevole rapporto, con tutta latina eleganza, voltano «obsequium», che dapprima fu una prontezza di seguir l’uomo, ovunque il menasse, a coltivar i suoi terreni, l’eroe. La qual voce «obsequium» contiene eminentemente la fedeltá che si deve dal vassallo al barone: tanto che l’«ossequio» de’ latini significa unitamente e l’omaggio e la fedeltá che si debbono giurare nell’investiture de’ feudi; e l’ossequio appresso i romani antichi non si scompagnava da quella ch’a’ medesimi restò detta «opera militaris», e da’ nostri feudisti si dice «militare servitium», per la quale i plebei romani lunga etá a loro propie spese serviron a’ nobili nelle guerre, come ce n’ha accertato, sopra, essa storia romana. Il qual ossequio con l’opere restò finalmente a’ liberti ovvero affranchiti inverso i loro patroni, il quale aveva incominciato, come sopra osservammo sulla storia romana, da’ tempi che Romolo fondò Roma sopra le clientele, che truovammo protezioni di contadini giornalieri da esso ricevuti al suo asilo, le quali

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«clientele», come indicammo nelle Degnitá, non si possono sulla storia antica spiegare con piú propietá che per «feudi», siccome i feudisti eruditi con sí fatta elegante voce latina «clientela» voltano questa barbara «feudum».

[1058] E di tali princípi di cose apertamente ci convincono l’origini di esse voci «opera» e «servitium». Perché «opera», nella sua significazione natia, è la fatiga d’un giorno d’un contadino, detto quindi da’ latini «operarius», che gl’italiani dicono «giornaliere»: qual operaio o giornaliere, che non aveva niun privilegio di cittadino, si duol essere stato Achille trattato da Agamennone, che gli aveva a torto tolta la sua Briseide. Quindi appo i medesimi latini restarono detti «greges operarum», siccome anco «greges servorum», perché tali operai prima, siccome gli schiavi dopo, erano dagli eroi riputati quali le bestie, che si dicono «pasci gregatim». [E dovettero prima essere tai greggi d’uomini, dipoi le greggi de’ bestiami;] e, con lo stesso vicendevol rapporto, dovettero prima essere i pastori di sí fatti uomini (come con tal aggiunto perpetuo di «pastori de’ popoli» sempre Omero appella gli eroi), e dopo essere stati i pastori degli armenti e de’ greggi. E cel conferma la voce νόμος, ch’a’ greci significa e «legge» e «pasco», come si è sopra osservato; perché con la prima legge agraria fu accordato a’ famoli sollevati il sostentamento in terreni assegnati lor dagli eroi, il quale fu detto «pasco», propio di tali bestie, come il cibo è propio degli uomini.

[1059] Tal propietá di pascere tali primi greggi del mondo dev’essere stata d’Apollo, che truovammo dio della luce civile, o sia della nobiltá, ove dalla storia favolosa ci è narrato pastore in Anfriso; come fu pastore Paride, il quale certamente era reale di Troia. E tal è ’l padre di famiglia (che Omero appella «re»), il quale con lo scettro comanda il bue arrosto dividersi a’ mietitori, descritto nello scudo d’Achille, dove sopra abbiamo fatto vedere la storia del mondo, e quivi esser fissa l’epoca delle famiglie. Perché de’ nostri pastori non è propio il pascere, ma il guidar e guardare gli armenti e i greggi, non avendosi potuto la pastoreccia introdurre che dopo alquanto assicurati

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i confini delle prime cittá, per gli ladronecci che si celebravano a’ tempi eroici. Che dev’essere la cagione perché la bucolica o pastoral poesia venne a’ tempi umanissimi egualmente tra’ greci con Teocrito, tra’ latini con Virgilio e tra gl’italiani con Sannazaro.

[1060] La voce «servitium» appruova queste cose istesse essere ricorse ne’ tempi barbari ultimi: per lo cui contrario rapporto il barone si disse «senior», nel senso nel qual s’intende «signore». Talché questi servi nati in casa dovetter esser gli antichi franchi de’ quali si maraviglia il Bodino, e generalmente ritruovati, sopra, gli stessi che «vernae», li quali si chiamarono dagli antichi romani; da’ quali «vernaculae» si dissero le lingue volgari, introdutte dal volgo de’ popoli, che noi sopra truovammo essere state le plebi dell’eroiche cittá, siccome la lingua poetica era stata introdutta dagli eroi, ovvero nobili delle prime repubbliche.

[1061] Tal ossequio d’affranchiti — essendosi poi sparsa e quindi dispersa la potenza de’ baroni tra’ popoli nelle guerre civili, nelle qual’i potenti han da dipender da’ popoli, e quindi facilmente riunita essendosi nelle persone de’ re monarchi — passò in quello che si dice «obsequium principis», nel qual, all’avviso di Tacito, consiste tutto il dovere de’ soggetti alle monarchie. Al contrario, per la differenza creduta delle due nature, un’eroica, altra umana, i signori de’ feudi furon detti «baroni», nello stesso senso che noi qui sopra truovammo essere stati detti «eroi» da’ poeti greci e «viri» dagli antichi latini; lo che restò agli spagnuoli, da’ quali l’«uomo» è detto «baron», appresi tai vassalli, perché deboli, nel sentimento eroico, che sopra dimostrammo, di «femmine».

[1062] Ed oltre a ciò che testé abbiam ragionato, i baroni furon detti «signori», che non può altronde venire che dal latino «seniores», perché d’essi si dovettero comporre i primi pubblici parlamenti de’ nuovi reami d’Europa; appunto come Romolo il Consiglio pubblico, che naturalmente aveva dovuto comporre de’ piú vecchi della nobiltá, aveva detto «senatum». E, come da quelli, che perciò erano e si dicevano «patres»,

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dovettero venire detti «patroni» coloro che dánno agli schiavi la libertá; cosí, in italiano, da questi dovettero venir chiamati «padroni» in significazione di «protettori», i quali «padroni» ritengono nella loro voce tutta la propietá ed eleganza latina. A’quali, per lo contrario, con altrettanta latina eleganza e propietá risponde la voce «clientes», in sentimento di «vassalli rustici», a’ quali Servio Tullio, con ordinar il censo, qual è stato sopra spiegato, permise sí fatti feudi, col piú corto passo col quale poté procedere sulle clientele di Romolo, come si è sopra pienamente pruovato. Che son appunto gli affranchiti, i quali poi diedero il nome alla nazione de’ franchi, come si è detto, nel libro precedente, al Bodino.

[1063] In cotal guisa ritornarono i feudi, uscendo dalla lor eterna sorgiva additata nelle Degnitá, dove indicammo i benefizi che si possono sperare in civil natura; onde i feudi, con tutta propietá ed eleganza latina, da’ feudisti eruditi si dicono «beneficia». Ch’è quello ch’osserva, ma senza farne uso, Ottomano: che i vincitori tenevano per sé i campi colti delle conquiste e davano a’ poveri vinti i campi incolti per sostentarvisi. E sí ritornarono i feudi del primo mondo che nel secondo libro si son truovati, rincominciando però (come dovett’essere per natura, quale sopra abbiam ragionato) da feudi rustici personali, che truovammo essere state dapprima le clientele di Romolo, delle quali osservammo nelle Degnitá essere stato sparso tutto l’antico mondo de’ popoli. Le quali clientele eroiche, nello splendore della romana libertá popolare, passarono in quel costume col qual i plebei con le toghe si portavano la mattina a far la corte a’ grandi signori, e davano loro il titolo degli antichi eroi: «Ave, rex», gli menavano nel fòro e gli rimenavano la sera in casa; e i signori (conforme gli antichi eroi furon detti «pastori de’ popoli») davano loro la cena.

[1064] Tai vassalli personali devon essere stati appo gli antichi romani i primi «vades», che poi restarono cosí detti i rei obbligati nella persona di seguir i lor attori in giudizio: la qual obbligazione dicesi «vadimonium». I quali vades, per le nostre Origini della lingua latina, debbon esser derivati dal retto

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«vas», che da’ greci fu detto βᾶς e da’ barbari «was», onde fu poi «wassus» e finalmente «vassallus». Della quale spezie di vassalli abbondano oggi tuttavia i regni del piú freddo Settentrione, che ritengono ancor troppo della barbarie, e sopra tutti quel di Polonia, ove si dicono «kmetos», e son una spezie di schiavi, de’ quali que’ palatini sogliono giuocarsi l’intiere famiglie, le quali debbono passare a servir ad altri nuovi padroni; che debbon essere gl’incatenati per gli orecchi, che, con catene d’oro poetico (cioè del frumento) che gli escono di bocca, gli si mena, dove vuol, dietro l’Ercole gallico.

[1065] Quindi si passò a’ feudi rustici di spezie reali, a’ quali [si giunse] con la prima legge agraria delle nazioni, che truovammo essere stata tra’ romani quella con la quale Servio Tullio ordinò il primo censo, per lo quale permise, come ritruovammo, a’ plebei il dominio bonitario de’ campi loro assegnati da’ nobili sotto certi non, come innanzi, sol personali ma anco reali pesi; che dovetter esser i primi «mancipes», che poi restaron detti coloro i quali in robe stabili son obbligati all’erario. Della qual spezie debbon essere stati i vinti, a’ quali Ottomano disse poc’anzi ch’i vincitori davano i campi incolti delle conquiste per sostentarvisi col coltivargli; e sí ritornarono gli Antei annodati alle terre da Ercole greco e i nessi del dio Fidio, ovvero Ercole romano (qual sopra truovammo), sciolti finalmente dalla legge petelia.

[1066] Tali nessi della legge petelia, per le cose le quali sopra ne ragionammo, con tutta loro propietá cadon a livello per ispiegar i vassalli, che dapprima si dovettero dire «ligi», [perché] da cotal nodo legati; i quali ora da’ feudisti son diffiniti coloro i quali debbono riconoscere per amici o nimici tutti gli amici o nimici del lor signore: ch’è appunto il giuramento ch’i vassalli germani antichi, appo Tacito, come altra volta l’udimmo, davano a’ loro principi di servire alla loro gloria. Tali vassalli ligi, poscia, isplendidendosi tali feudi fin a sovrani civili, furono gli re vinti, a’ quali il popolo romano, con la formola solenne con cui la storia romana il racconta, «regna dono dabat», ch’era tanto dire quanto «beneficio dabat»; e ne divenivano

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alleati del popolo romano, di quella spezie d’alleanza che i latini dicevano «foedus inaequale», e se n’appellavano «re amici del popolo romano», nel sentimento che dagl’imperadori si dicevano «amici» i loro nobili cortegiani. La qual alleanza ineguale non era altro ch’un’investitura di feudo sovrano, la quale si concepiva con quella formola che ci lasciò stesa Livio: che tal re alleato «servaret maiestatem populi romani»; appunto come Paolo giureconsulto dice che ’l pretore rende ragione «servata maiestate populi romani», cioè che rende ragione a chi le leggi la dánno, la niega a chi le leggi la niegano. Talché tali re alleati erano signori di feudi sovrani soggetti a maggiore sovranitá: di che ritornò un senso comune all’Europa, che per lo piú non vi hanno il titolo di «Maestá» che grandi re, signori di grandi regni e di numerose provincie.

[1067] Con tali feudi rustici, da’ qual’incominciarono queste cose, ritornarono l’enfiteusi, con le quali era stata coltivata la gran selva antica della terra; onde il laudemio restò a significar egualmente ciò che paga il vassallo al signore e l’enfiteuticario al padrone diretto.

[1068] Ritornarono l’antiche clientele romane, che furono dette «commende», le quali poco piú sopra abbiamo fatto vedere; onde i vassalli, con latina eleganza e propietá, da’ feudisti eruditi ne sono detti «clientes», ed essi feudi si dicono «clientelae».

[1069] Ritornarono i censi, delle spezie del censo ordinato da Servio Tullio, per lo quale i plebei romani dovettero lungo tempo servir a’ nobili nelle guerre a lor propie spese; talché i vassalli detti ora «angarii» e «perangarii» furono gli antichi assidui romani, che, come truovammo sopra, «suis assibus militabant»; e i nobili fino alla legge petelia, che sciolse alla plebe romana il diritto feudale del nodo, ebbero la ragione del carcere privato sopra i plebei debitori.

[1070] Ritornarono le precarie, che dovettero dapprima essere di terreni dati da’ signori alle preghiere de’ poveri per potervisi sostentare col coltivargli; ché tali sono le possessioni appunto, le quali non mai conobbe la legge delle XII Tavole, come sopra si è dimostrato.

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[1071] E perché la barbarie con le violenze rompe la fede de’ commerzi, né lascia altro curar a’ popoli ch’appena le cose le quali alla natural vita fanno bisogno, e perché tutte le rendite dovetter esser in frutti che si dicono «naturali», perciò a’ medesimi tempi vennero anco i livelli come permutazioni di beni stabili. De’ quali si dovett’intender l’utilitá, com’altra volta si è detto, ch’altri abbondasse di campi che dassero una spezie di frutti de’ quali altri avesse scarsezza, e cosí a vicenda, e perciò gli scambiassero tra di loro.

[1072] Ritornarono le mancipazioni, con le quali il vassallo poneva le mani entro le mani del suo signore, per significare fede e suggezione; onde i vassalli rustici, per lo censo di Servio Tullio, poco sopra abbiam detto essere stati i primi «mancipes» de’ romani. E, con la mancipazione, ritornò la divisione delle cose mancipi e nec mancipi, perché i corpi feudali sono nec mancipi, ovvero innalienabili dal vassallo, e sono mancipi del signore; appunto come i fondi delle romane provincie furono nec mancipi de’ provinciali e mancipi de’ romani. Nell’atto delle mancipazioni, ritornarono le stipulazioni, con le infestucazioni o investiture, che noi sopra dimostrammo essere state l’istesse. Con le stipulazioni, ritornarono quelle che dall’antica giurisprudenza romana osservammo sopra propiamente essere state dapprima dette «cavissae», che poi in accorcio restarono dette «caussae», che da’ tempi barbari secondi della stessa latina origine furon dette «cautele»; e ’l solennizzare con quelle i patti e i contratti si disse «homologare», da quelli «uomini» da’ quali qui sopra vedemmo detti «hominium» ed «homagium»: perocché tutti i contratti di quelli tempi dovetter esser feudali. Cosí, con le cautele, ritornarono i patti cautelati nell’atto della mancipazione, che «stipulati» si dissero da’ giureconsulti romani, che sopra truovammo detti da «stipula» che veste il grano; e sí nello stesso senso ch’i dottori barbari, da esse investiture, dette anco «infestucazioni», dissero «patti vestiti». E i patti non cautelati, con la stessa significazione e voce, da entrambi si dissero «patti nudi».

[1073] Ritornarono le due spezie di dominio diretto ed utile, ch’a

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livello rispondono al quiritario e bonitario degli antichi romani. E nacque il dominio diretto come tra’ romani era nato prima il dominio quiritario, che noi truovammo nel suo incominciamento essere stato dominio de’ terreni dati a’ plebei da’ nobili; dalla possessione de’ quali se questi fussero caduti, dovevano sperimentare la revindicazione con la formola «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium», in tal senso (come abbiamo sopra dimostro) ch’essa revindicazione non altro fusse ch’una laudazione di tutto l’ordine de’ nobili (che nell’aristocrazia romana aveva fatto essa cittá) in autori, da’ quali essi plebei avevano la cagione del dominio civile, per lo quale potevano vindicar essi fondi. Il qual dominio dalla legge delle XII Tavole fu sempre appellato «autoritas», dall’autoritá di dominio ch’aveva esso senato regnante sul largo fondo romano, nel quale il popolo poi, con la libertá popolare, ebbe il sovrano imperio, come sopra si è ragionato.

[1074] Della qual «autoritá» della barbarie seconda, alla quale, come ad innumerabili altre cose, noi in quest’opera facciam luce con le antichitá della prima (tanto ci sono riusciti piú oscuri de’ tempi della barbarie prima questi della seconda!), sono rimasti tre assai evidenti vestigi in queste tre voci feudali. Prima nella voce «diretto», la qual conferma che tal azione dapprima era autorizzata dal diretto padrone. Dipoi nella voce «laudemio», che fu detto pagarsi eziandio per lo feudo che si fusse dovuto per cotal laudazione in autore che noi diciamo. Finalmente nella voce «laudo», che dovette dapprima significare sentenza di giudice in tali spezie di cause, che poi restò a’ giudizi che si dicono «compromessi»; perché tali giudizi sembravano terminarsi amichevolmente a petto de’ giudizi che si agitavano d’intorno agli allodi (che Budeo oppina essere stati cosí detti quasi «allaudi», come appo gl’italiani da «laude» si è fatto «lode»), per gli quali prima i signori in duello la si avevan dovuto veder con l’armi, come sopra si è dimostrato. Il qual costume ha durato infino alla mia etá nel nostro Reame di Napoli, dove i baroni, non coi giudizi civili, ma co’ duelli vendicavano gli attentati fatti da altri baroni dentro i

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territori de’ loro feudi. E come il dominio quiritario degli antichi romani, cosí il diretto degli antichi barbari restarono finalmente a significare il dominio che produce azione civile reale.

[1075] E qui si dá un assai luminoso luogo di contemplare nel ricorso che fanno le nazioni anco il ricorso che fece la sorte de’ giureconsolti romani ultimi con quella de’ dottori barbari ultimi; ché, siccome quelli avevano giá a’ tempi loro perduto di vista il diritto romano antico, com’abbiamo a mille pruove sopra fatto vedere, cosí questi negli ultimi loro tempi perderono di veduta l’antico diritto feudale. Perciò gl’interpetri eruditi della romana ragione risolutamente niegano queste due spezie barbare di dominio essere state conosciute dal diritto romano, attendendo al diverso suono delle parole, nulla intendendo essa identitá delle cose.

[1076] Ritornarono i beni ex iure optimo, qual’i feudisti eruditi diffiniscono i beni allodiali, liberi d’ogni peso pubblico nonché privato, e ’l confrontano con quelle poche case che Cicerone osserva ex iure optimo a’ suoi tempi essere restate in Roma. Però, come di tal sorta di beni si perdé la notizia entro le leggi romane ultime, cosí di tali allodi non si truova a’ nostri tempi pur uno affatto. E, come i predi ex iure optimo de’ romani innanzi, cosí dopoi gli allodi ritornarono ad essere beni stabili liberi d’ogni peso reale privato, ma soggetti a’ pesi reali pubblici; perché ritornò la guisa con la quale dal censo ordinato da Servio Tullio si formò il censo che fu il fondo dell’erario romano: la qual guisa sopra si è ritruovata. Talché gli allodi e i feudi, ch’empiono la somma divisione delle cose in diritto feudale, si distinguettero tra loro dapprima: ch’i beni feudali portavano di séguito la laudazione del signore, gli allodi non giá. Dove, senza questi princípi, si debbono perdere tutt’i feudisti eruditi, come gli allodi, ch’essi, con Cicerone, voltano in latino «bona ex iure optimo», ci vennero detti «beni del fuso», i quali, nel propio loro significato, come sopra si è detto, erano beni di un diritto fortissimo, non infievolito da niuno peso straniero, anche pubblico; che, come pure sopra abbiam detto, furono i beni de’ padri nello stato

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delle famiglie, e durarono molto tempo in quello delle prime cittá, i quali beni essi avevano acquistato con le fatighe d’Ercole. La qual difficultá, per questi stessi princípi, facilmente si scioglie con quel medesimo Ercole il quale poi filava, divenuto servo di Iole e d’Onfale: cioè che gli eroi s’effeminarono e cedettero le loro ragioni eroiche a’ plebei, ch’essi avevano tenuti per femmine (a petto de’ quali essi si tenevano e si chiamavano «viri», come si è sopra spiegato), e soffersero assoggettirsi i loro beni all’erario col censo, il quale prima fu pianta delle repubbliche popolari e poi si truovò acconcio a starvi sopra le monarchie.

[1077] Cosí, per tal diritto feudale antico, che ne’ tempi appresso si era perduto di vista, ritornarono i fondi ex iure quiritium, che spiegammo «diritto de’ romani in pubblica ragunanza, armati di lancie», che dicevano «quires»; de’ quali si concepí la formola della revindicazione: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium», ch’era, come si è detto, una laudazione in autore della cittá eroica romana; — come dalla barbarie seconda certamente i feudi si dissero «beni della lancia», i quali portavano la laudazione de’ signori in autori, a differenza degli allodi ultimi, detti «beni del fuso» (col quale Ercole, invilito, fila, fatto servo di femmine): onde sopra diemmo l’origine eroica al motto dell’arme reale di Francia, iscritto «Lilia non nent», ché ’n quel regno non succedon le donne. Perché ritornarono le successioni gentilizie della legge delle XII Tavole, che truovammo essere «ius gentium romanorum», quale da Baldo udimmo la legge salica dirsi «ius gentium Gallorum»; la qual fu celebrata certamente per la Germania, e cosí dovette osservarsi per tutte l’altre prime barbare nazioni d’Europa, ma poi si ristrinse nella Francia e nella Savoia.

[1078] Ritornarono finalmente le corti armate, quali sopra truovammo essere state le ragunanze eroiche che si tenevano sotto l’armi, dette di cureti greci e di quiriti romani; e i primi parlamenti de’ reami d’Europa dovetter essere di «baroni», come quel di Francia certamente lo fu di pari. Del quale la storia francese apertamente ci narra essere stati capi sul principio

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essi re, i quali in qualitá di commessari criavano i pari della curia, i quali giudicasser le cause; onde poi restaron detti i «duchi e pari» di Francia. Appunto come il primo giudizio, che Ciceron dice essersi agitato della vita d’un cittadino romano, fu quello in cui il re Tullo Ostilio criò i duumviri in qualitá di commessari, i quali, per dirla con essa formola che Tito Livio n’arreca, «in Horatium perduellionem dicerent», il qual aveva ucciso la sua sorella.

[1079] Perché, nella severitá di tai tempi eroici, ogn’ammazzamento di cittadino (quando le cittá si componevano di soli eroi, come sopra pienamente si è dimostrato) era riputato un’ostilitá fatta contro la patria, ch’è appunto «perduellio»; ed ogni tal ammazzamento era detto «parricidium», perch’era fatto d’un padre, o sia d’un nobile, siccome sopra vedemmo in tali tempi Roma dividersi in padri e plebe. Perciò da Romolo infin a Tullo Ostilio non vi fu accusa d’alcun nobile ucciso, perché i nobili dovevan esser attenti a non commettere tali offese, praticandosi tra loro i duelli, de’ quali sopra si è ragionato; e, perché, nel caso di Orazio, non v’era chi con duello avesse vindicato privatamente l’ammazzamento d’Orazia, perciò da Tullo Ostilio ne fu la prima volta ordinato un giudizio. Altronde, gli ammazzamenti de’ plebei o eran fatti da’ loro padroni medesimi, e niuno li poteva accusare, o erano fatti da altri, e, come di servi altrui, si rifaceva al padrone il danno, come ancor si costuma nella Polonia, Littuania, Svezia, Danimarca, Norvegia. Ma gl’interpetri eruditi della romana ragione non videro questa difficultá, perché riposarono sulla vana oppenione dell’innocenza del secol d’oro, siccome i politici, per la stessa cagione, riposarono su quel detto d’Aristotile: che nell’antiche repubbliche non erano leggi d’intorno a’ privati torti ed offese; onde Tacito, Sallustio ed altri per altro acutissimi autori, ove narrano dell’origine delle repubbliche e delle leggi, raccontano, del primo stato innanzi delle cittá, che gli uomini da principio menarono una vita come tanti Adami nello stato dell’innocenza. Ma, poi che entrarono nella cittá quelli «homines» de’ quali si maraviglia Ottomano e da’ quali viene

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il diritto naturale delle genti che Ulpiano dice «humanarum», indi in poi l’ammazzamento d’ogni uomo fu detto «homicidium».

[1080] Or in sí fatti parlamenti dovettero discettarsi cause feudali d’intorno o diritti o successioni o devoluzioni de’ feudi per cagione di fellonia o di caducazione; le quali cause, confermate piú volte con tali giudicature, fecero le consuetudini feudali, le quali sono le piú antiche di tutte l’altre d’Europa, che ci attestano il diritto natural delle genti esser nato con tali umani costumi de’ feudi, come sopra si è pienamente pruovato.

[1081] Finalmente, come dalla sentenza, con la qual era stato condennato Orazio, permise il re Tullo al reo l’appellagione al popolo, ch’allor era di soli nobili, come sopra si è dimostrato, perché da un senato regnante non vi è altro rimedio a’ rei che ’l ricorso al senato medesimo; cosí e non altrimente dovettero praticar i nobili de’ tempi barbari ritornati di richiamarsi ad essi re ne’ di lor parlamenti, come per esemplo agli re di Francia, che dapprima ne furon capi.

[1082] De’ quali parlamenti eroici serba un gran vestigio il Sagro Consiglio napoletano, al cui presidente si dá titolo di «Sagra Regal Maestá», i consiglieri s’appellano «milites» e vi tengono luogo di commessari (perché ne’ tempi barbari secondi i soli nobili eran soldati, e i plebei servivano lor nelle guerre, come de’ tempi barbari primi l’osservammo in Omero e nella storia romana antica), e dalle di lui sentenze non v’è appellagione ad altro giudice, ma solamente il richiamo al medesimo tribunale.

[1083] Dalle quali cose tutte sopra qui noverate hassi a conchiudere che furono dappertutto reami, non diciamo di Stato, ma di governo aristocratici; come ancora nel freddo Settentrione or è la Polonia (come, da cencinquant’anni fa, lo erano la Suezia e la Danimarca), che, col tempo, senonsé le impediscano il natural corso straordinarie cagioni, verrá a perfettissima monarchia.

[1084] Lo che è tanto vero ch’esso Bodino giugne a dire del suo regno di Francia che fu, non giá di governo (come diciam noi), ma di Stato aristocratico duranti le due linee merovinga

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e carlovinga. Ora qui domandiamo il Bodino: — Come il regno di Francia diventò, qual ora è, perfettamente monarchico? Forse per una qualche legge regia, con la quale i paladini di Francia si spogliarono della loro potenza e la conferirono negli re della linea capetinga? — Se egli ricorre alla favola della legge regia finta da Triboniano, con la quale il popolo romano si spogliò del suo sovrano libero imperio e ’l conferí in Ottavio Augusto, per ravvisarla una favola, basta leggere le prime pagine degli Annali di Tacito, nelle quali narra l’ultime cose d’Augusto, con le quali legittima nella di lui persona aver incominciato la monarchia de’ romani, la qual sentirono tutte le nazioni aver incominciato da Augusto. — Forse perché la Francia da alcuno de’ capetingi fu conquistata con forza d’armi? — Ma di tal infelicitá la tengono lontana tutte le storie. Adunque e Bodino, e con lui tutti gli altri politici e tutti i giureconsulti c’hanno scritto de iure publico, devono riconoscere questa eterna natural legge regia, per la quale la potenza libera d’uno Stato, perché libera, deve attuarsi: talché, di quanto ne rallentano gli ottimati, di tanto vi debbano invigorire i popoli, finché vi divengano liberi; di quanto ne rallentano i popoli liberi, di tanto vi debbano invigorire gli re, fintanto che vi divengan monarchi. Per lo che, come quel de’ filosofi (o sia de’ morali teologi) è della ragione, cosí questo delle genti è diritto naturale dell’utilitá e della forza; il quale, com’i giureconsulti dicono, «usu exigente humanisque necessitatibus expostulantibus», dalle nazioni vien celebrato.

[1085] Da tante sí belle e sí eleganti espressioni della giurisprudenza romana antica, con le quali i feudisti eruditi mitigano di fatto e possono mitigare vieppiú la barbarie della dottrina feudale (sulle quali si è qui dimostrato convenirvi l’idee con somma propietá), intenda Oldendorpio (e tutti gli altri con lui) se ’l diritto feudale è nato dalle scintille dell’incendio dato da’ barbari al diritto romano; ché ’l diritto romano è nato dalle scintille de’ feudi, celebrati dalla prima barbarie del Lazio, sopra i quali nacquero tutte le repubbliche al mondo. Lo che, siccome in un particolar ragionamento sopra (ove ragionammo

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della Politica poetica delle prime) si è dimostrato, cosí in questo libro (conforme nell’Idea dell’opera avevamo promesso di dimostrare) si è veduto dentro la natura eterna de’ feudi ritruovarsi l’origini de’ nuovi reami d’Europa.

[1086] Ma finalmente, con gli studi aperti nell’universitá d’Italia, insegnandosi le leggi romane comprese ne’ libri di Giustiniano, le quali vi stanno concepute sul diritto naturale delle genti umane, le menti, giá piú spiegate e fattesi piú intelligenti, si diedero a coltivare la giurisprudenza della natural equitá, la qual adegua gl’ignobili co’ nobili in civile ragione, come lo son eguali in natura umana. E appunto come, da che Tiberio Coruncanio cominciò in Roma ad insegnare pubblicamente le leggi, n’incominciò ad uscire l’arcano di mano a’ nobili, e a poco a poco se n’infievolí la potenza; cosí avvenne a’ nobili de’ reami d’Europa, che si erano regolati con governi aristocratici, e si venne alle repubbliche libere e alle perfettissime monarchie.

[1087] Le quali forme di Stati, perché entrambe portano governi umani, comportevolmente si scambiano l’una con l’altra; ma richiamarsi a Stati aristocratici egli è quasi impossibile in natura civile. Tanto che Dione siragosano, quantunque della real casa, ed aveva cacciato un mostro de’ principi, qual fu Dionigio tiranno, da Siragosa, ed era tanto adorno di belle civili virtú che ’l resero degno dell’amicizia del divino Platone, perché tentò riordinarvi lo stato aristocratico, funne barbaramente ucciso; e i pittagorici (cioè, come sopra abbiamo spiegato, i nobili della Magna Grecia), per lo stesso attentato, furono tutti tagliati a pezzi, e pochi, che s’erano in luoghi forti salvati, furono dalla moltitudine bruciati vivi. Perché gli uomini plebei, una volta che si riconoscono essere d’ugual natura co’ nobili, naturalmente non sopportano di non esser loro uguagliati in civil ragione; lo che consieguono o nelle repubbliche libere o sotto le monarchie. Laonde, nella presente umanitá delle nazioni, le repubbliche aristocratiche, le quali ci sono rimaste pochissime, con mille solecite cure e accorti e saggi provvedimenti, vi tengon, insiem insieme, e in dovere e contenta la moltitudine.

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[Capitolo Terzo]
Descrizione del mondo antico e moderno delle nazioni osservata conforme al disegno de’ princípi di questa scienza.

[1088] Questo corso di cose umane civili non fecero Cartagine, Capova, Numanzia, dalle quali tre cittá Roma temé l’imperio del mondo: perché i cartaginesi furono prevenuti dalla natia acutezza affricana, che piú aguzzarono coi commerzi marittimi; i capovani furono prevenuti dalla mollezza del cielo e dall’abbondanza della Campagna felice; e finalmente i numantini, perché sul loro primo fiorire dell’eroismo furono oppressi dalla romana potenza, comandata da uno Scipione Affricano, vincitor di Cartagine ed assistito dalle forze del mondo. Ma i romani, da niuna di queste cose mai prevenuti, camminarono con giusti passi, faccendosi regolar dalla provvedenza per mezzo della sapienza volgare, e per tutte e tre le forme degli Stati civili, secondo il lor ordine naturale, ch’a tante pruove in questi libri si è dimostrato, durarono sopra di ciascheduna finché naturalmente alle forme prime succedessero le seconde; e custodirono l’aristocrazia fin alle leggi publilia e petelia, custodirono la libertá popolare fin a’ tempi d’Augusto, custodirono la monarchia finché all’interne ed esterne cagioni che distruggono tal forma di Stati poterono umanamente resistere.

[1089] Oggi una compiuta umanitá sembra essere sparsa per tutte le nazioni, poiché pochi grandi monarchi reggono questo mondo di popoli; e, se ve n’hanno ancor barbari, egli n’è cagione perché le loro monarchie hanno durato sopra la sapienza volgare di religioni fantastiche e fiere, col congiugnervisi in alcune la natura men giusta delle nazioni loro soggette.

[1090] E, faccendoci capo dal freddo Settentrione, lo czar di Moscovia, quantunque cristiano, signoreggia ad uomini di menti

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pigre. Lo cnez o cam di Tartaria domina a gente molle, quanto lo furono gli antichi seri, che facevano il maggior corpo del di lui grand’imperio, ch’or egli ha unito a quel della China. Il negus d’Etiopia e i potenti re di Efeza e Marocco regnano sopra popoli troppo deboli e parchi.

[1091] Ma in mezzo alla zona temperata, dove nascon uomini d’aggiustate nature, incominciando dal piú lontano Oriente, l’imperador del Giappone vi celebra un’umanitá somigliante alla romana ne’ tempi delle guerre cartaginesi, di cui imita la ferocia nell’armi, e, come osservano dotti viaggiatori, ha nella lingua un’aria simile alla latina; ma, per una religione fantasticata assai terribile e fiera di dèi orribili, tutti carichi d’armi infeste, ritiene molto della natura eroica. Perché i padri missionari, che sonvi andati, riferiscono che la maggior difficultá, ch’essi hanno incontrato per convertire quelle genti alla cristiana religione, è ch’i nobili non si possono persuadere ch’i plebei abbiano la stessa natura umana ch’essi hanno. Quel de’ chinesi, perché regna per una religion mansueta e coltiva lettere, egli è umanissimo. L’altro dell’Indie è umano anzi che no, e si esercita nell’arti per lo piú della pace. Il persiano e ’l turco hanno mescolato alla mollezza dell’Asia, da essi signoreggiata, la rozza dottrina della loro religione; e cosí, particolarmente i turchi, temperano l’orgoglio con la magnificenza, col fasto, con la liberalitá e con la gratitudine.

[1092] Ma in Europa, dove dappertutto si celebra la religion cristiana (ch’insegna un’idea di Dio infinitamente pura e perfetta e comanda la caritá inverso tutto il gener umano), vi sono delle grandi monarchie ne’ lor costumi umanissime. Perché le poste nel freddo Settentrione (come da cencinquant’anni fa furono la Suezia e la Danimarca, cosí oggi tuttavia la Polonia e ancor l’Inghilterra), quantunque sieno di Stato monarchiche, però aristocraticamente sembrano governarsi; ma, se ’l natural corso delle cose umane civili non è loro da straordinarie cagioni impedito, perverranno a perfettissime monarchie. In questa parte del mondo sola, perché coltiva scienze, di piú sono gran numero di repubbliche popolari che non si osservano affatto nell’altre

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tre. Anzi, per lo ricorso delle medesime pubbliche utilitá e necessitá, vi si è rinnovellata la forma delle repubbliche degli etoli ed achei; e, siccome quelle furon intese da’ greci per la necessitá d’assicurarsi della potenza grandissima de’ romani, cosí han fatto i Cantoni svizzeri e le Provincie Unite ovvero gli Stati d’Olanda, che di piú cittá libere popolari hanno ordinato due aristocrazie, nelle quali stanno unite in perpetua lega di pace e guerra. E ’l corpo dell’imperio germanico è egli un sistema di molte cittá libere e di sovrani principi, il cui capo è l’imperadore, e nelle faccende che riguardano lo stato di esso imperio si governa aristocraticamente.

[1093] E qui è da osservare che sovrane potenze, unendosi in leghe, o in perpetuo o a tempo, vengon esse di sé a formare Stati aristocratici, ne’ quali entrano gli anziosi sospetti propi dell’aristocrazie, come si è sopra dimostro. Laonde, essendo questa la forma ultima degli Stati civili (perché non si può intendere in civil natura uno Stato il quale a sí fatte aristocrazie fusse superiore), questa stessa forma debb’essere stata la prima, ch’a tante pruove abbiamo dimostrato in quest’opera che furono aristocrazie di padri, re sovrani delle loro famiglie, uniti in ordini regnanti nelle prime cittá. Perché questa è la natura de’ princípi: che da essi primi incomincino ed in essi ultimi le cose vadano a terminare.

[1094] Ora ritornando al proposito, oggi in Europa non sono d’aristocrazie piú che cinque, cioè Vinegia, Genova, Lucca in Italia, Ragugia in Dalmazia e Norimberga in Lamagna, e quasi tutte son di brevi confini. Ma dappertutto l’Europa cristiana sfolgora di tanta umanitá, che vi si abbonda di tutti i beni che possano felicitare l’umana vita, non meno per gli agi del corpo che per gli piaceri cosí della mente come dell’animo. E tutto ciò in forza della cristiana religione, ch’insegna veritá cotanto sublimi che vi si sono ricevute a servirla le piú dotte filosofie de’ gentili, e coltiva tre lingue come sue: la piú antica del mondo, l’ebrea; la piú dilicata, la greca; la piú grande, ch’è la latina. Talché, per fini anco umani, ella è la cristiana la migliore di tutte le religioni del mondo, perché unisce una

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sapienza comandata con la ragionata, in forza della piú scelta dottrina de’ filosofi e della piú colta erudizion de’ filologi.

[1095] Finalmente, valicando l’oceano, nel nuovo mondo gli americani correrebbono ora tal corso di cose umane, se non fussero stati scoperti dagli europei.

[1096] Ora, con tal ricorso di cose umane civili, che particolarmente in questo libro si è ragionato, si rifletta sui confronti che per tutta quest’opera in un gran numero di materie si sono fatti circa i tempi primi e gli ultimi delle nazioni antiche e moderne; e si avrá tutta spiegata la storia, non giá particolare ed in tempo delle leggi e de’ fatti de’ romani o de’ greci, ma (sull’identitá in sostanza d’intendere e diversitá de’ modi lor di spiegarsi) si avrá la storia ideale delle leggi eterne, sopra le quali corron i fatti di tutte le nazioni, ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini, se ben fusse (lo che è certamente falso) che dall’eternitá di tempo in tempo nascessero mondi infiniti. Laonde non potemmo noi far a meno di non dar a quest’opera l’invidioso titolo di Scienza nuova, perch’era un troppo ingiustamente defraudarla di suo diritto e ragione, ch’aveva sopra un argomento universale quanto lo è d’intorno alla natura comune delle nazioni, per quella propietá c’ha ogni scienza perfetta nella sua idea, la quale ci è da Seneca spiegata con quella vasta espressione: «Pusilla res hic mundus est, nisi id, quod quaerit, omnis mundus habeat».

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CONCHIUSIONE DELL’OPERA

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Sopra un’eterna repubblica naturale, in ciascheduna
sua spezie ottima, dalla divina provvedenza ordinata.

[1097] Conchiudiamo adunque quest’opera con Platone, il quale fa una quarta spezie di repubblica, nella quale gli uomini onesti e dabbene fussero supremi signori; che sarebbe la vera aristocrazia naturale. Tal repubblica, la qual intese Platone, cosí condusse la provvedenza da’ primi incominciamenti delle nazioni, ordinando che gli uomini di gigantesche stature, piú forti, che dovevano divagare per l’alture de’ monti, come fanno le fiere che sono di piú forti nature, eglino, a’ primi fulmini dopo l’universale diluvio, da se stessi atterrandosi per entro le grotte de’ monti, s’assoggettissero ad una forza superiore, ch’immaginarono Giove, e, tutti stupore quanto erano tutti orgoglio e fierezza, essi s’umiliassero ad una divinitá. Ché, ’n tal ordine di cose umane, non si può intender altro consiglio essere stato adoperato dalla provvedenza divina per fermargli dal loro bestial errore entro la gran selva della terra, affine d’introdurvi l’ordine delle cose umane civili.

[1098] Perché quivi si formò uno stato di repubbliche, per cosí dire, monastiche, ovvero di solitari sovrani, sotto il governo d’un Ottimo Massimo, ch’essi stessi si finsero e si credettero al balenar di que’ fulmini, tra’ quali rifulse loro questo vero lume di Dio: — ch’egli governi gli uomini; — onde poi tutte l’umane utilitá loro somministrate e tutti gli aiuti pórti nelle lor umane necessitá immaginarono esser dèi e, come tali, gli temettero e riverirono. Quindi, tra forti freni di spaventosa superstizione e pugnentissimi stimoli di libidine bestiale (i quali entrambi in tali uomini dovetter esser violentissimi), perché

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sentivano l’aspetto del cielo esser loro terribile e perciò impedir loro l’uso della venere, essi l’impeto del moto corporeo della libidine dovettero tener in conato. E sí, incominciando ad usare l’umana libertá (ch’è di tener in freno i moti della concupiscenza e dar loro altra direzione, che, non venendo dal corpo, da cui vien la concupiscenza, dev’essere della mente, e quindi propio dell’uomo), divertirono in ciò: ch’afferrate le donne a forza, naturalmente ritrose e schive, le strascinarono dentro le loro grotte e, per usarvi, le vi tennero ferme dentro in perpetua compagnia di lor vita. E sí, co’ primi umani concubiti, cioè pudichi e religiosi, diedero principio a’ matrimoni, per gli quali con certe mogli fecero certi figliuoli e ne divennero certi padri; e sí fondarono le famiglie, che governavano con famigliari imperi ciclopici sopra i loro figliuoli e le loro mogli, propi di sí fiere ed orgogliose nature, acciocché poi, nel surgere delle cittá, si truovassero disposti gli uomini a temer gl’imperi civili. Cosí la provvedenza ordinò certe repubbliche iconomiche di forma monarchica sotto padri (in quello stato principi), ottimi per sesso, per etá, per virtú; i quali, nello stato che dir debbesi «di natura» (che fu lo stesso che lo stato delle famiglie), dovettero formar i primi ordini naturali, siccome quelli ch’erano pii, casti e forti, i quali, fermi nelle lor terre, per difenderne sé e le loro famiglie, non potendone piú campare fuggendo (come avevano innanzi fatto nel loro divagamento ferino), dovettero uccider fiere, che l’infestavano, e, per sostentarvisi con le famiglie (non piú divagando per truovar pasco), domar le terre e seminarvi il frumento; e tutto ciò per salvezza del nascente gener umano.

[1099] A capo di lunga etá — cacciati dalla forza de’ propi mali, che loro cagionava l’infame comunione delle cose e delle donne, nella qual erano restati dispersi per le pianure e le valli in gran numero — uomini empi, che non temevano dèi; impudichi, ch’usavano la sfacciata venere bestiale; nefari, che spesso l’usavano con le madri, con le figliuole; deboli, erranti e soli, inseguiti alla vita da violenti robusti, per le risse nate da essa infame comunione, corsero a ripararsi negli asili de’ padri; e

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questi, ricevendogli in protezione, vennero con le clientele ad ampliare i regni famigliari sopra essi famoli. E sí spiegarono repubbliche sopra ordini naturalmente migliori per virtú certamente eroiche; come di pietá, ch’adoravano la divinitá, benché da essi per poco lume moltiplicata e divisa negli dèi, e dèi formati secondo le varie loro apprensioni (come da Diodoro sicolo, e piú chiaramente da Eusebio ne’ libri De praeparatione evangelica, e da san Cirillo l’alessandrino ne’ libri Contro Giuliano apostata, si deduce e conferma); e, per essa pietá, ornati di prudenza, onde si consigliavano con gli auspíci degli dèi; di temperanza, ch’usavano ciascuno con una sola donna pudicamente, ch’avevano co’ divini auspíci presa in perpetua compagnia di lor vita; di fortezza, d’uccider fiere, domar terreni; e di magnanimitá, di soccorrere a’ deboli e dar aiuto a’ pericolanti: che furono per natura le repubbliche erculee, nelle quali pii, sappienti, casti, forti e magnanimi debellassero superbi e difendessero deboli, ch’è la forma eccellente de’ civili governi.

[1100] Ma finalmente i padri delle famiglie, per la religione e virtú de’ loro maggiori lasciati grandi con le fatighe de’ lor clienti, abusando delle leggi della protezione, di quelli facevan aspro governo; ed essendo usciti dall’ordine naturale, ch’è quello della giustizia, quivi i clienti loro contro si ammutinarono. Ma, perché senz’ordine (ch’è tanto dir senza Dio) la societá umana non può reggere nemmeno un momento, menò la provvedenza naturalmente i padri delle famiglie ad unirsi con le lor attenenze in ordini contro di quelli; e, per pacificarli, con la prima legge agraria che fu nel mondo, permisero loro il dominio bonitario de’ campi, ritenendosi essi il dominio ottimo o sia sovrano famigliare: onde nacquero le prime cittá sopra ordini regnanti di nobili. E sul mancare dell’ordine naturale, che, conforme allo stato allor di natura, era stato per spezie, per sesso, per etá, per virtú, fece la provvedenza nascere l’ordine civile col nascere di esse cittá, e, prima di tutti, quello ch’alla natura piú s’appressava: — per nobiltá della spezie umana (ch’altra nobiltá, in tale stato di cose, non poteva estimarsi che dal

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generar umanamente con le mogli prese con gli auspíci divini), e sí per un eroismo, i nobili regnassero sopra i plebei (che non contraevano matrimoni con sí fatta solennitá), e, finiti i regni divini (co’ quali le famiglie si erano governate per mezzo de’ divini auspíci), dovendo regnar essi eroi in forza della forma de’ governi eroici medesimi, la principal pianta di tali repubbliche fusse la religione custodita dentro essi ordini eroici, e per essa religione fussero de’ soli eroi tutti i diritti e tutte le ragioni civili. Ma, perché cotal nobiltá era divenuta dono della fortuna, tra essi nobili fece surgere l’ordine de’ padri di famiglia medesimi, che per etá erano naturalmente piú degni; e tra quelli stessi fece nascere per re gli piú animosi e robusti, che dovettero far capo agli altri e fermargli in ordini per resistere ed atterrire i clienti ammutinati contr’essoloro.

[1101] Ma, col volger degli anni, vieppiú l’umane menti spiegandosi, le plebi de’ popoli si ricredettero finalmente della vanitá di tal eroismo, ed intesero esser essi d’ugual natura umana co’ nobili; onde vollero anch’essi entrare negli ordini civili delle cittá. Ove dovendo a capo di tempo esser sovrani essi popoli, permise la provvedenza che le plebi, per lungo tempo innanzi, gareggiassero con la nobiltá di pietá e di religione nelle contese eroiche di doversi da’ nobili comunicar a’ plebei gli auspíci, per riportarne comunicate tutte le pubbliche e private ragioni civili che se ne stimavano dipendenze; e sí la cura medesima della pietá e lo stesso affetto della religione portasse i popoli ad esser sovrani nelle cittá: nello che il popolo romano avanzò tutti gli altri del mondo, e perciò funne il popolo signor del mondo. In cotal guisa, tra essi ordini civili trammeschiandosi vieppiú l’ordine naturale, nacquero le popolari repubbliche. Nelle quali, poiché si aveva a ridurre tutto o a sorte o a bilancia, perché il caso o ’l fato non vi regnasse, la provvedenza ordinò che ’l censo vi fusse la regola degli onori; e cosí gl’industriosi non gl’infingardi, i parchi non gli pròdigi, i providi non gli scioperati, i magnanimi non gli gretti di cuore, ed in una i ricchi con qualche virtú o con alcuna immagine di virtú non gli poveri con molti e sfacciati vizi, fussero estimati gli

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ottimi del governo. Da repubbliche cosí fatte — gl’intieri popoli, ch’in comune voglion giustizia, comandando leggi giuste, perché universalmente buone, ch’Aristotile divinamente diffinisce «volontá senza passioni», e sí volontá d’eroe che comanda alle passioni — uscí la filosofia, dalla forma di esse repubbliche destata a formar l’eroe e, per formarlo, interessata della veritá; cosí ordinando la provvedenza: che, non avendosi appresso a fare piú per sensi di religione (come si erano fatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la filosofia intendere le virtú nella lor idea, in forza della quale riflessione, se gli uomini non avessero virtú, almeno si vergognassero de’ vizi, ché sol tanto i popoli addestrati al mal operare può contenere in ufizio. E dalle filosofie permise provenir l’eloquenza, che dalla stessa forma di esse repubbliche popolari, dove si comandano buone leggi, fusse appassionata del giusto; la quale da esse idee di virtú infiammasse i popoli a comandare le buone leggi. La qual eloquenza risolutamente diffiniamo aver fiorito in Roma a’ tempi di Scipione Affricano, nella cui etá la sapienza civile e ’l valor militare, ch’entrambi sulle rovine di Cartagine stabilirono a Roma felicemente l’imperio del mondo, dovevano portare di séguito necessario un’eloquenza robusta e sappientissima.

[1102] Ma — corrompendosi ancora gli Stati popolari, e quindi ancor le filosofie (le quali cadendo nello scetticismo, si diedero gli stolti dotti a calonniare la veritá), e nascendo quindi una falsa eloquenza, apparecchiata egualmente a sostener nelle cause entrambe le parti opposte — provenne che, mal usando l’eloquenza (come i tribuni della plebe nella romana) e non piú contentandosi i cittadini delle ricchezze per farne ordine, ne vollero fare potenza; [e], come furiosi austri il mare, commovendo civili guerre nelle loro repubbliche, le mandarono ad un totale disordine, e sí, da una perfetta libertá, le fecero cadere sotto una perfetta tirannide (la qual è piggiore di tutte), ch’è l’anarchia, ovvero la sfrenata libertá de’ popoli liberi.

[1103] Al quale gran malore delle cittá adopera la provvedenza uno di questi tre grandi rimedi con quest’ordine di cose umane civili.

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[1104] Imperciocché dispone, prima, di ritruovarsi dentro essi popoli uno che, come Augusto, vi surga e vi si stabilisca monarca, il quale, poiché tutti gli ordini e tutte le leggi ritruovate per la libertá punto non piú valsero a regolarla e tenerlavi dentro in freno, egli abbia in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi con la forza dell’armi; ed al contrario essa forma dello stato monarchico la volontá de’ monarchi, in quel loro infinito imperio, stringa dentro l’ordine naturale di mantenere contenti i popoli e soddisfatti della loro religione e della loro natural libertá, senza la quale universal soddisfazione e contentezza de’ popoli gli Stati monarchici non sono né durevoli né sicuri.

[1105] Dipoi, se la provvedenza non truova sí fatto rimedio dentro, il va a cercar fuori; e, poiché tali popoli di tanto corrotti erano giá innanzi divenuti schiavi per natura delle sfrenate lor passioni (del lusso, della dilicatezza, dell’avarizia, dell’invidia, della superbia e del fasto) e per gli piaceri della dissoluta lor vita si rovesciavano in tutti i vizi propi di vilissimi schiavi (come d’esser bugiardi, furbi, calonniatori, ladri, codardi e finti), divengano schiavi per diritto natural delle genti, ch’esce da tal natura di nazioni, e vadano ad esser soggette a nazioni migliori, che l’abbiano conquistate con l’armi, e da queste si conservino ridutte in provincie. Nello che pure rifulgono due grandi lumi d’ordine naturale: de’ quali uno è che chi non può governarsi da sé, si lasci governare da altri che ’l possa; l’altro è che governino il mondo sempre quelli che sono per natura migliori.

[1106] Ma, se i popoli marciscano in quell’ultimo civil malore, che né dentro acconsentino ad un monarca natio, né vengano nazioni migliori a conquistargli e conservargli da fuori, allora la provvedenza a questo estremo lor male adopera questo estremo rimedio: che — poiché tai popoli a guisa di bestie si erano accostumati di non ad altro pensare ch’alle particolari propie utilitá di ciascuno ed avevano dato nell’ultimo della dilicatezza o, per me’ dir, dell’orgoglio, a guisa di fiere, che, nell’essere disgustate d’un pelo, si risentono e s’infieriscono,

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e sí, nella loro maggiore celebritá o folla de’ corpi, vissero come bestie immani in una somma solitudine d’animi e di voleri, non potendovi appena due convenire, seguendo ogniun de’ due il suo propio piacere o capriccio, — per tutto ciò, con ostinatissime fazioni e disperate guerre civili, vadano a fare selve delle cittá, e delle selve covili d’uomini; e, ’n cotal guisa, dentro lunghi secoli di barbarie vadano ad irruginire le malnate sottigliezze degl’ingegni maliziosi, che gli avevano resi fiere piú immani con la barbarie della riflessione che non era stata la prima barbarie del senso. Perché quella scuopriva una fierezza generosa, dalla quale altri poteva difendersi o campare o guardarsi; ma questa, con una fierezza vile, dentro le lusinghe e gli abbracci, insidia alla vita e alle fortune de’ suoi confidenti ed amici. Perciò popoli di sí fatta riflessiva malizia, con tal ultimo rimedio, ch’adopera la provvedenza, cosí storditi e stupidi, non sentano piú agi, dilicatezze, piaceri e fasto, ma solamente le necessarie utilitá della vita; e, nel poco numero degli uomini alfin rimasti e nella copia delle cose necessarie alla vita, divengano naturalmente comportevoli; e, per la ritornata primiera semplicitá del primo mondo de’ popoli, sieno religiosi, veraci e fidi; e cosí ritorni tra essi la pietá, la fede, la veritá, che sono i naturali fondamenti della giustizia e sono grazie e bellezze dell’ordine eterno di Dio.

[1107] A questa semplice e schietta osservazione fatta sulle cose di tutto il gener umano, se altro non ce ne fusse pur giunto da’ filosofi, storici, gramatici, giureconsulti, si direbbe certamente questa essere la gran cittá delle nazioni fondata e governata da Dio. Imperciocché sono con eterne lodi di sappienti legislatori innalzati al cielo i Ligurghi, i Soloni, i decemviri, perocché si è finor oppinato che co’ loro buoni ordini e buone leggi avesser fondato le tre piú luminose cittá che sfolgorassero mai delle piú belle e piú grandi virtú civili, quali sono state Sparta, Atene e Roma; le quali pure furono di brieve durata e pur di corta distesa, a riguardo dell’universo de’ popoli, ordinato con tali ordini e fermo con tali leggi, che dalle stesse sue corrottelle prenda quelle forme di Stati, con le quali unicamente

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possa dappertutto conservarsi e perpetuamente durare. E non dobbiam dire ciò esser consiglio d’una sovrumana sapienza? la quale, senza forza di leggi (che, per la loro forza, Dione ci disse sopra, nelle Degnitá, essere simiglianti al tiranno), ma facendo uso degli stessi costumi degli uomini (de’ quali le costumanze sono tanto libere d’ogni forza quanto lo è agli uomini celebrare la lor natura, onde lo stesso Dione ci disse le costumanze essere simili al re, perché comandano con piacere), ella divinamente la regola e la conduce?

[1108] Perché pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni (che fu il primo principio incontrastato di questa Scienza, dappoiché disperammo di ritruovarla da’ filosofi e da’ filologi); ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avevan proposti; quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini piú ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa terra. Imperciocché vogliono gli uomini usar la libidine bestiale e disperdere i loro parti, e ne fanno la castitá de’ matrimoni, onde surgono le famiglie; vogliono i padri esercitare smoderatamente gl’imperi paterni sopra i clienti, e gli assoggettiscono agl’imperi civili, onde surgono le cittá; vogliono gli ordini regnanti de’ nobili abusare la libertá signorile sopra i plebei, e vanno in servitú delle leggi, che fanno la libertá popolare; vogliono i popoli liberi sciogliersi dal freno delle lor leggi, e vanno nella soggezion de’ monarchi; vogliono i monarchi in tutti i vizi della dissolutezza, che gli assicuri, invilire i loro sudditi, e gli dispongono a sopportare la schiavitú di nazioni piú forti; vogliono le nazioni disperdere se medesime, e vanno a salvarne gli avanzi dentro le solitudini, donde, qual fenice, nuovamente risurgano. Questo, che fece tutto ciò, fu pur mente, perché ’l fecero gli uomini con intelligenza; non fu fato, perché ’l fecero con elezione; non caso, perché con perpetuitá, sempre cosí faccendo, escono nelle medesime cose.

[1109] Adunque, di fatto è confutato Epicuro, che dá il caso e i di lui seguaci Obbes e Macchiavello; di fatto è confutato Zenone,

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e con lui Spinosa, che dánno il fato: al contrario, di fatto è stabilito a favor de’ filosofi politici, de’ quali è principe il divino Platone, che stabilisce regolare le cose umane la provvedenza. Onde aveva la ragion Cicerone, che non poteva con Attico ragionar delle leggi, se non lasciava d’esser epicureo e non gli concedeva prima la provvedenza regolare l’umane cose. La quale Pufendorfio sconobbe con la sua ipotesi, Seldeno suppose e Grozio ne prescindé; ma i romani giureconsulti la stabilirono per primo principio del diritto natural delle genti. Perché in quest’opera appieno si è dimostrato che sopra la provvedenza ebbero i primi governi del mondo per loro intiera forma la religione, sulla quale unicamente resse lo stato delle famiglie; indi, passando a’ governi civili eroici ovvero aristocratici, ne dovette essa religione esserne la principal ferma pianta; quindi, innoltrandosi a’ governi popolari, la medesima religione serví di mezzo a’ popoli di pervenirvi; fermandosi finalmente ne’ governi monarchici, essa religione dev’essere lo scudo de’ principi. Laonde, perdendosi la religione ne’ popoli, nulla resta loro per vivere in societá: né scudo per difendersi, né mezzo per consigliarsi, né pianta dov’essi reggano, né forma per la qual essi sien affatto nel mondo.

[1110] Quindi veda Bayle se possan esser di fatto nazioni nel mondo senza veruna cognizione di Dio! E veda Polibio quanto sia vero il suo detto, che, se fussero al mondo filosofi, non bisognerebbero al mondo religioni! Ché le religioni sono quelle unicamente per le quali i popoli fanno opere virtuose per sensi, i quali efficacemente muovono gli uomini ad operarle, e le massime da’ filosofi ragionate intorno a virtú servono solamente alla buona eloquenza per accender i sensi a far i doveri delle virtú. Con quella essenzial differenza tralla nostra cristiana, ch’è vera, e tutte l’altre degli altri, false: che, nella nostra, fa virtuosamente operare la divina grazia per un bene infinito ed eterno, il quale non può cader sotto i sensi, e, ’n conseguenza, per lo quale la mente muove i sensi alle virtuose azioni; a rovescio delle false, ch’avendosi proposti beni terminati e caduchi cosí in questa vita come nell’altra (dove aspettano una

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beatitudine di corporali piaceri), perciò i sensi devono strascinare la mente a far opere di virtú.

[1111] Ma pur la provvedenza, per l’ordine delle cose civili che ’n questi libri si è ragionato, ci si fa apertamente sentire in quelli tre sensi: — uno di maraviglia, l’altro di venerazione c’hanno tutti i dotti finor avuto della sapienza innarrivabile degli antichi, e ’l terzo dell’ardente disiderio onde fervettero di ricercarla e di conseguirla; — perch’eglino son infatti tre lumi della sua divinitá, che destò loro gli anzidetti tre bellissimi sensi diritti, i quali poi dalla loro boria di dotti, unita alla boria delle nazioni (che noi sopra per prime degnitá proponemmo e per tutti questi libri si son ripresse), loro si depravarono; i quali sono che tutti i dotti ammirano, venerano e disiderano unirsi alla sapienza infinita di Dio.

[1112] Insomma, da tutto ciò che si è in quest’opera ragionato, è da finalmente conchiudersi che questa scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietá, e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio.

Brani Delle Redazioni

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BRANI DELLE REDAZIONI del 1730, 1731 e 1733 circa soppressi o sostanzialmente mutati nella redazione definitiva

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Idea dell’opera

[1113] [18] .... l’origine di celebrarsi le cittá, che fu di guardarsi da’ malori che porta l’uomo all’uomo, piú infesti di tutti quelli che abbia mai apportato alla generazione umana tutta la maligna natura, come vi fu filosofo che ne ragionò ben il calcolo; — l’origine delle giuridizioni ....; — l’origini della nobiltá vera, che naturalmente nasce dalle civili virtú, come da pietá, religione, prudenza ne’ consigli, temperanza ne’ piaceri, industria nelle fatighe, la quale co’ vizi a queste virtú contrari si perde; — l’origini dell’eroismo .... e quelli che usano il corpo vi ubbidiscano.

[1114] Il qual ordine se a taluni sembra che non sia eterno, perocché la mente allora è tale quando usa ragione, giustizia e veritá, e negli Stati spesso comandano la fraude, il capriccio, la forza; rispondiamo che ne faccino sperienza negli Stati mossi e turbati, ne’ quali que’ che comandano sono costretti dall’eterna necessitá di quest’ordine naturale di rivoltarsi alla mente e riporre il governo in mano de’ saggi e forti; i quali, se i principi non san vedere o non possono ritruovare, allora certamente essi anderanno a servire popoli e nazioni ch’avranno mente migliore. Ond’è falso quello: che ’l mondo fu sempre di coloro c’hanno piú forza di corpi e d’armi; ma vero è questo: che ’l mondo fu sempre di que’ popoli c’hanno piú forza di mente (che è la veritá) e quindi piú di civili virtú. Perché ’l mondo romano era giá ricolmo di viltá e sozzo di tutti i fraudolenti vizi quando fu lacerato e guasto da’ barbari, ch’eran incomparabilmente piú generosi, siccome coloro che avevano piú schiettezza e piú veritá.

[1115] [23] La tavola mostra i soli princípi degli alfabeti, e giace rimpetto alla statova d’Omero, perché le lingue e i caratteri

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volgari, come tutte le cose nate o fatte, si formarono a poco a poco. Di che è quella greca tradizione che, delle lettere greche, furon le prime ritruovate da Palamede nel tempo della guerra troiana; altre da Simonide poeta, il qual si racconta essere stato l’autore dell’Arte della memoria; e finalmente altre da Aristarco, che fu il critico ripurgatore de’ poemi d’Omero; ed è necessario che non si fussero formate tutte a’ tempi d’Omero, perché si dimostra per tutta l’opera che Omero non lasciò scritti i suoi poemi, e che forse da Aristarco incominciaron a scriversi ....

[1116] [27] .... In cotal guisa ne’ duelli, che, ’n fatti, erano guerre private che si facevano da’ potenti, onde dura tuttavia tra’ grandi baroni, benché vassalli, questo senso di duellare tra essoloro per cagione delle loro giuridizioni violate, per le quali intimano le disfide (dette da «fida», vocabolo feudale, perché nacquero dentro la stessa barbarie quasi ad un parto feudi e duelli), fanno la «chiamata» che dicono, e diffiniscono le contese con la fortuna degli abbattimenti; — in cotal guisa, diciamo, ne’ duelli, o sieno guerre private, si truova l’origine delle guerre pubbliche, che le faccino i potenti del mondo (che sono le civili potestá non ad altri soggette ch’a Dio), che le giustifichino co’ manifesti, che le intimino solennemente per gli araldi di guerra, perché Iddio le diffinisca con la fortuna delle vittorie. E ciò, per consiglio della provvedenza divina, acciocché da guerre non si seminassero guerre, e che ’l gener umano riposasse sulla certezza de’ domíni pubblici; ch’è ’l principio della giustizia esterna che dicono delle guerre.

[1117] [29] .... vanno a ripararsi sotto le monarchie, ch’è l’altra spezie de’ governi umani, nella quale uno, ch’è ’l monarca, è ’l distinto, e tutti gli altri vi sono con le leggi tra essolor uguagliati: siccome i popoli ridutti alla disperazione sotto esse monarchie, negli estremi bisogni della vita e della libertá naturale, si richiamano alla popolar libertá. Talché le due ultime forme di governo ....

[1118] [35] .... La qual discoverta, ch’è la chiave maestra di questa Scienza, ci ha costo la ricerca ostinata di tutta la nostra vita letteraria e, fatta finalmente, ci ha dato i princípi di questa Scienza. Lo che qui diciamo, per avvisarti, o leggitore, della grande difficultá che quivi dovrai incontrare per intenderne i princípi; la quale gli prende da tal maniera di pensare per caratteri poetici, la qual or è impossibile immaginare. Che se non sei menato a

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leggerne questi libri, se non da voglia di apprendere nuovi lumi di vero, almeno da una indifferente curiositá di veder cosa portino di nuovo, e se non sei assistito da una invitta metafisica, la quale non oscuri i lumi della pura ragione con le nebbie delle anticipazioni concepute in forza d’irragionevole fantasia e invigorite da ostinata memoria, lascia da principio di leggergli, perché quindi prendono il lor principio. Tali caratteri si truovano essere stati generi fantastici ....

[1119] [38] .... e nelle comoditá d’intrudere nelle favole la loro sapienza riposta. Onde nel secondo di questi libri, che fa quasi tutto il corpo di quest’opera, si fa una discoverta tutta opposta a quella del Verulamio nel suo Novus orbis scientiarum, dov’egli medita come le scienze, quali ora si hanno, si possano perfezionare. Questa scuopre l’antico mondo delle scienze, come dovettero nascere rozzamente e tratto tratto dirozzarsi, finché giugnessero nella forma nella quale ci sono pervenute.

[1120] [42*] Potrai facilmente, o leggitore, intendere la bellezza di questa divina dipintura dall’orrore che certamente dee farti la bruttezza di quest’altra ch’ora ti do a vedere tutta contraria.

[1121] Il trigono luminoso e veggente allumi il globo mondano; che è la provvedenza divina, la quale il governa.

[1122] La falsa e quindi rea metafisica abbia l’ale delle tempie inchiovate al globo dalla parte opposta coverta d’ombre, perché non possa (e non può), perché non voglia (né sa perché non vuole) alzarsi sopra il mondo della natura; onde, dentro quelle sue tenebre, insegni o ’l cieco caso d’Epicuro o ’l sordo fato degli stoici, ed empiamente oppini che esso mondo sia Dio, o operante per necessitá (quale, con gli stoici, il vuole Benedetto Spinosa), ovvero operante a caso (che va di séguito alla metafisica che Giovanni Locke fa d’Epicuro), e (con entrambi), avendo tolto all’uomo ogni elezione e consiglio, avendo tolta a Dio ogni provvedenza, insegni che dappertutto debba regnar il capriccio, per incontrare o ’l caso o ’l fato che si desidera. Ella con la sinistra tenga la borsa, perché tali venenose dottrine non son insegnate che da uomini disperati, i quali o, vili, non ebbero mai parte allo Stato o, superbi, tenuti bassi o non promossi agli onori de’ quali per la lor boria si credon degni, sono malcontenti dello Stato; siccome Benedetto Spinosa, il quale, perché ebreo, non aveva niuna repubblica, truovò una metafisica da rovinare tutte le repubbliche del mondo. Con la destra tenga la bilancia, poiché ella è la

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scienza che dá il criterio del vero, ovvero l’arte di ben giudicare; per la quale, troppo fastidiosa e dilicata, non acquetandosi a niuna veritá, finalmente caduta nello scetticismo, estima d’uguali pesi il giusto e l’ingiusto: ella, come gl’immanissimi Galli senoni fecero co’ romani, caricando una lance con la spada, la faccia sbilanciare, preponderando all’altra dove sia il caduceo di Mercurio, ch’è simbolo delle leggi; e cosí insegni dover servire le leggi alla forza ingiusta dell’armi.

[1123] L’altare sia rovinato, spezzato il lituo, rovesciato l’urciuolo, spenta la fiaccola; e cosí ad un Dio sordo e cieco si nieghino tutti i divini onori e sien bandite dappertutto le cerimonie divine e, ’n conseguenza, sien tolti tralle nazioni i matrimoni solenni, che appo tutte con divine cerimonie si contraggono, e si celebrino il concubinato e ’l puttanesimo.

[1124] Il fascio romano sia sciolto, dissipato e disperso, e spenta ogni moral comandata dalle religioni con l’annientamento di esse, spenta ogni disciplina iconomica col dissolvimento de’ matrimoni, perisca affatto la dottrina politica, onde vadano a dissolversi tutti gl’imperi civili.

[1125] La statova d’Omero s’atterri, perché i poeti fondarono con la religione a tutti i gentili l’umanitá.

[1126] La tavola degli alfabeti giacciasi infranta nel suolo, perché la scienza delle lingue, con le quali parlano le religioni e le leggi, essa è quella che le conserva.

[1127] L’urna ceneraria dentro le selve porti iscritto «lemurum fabula», e ’l dente dell’aratro abbia spuntata la punta, e, tolta l’universal credenza dell’immortalitá dell’anima, lasciandosi i cadaveri inseppolti sopra la terra, s’abbandoni la coltivazione de’ campi, non che si disabitino le cittá; e ’l timone (geroglifico degli uomini empi senza niun’umana lingua e costume) si rinselvi ne’ boschi, e ritorni la ferina comunione delle cose e delle donne, le quali si debbano gli uomini appropiare con la violenza e col sangue.

[1128] Il molto finora detto si è per facilitarti, o benigno leggitore, la lezion di quest’opera. Mi rimane or pochissimo a dire per priegarti a giudicarne benignamente.

[1129] Perocché déi sapere che quell’utilissimo avviso che Dionigi Longino, riverito da tutti per lo principe de’ critici, dá agli oratori: che, per far orazioni sublimi, loro bisogna proponersi l’eternitá della fama, e, per ciò conseguire, ne dá loro due pratiche, noi, da’ lavori dell’eloquenza a tutti di qualsivoglia scienza innalzando,

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nel meditar quest’opera abbiamo sempre avuto inanzi gli occhi. La prima pratica è stata: Come riceverebbono queste cose ch’io medito un Platone, un Varrone, un Quinto Muzio Scevola? La seconda pratica è stata quella: Come riceverá queste cose, ch’io scrivo, la posteritá? Ancora per la stima ch’io debbo fare di te, m’ho prefisso per giudici tali uomini, i quali, per tanto cangiar di etá, di nazioni, di lingue, di costumi e mode e gusti di sapere, non sono punto scemati dal credito, il primo di divino filosofo, il secondo del piú dotto filologo de’ romani, il terzo di sappientissimo giureconsulto, che come oracolo venerarono i Crassi, i Marcantoni, i Sulpizi, i Cesari, i Ciceroni.

[1130] Oltracciò, déi far questo conto: che tal opera siesi disotterrata poc’anzi in una cittá rovinata da ben mille anni, e porti cancellato affatto il nome dell’autore; e vedi che non forse questo mio tempo, questa mia vita, questo tal mio nome t’inducano a farne un giudizio men che benigno. E quel motto: «Quem ullum tanta superbia esse ut aeternitatem famae spe praesumat?», rincontra, di grazia, negli Annali di Tacito da quali rei uomini si dica; e rifletti che lo stesso imperador Claudio, a cui si dice, quantunque stolido principe e vil servo di laidi ed avari liberti, pure il disappruova di sconcezza, nel tempo stesso che ne fa uso.

[1131] Conchiudiamo finalmente con questi pochi seguenti avvisi per alcun giovine che voglia profittare di questa Scienza.

[1132] I. — Primieramente ella fa il suo lavoro tutto metafisico ed astratto nella sua idea. Onde ti è bisogno, nel leggerla, di spogliarti d’ogni corpolenza e di tutto ciò che da quella alla nostra pura mente proviene, e quindi per un poco addormentare la fantasia e sopir la memoria. Perché, se queste facultá vi son deste, la mente non può ridursi in istato d’un puro intendimento informe d’ogni forma particolare; per lo che non potravvi affatto indurvisi la forma di questa Scienza, e per tua colpa darai in quell’uscita: — che non s’intenda.

[1133] II. — Ella ragiona con uno stretto metodo geometrico, con cui da vero passa ad immediato vero, e cosí vi fa le sue conchiusioni. Laonde ti è bisogno di aver fatto l’abito del ragionar geometricamente; e perciò non aprire a sorte questi libri per leggerli, né per salti, ma continovane la lezione da capo a’ piedi. E déi attendere se le premesse sieno vere e ben ordinate, e non maravigliarti se quasi tutte le conchiusioni n’escano maravigliose (lo che sovente avviene in essa geometria, come quella, per esemplo, delle

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due linee parallele che tra loro in infinito sempre s’accostano e non mai si toccano); perché la conseguenza è turbata dalla fantasia, ma le premesse s’attennero alla pura ragion astratta.

[1134] III. — Suppone la medesima una grande e varia cosí dottrina com’erudizione, dalle quali si prendono le veritá come giá da te conosciute, e se ne serve come di termini per far le sue proposizioni. Il perché, se non sei di tutte pienamente fornito, vedi che tu non abbia il principio nell’ultima disposizion di riceverla.

[1135] IV. — Oltre a cotal suppellettile, ti fa d’uopo d’una mente comprensiva, perché non è cosa che da questa Scienza ragionasi, nella quale non convengano altre innumerabili d’altre spezie che tratta, con le quali fa acconcezza, e partitamente con ciascheduna, e con tutte insieme nel tutto; nello che unicamente consiste tutta la bellezza d’una perfetta scienza. Perciò, se ti manca o questo o l’antecedente aiuto, e molto piú entrambi, per leggerla, ti avverrá ciò ch’avviene a’ sordastri, i quali odono una o due corde piú sonore del gravicembalo con dispiacenza, perché non odono le altre con le quali, toccate dalla mano maestra di musica, fanno dolce e grata armonia.

[1136] V. — Ella contiene tutte discoverte in gran parti diverse, e molte dello ’n tutto contrarie, all’oppenione che, delle cose le quali qui si ragionano, si è avuto finora. Talché ti bisogna d’una forte acutezza di mente, da non abbacinarsi al gran numero de’ nuovi lumi ch’ella dappertutto diffonde.

[1137] VI. — Di piú ella spiega idee tutte nuove nella loro spezie. Perciò ti priego a volertici avvezzare, con leggere almeno tre volte quest’opera.

[1138] VII. — Finalmente, per farti sentire il nerbo delle pruove, le quali col dilatarsi si infievoliscono, qui poco si dice e si lascia molto a pensare. E perciò ti bisogna meditare piú addentro le cose e, col combinarle vieppiú, vederle in piú ampia distesa, affinché tu possa averne acquistato la facultá.

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LIBRO PRIMO


[Sezione Prima]

[1139] [55] .... come in quest’opera tal civil costume di quasi tutte, come si ha certamente della romana, vien dimostrato. [CMA4] Sicché tal avesse fatto prima Nino contro di Zoroaste, quale fece poi Arbace contro Sardanapalo, ultimo re dell’Assiria; onde dicono ch’indi in poi furono due regni d’Assiria, con due cittá capitali: Ninive e Babillonia, la qual veritá usano i critici bibbici per ischiarire la storia sagra ove narra la schiavitú babilonese del popolo ebreo. Ed essa storia pur ci racconta ....

[1140] [59] .... dovettero agli orientali essere Zoroasti. [CMA3] Perocché i mitologi, con le loro interpetrazioni erudite, fanno Ercole anche dotto d’astronomia, e ne spiegano quella favola ch’egli succedette al vecchio Atlante, stanco di piú sostenere sopra i suoi òmeri il cielo; ed or or vedremo che Atlante egli è da’ filologi creduto scolare di Zoroaste. [SN2] Però di quelli il primo di tutti è ’l caldeo, che ci appruova la Caldea essere stata la prima nazione di tutta la gentilitá. Ma la boria de’ dotti .... gli ha appiccato gli oracoli della filosofia, appigliatisi temerariamente a due volgari tradizioni: una, che Zoroaste fu sappiente (ma quella intese della sapienza volgare con la quale si fondarono i popoli); l’altra, che gli oracoli sono le cose piú antiche che ci narra essa antichitá (ma questa volle dir oracoli d’indovini, non di filosofi). E ’n fatti tali oracoli di Zoroaste non fann’altro che smaltire per vecchia una troppo nuova dottrina .... e non si conobbero tra loro che con l’occasion delle guerre o per cagione de’ traffichi.

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[1141] Quindi, frattanto, però s’intenda di che bollore di fantasia fervette cotal boria de’ dotti nel capo di Samuello Reyero, De mathesi mosaica, ove vaneggia che la torre di Babillonia fossesi innalzata per osservatoio delle stelle. Lo che deve andar di séguito a ciò che, forse per conciliar con le novelle curiose la maraviglia a’ suoi libri De caelo, [CMA1] (se pur son suoi, [CMA3] perocché i critici glieli negano), [SN2] narra Aristotile: che Callistene, suo genero, gli aveva mandato l’osservazioni astronomiche fatte da’ caldei ben mille e novecento e tre anni del tempo suo, le quali, tornando indietro, portavano fin al tempo ch’essa torre si alzò.

[1142] [CMA3*] Certamente de’ Zoroasti ce ne vennero nominati il caldeo, il medo, l’ero‐armenio, il panfilio, i quai solamente ha saputo osservar e raccogliere lo Stanleo nella sua Istoria della filosofia. Ma queste notizie son troppo oscure e confuse per poter ragionare con iscienza de’ princípi della storia universale, la quale, con tutte queste notizie, ella, cosí per gli mostri di cronologia poco sopra accennati, come per questi di geografia i quali qui accenneremo, ha finor mancato al mondo delle scienze. Diciamo adunque [CMA4] che, per una maniera poetica di pensare (che nella Metafisica poetica si truoverá uniforme per natura in tutte le prime nazioni gentili), siccome gli egizi tutti i fondatori dell’altre nazioni dissero aver preso il nome dall’Ercole egizio, e siccome i greci fecero andar il lor Ercole per lo mondo a disseminare per le nazioni l’umanitá, cosí i caldei tutti gli autori delle nazioni dell’Asia dissero Zoroasti.

[1143] [CMA3*] E per questi stessi nostri princípi di geografia ritruoveremo che Zoroaste caldeo fu battriano, come narrano le storie, però da Battro posto dentro i confini della Caldea medesima; siccome ritruoveremo Orfeo essere stato della Tracia posta dentro i confini della medesima Grecia, perch’egli certamente fu uno de’ poeti teologi greci; e che cosí Orfeo uscí dal di lei settentrione a fondare la Grecia, come Zoroaste uscí dal di lei settentrione a fondar la Caldea. E tali princípi s’hanno a dare alla Caldea, ne’ suoi primi tempi di brievissimi confini, dentro i quali Battro, donde fu Zoroaste, dev’essere stato nel mezzo dell’Asia, perché si faccia ancor verisimile il vero della storia sagra d’intorno a questi tre punti massimi:

1. che, dopo il diluvio, l’arca si fermò ne’ monti dell’Armenia,

2. che Noè si fermò nella Mesopotamia,

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3. che Semo quivi propagò la sua nazione, da’ cui rinniegati provennero essi caldei; ed ad un fiato si faccia credibile la storia profana, la qual, appo Giustino, propone come suoi antiprincípi, innanzi alla monarchia degli assiri, Tanai scita e Sesostride egizio ....

[1144] Con tanta traccuratezza hanno finora tutti i dotti ricevuto i princípi della storia universale! E ciò sia detto di Zoroaste.

[1145] [60] .... come restò a’ latini «chaldaeus» per «astrolago giudiziario». Per tutto ciò abbiamo noi allogato Zoroaste a lato di Giapeto, perocché sia il carattere della razza di Sem, che tratto tratto passò dalla vera religione all’idolatria, dalla quale si fondò il regno di Nebrod.

[1146] [62] La quale per gli nostri princípi si dimostra esser avvenuta nella discendenza di Sem per lo mondo dell’Asia orientale, ma essere stata diversa l’origine della diversitá delle lingue nelle razze giá fatte e disperse per l’Asia settentrionale (e quindi nella Scizia) e per la meridionale (e quindi nell’Indie), per l’Affrica e per l’Europa, con l’errore di dugento anni, nel quale Cam e Giafet l’avevano mandate. Ché tante vi volle di tempo dalla divisione della terra tra questi tre figliuoli di Noè infin alla confusione babillonese delle lingue, se mai la divisione tra queste razze fusse avvenuta prima della confusione babillonese: lo che però appare contrario a ciò che la Scrittura sagra ne divisa nel Genesi. Perocché, altrimenti, se la divisione fosse seguíta prima della confusione, seguirebbe questa sconcezza: che, essendosi cominciati da dugento anni innanzi a dividere sulla terra gli tre figliuoli di Noè, le razze empie di Cam e Giafet arebbono conservato la lingua santa avantidiluviana, e si sarebbono sottratti al divin castigo le razze empie di Cam e Giafet, e solamente punita la razza di Sem, ch’era pur pia, perché credeva in una qualche divinitá, e derivata la pena anco nel popolo di Dio. Perocché vogliono padri che, con la confusione babillonese delle lingue, si venne tratto tratto a perdere la puritá della lingua santa avantidiluviana.

[1147] Né per ciò si dice cosa punto contraria a ciò che narra la storia santa: che, avanti la confusione, tutti gli uomini sopra la terra erano d’un labbro solo, cioè d’una sola spezie di lingua. Perché le razze sperdute di Cam e Giafet, se la divisione fosse sortita prima della confusione (lo che non si può dire, essendo apertamente contrario a ciò che si narra nel Genesi), dovettero ritenere della lingua ebrea fin tanto che, a poco a poco, come

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fiere bestie disperse per la gran selva della terra, a capo di dugento anni che corsero dal partaggio di essa, cioè di un anno dopo il diluvio, ne’ quali avvenne essa confusione, disumanandosi, avevano affatto perduto ogni umana favella.

[1148] Quindi si traggono tre veritá: la prima, che questa Scienza conserva alla storia santa la degnitá;

la seconda, perché i caldei andarono piú prestamente degli altri alle false religioni, truovarono una spezie di divinazione piú dilicata e piú dotta che non fu quella che truovarono le razze di Cam e Giafet, che fu la divinazione da’ fulmini, tuoni, voli e canti d’uccelli;

la terza, che essi caldei, per questo istesso presto cammino alle false religioni, prevenendo tutt’altre nel corso che fanno le nazioni, gittarono le fondamenta alla prima monarchia degli assiri.

[1149] [66] .... l’avesser insegnate all’altre nazioni del mondo. Ma i greci si portarono troppo ingrati inverso un tanto benefattore, che e ne sconciarono il proprio nome, e l’accomunarono a tutte l’altre divinitadi, e ne truovarono per lui un altro, che è Ἡρμῆς,/ che vuol dire Mercurio. Dipoi non iscrissero le loro leggi co’ geroglifici ....

[1150] [68] Ora, per ciò ch’attiensi a questo gran momento della cristiana religione — che Mosè non abbia fatto alcun uso della religione né della polizia degli egizi — travaglia la cronologia. Perché Eusebio, seguíto da Beda, sperava di superar tal difficultá col suo calcolo, per lo quale poneva l’uscita degl’israeliti da Egitto sotto la condotta di Mosè da un mille anni innanzi alla guerra di Troia; il qual novero d’anni fu seguíto da’ cristiani antichi. Ma ora egli è stato corretto ed emendato piú d’un migliaio e mezzo d’anni da’ cristiani ultimi, i quali oggi sieguono il calcolo di Filone giudeo, la qual correzione si confermerá per gli nostri princípi, co’ quali dimostreremo che, per l’etá degli dèi e per l’etá degli eroi, abbia dovuto correre un settecento anni tra l’etá di Mosè e la guerra troiana; e sí, per tal calcolo di tanto scemato, viene Mosè a fiorire da quattrocento anni innanzi la guerra troiana, e, ’n conseguenza, a’ tempi di Cecrope, e perciò vien ad essere dopo di questo Mercurio egizio. Però questa grande difficultá della cronologia cristiana si truova spianata da’ nostri princípi, fermati in un luogo veramente d’oro di Giamblico .... ma un carattere de’ primi fondatori della nazion egizia. Laonde tal Mercurio [CMA3]

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degli egizi, ch’è ’l Cam dell’Asia meridionale e dell’Affrica, [SN2] sarebbe su questa Tavola da porsi [CMA4] a manca di Zoroaste, [CMA3], ch’è la razza empia di Sem sparsa per l’Asia orientale, e di [SN2] Giafet, ch’è ’l Giapeto dell’Asia settentrionale e dell’Europa, nel livello della divisione che fecero della terra i tre figliuoli di Noè. E per questo istesso luogo di Giamblico ....

[1151] [70] Quindi, come da vecchio covile, esce un gran mostro di cronologia: che da Elleno a Giapeto corrono due vite, di Deucalione e Prometeo, viva pur ciascuno cinquanta anni (quando i cronologi le vite incerte stabiliscono di trenta e poco piú), e sí abbiano corso cento anni. Ma ne corrono quattrocentoventicinque! Questi mostri ha nudrito nascostamente finora per la cronologia l’oppenione d’essere stati particolari uomini quelli che ci ha narrato la storia favolosa! Da quest’Elleno i greci natii si disser «elleni» .... ond’essi eran venuti colonie in Italia, ed altrettanto ne seppero i latini, mentre si formaron la lingua. Perché tal voce ....

[1152] [80] .... Della qual riprensione è una particella quella che degli dèi della gentilitá fa sant’Agostino [CMA3] per questo motivo preso dall’Eunuco di Terenzio, a cui ora noi soggiugniamo queste ponderazioni. Che ’l Cherea si finge dal poeta un giovinetto di sedici anni, d’una sublime ardente natura, giudice di bellezze d’un gusto raffinatissimo, che di niuna si era fin allor compiaciuto, come il professa col suo amico Antifone. S’innamora della schiava ad un’occhiata, in vedendola per istrada passare (che dá ad intendere di che bellezza luminosa ella fusse); e ne concepisce all’istante un amore cosí perduto, che un gentiluomo ateniese, cioè a dire della cittá la quale dappertutto spirava beninteso, convenevole ed aggiustato, soffre travvestirsi da eunuco, e da vile schiavo di esser menato da Parmenone, suo servo, a servire una meretrice di Taide; e faceva fine di tutti i suoi disidèri il poterla vedere, parlarle, talora mangiarvi insieme e dormirle alcuna volta da presso. Ma, in guardare la pittura di Giove, il quale, cangiato in pioggia d’oro, si giace con Danae, quell’ardire che non gli diedero tante e sí possenti naturali cagioni, da tal divino esemplo prende di violarla.

[1153] [89] .... potessero veleggiar un intiero giorno. [CMA3] Tal veritá osservò Omero quando portossi in Egitto, dove narra che la moglie del re Tono aveva ad Elena donato il nepente; della cui simigliante maniera dev’essere stato in Fenicia, dov’Elena pur aveva da’ grandi ricevuti de’ gran doni; e quivi narra l’isola di Calipso, detta Ogigia ....

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[1154] [94*] [CMA3] Le quali cose tutte ad un colpo devono rovesciar il sistema di Giovanni Seldeno, il quale pretende il diritto naturale della ragion eterna essere stato dagli ebrei insegnato a’ gentili sopra i sette precetti lasciati da Dio a’ figliuoli di Noè; devono rovesciar il Faleg di Samuello Bocarto, che vuole la lingua santa essersi propagata dagli ebrei all’altre nazioni e tra queste fossesi difformata e corrotta; e finalmente devono rovesciare la Dimostrazion evangelica di Daniello Uezio, che va di séguito al Faleg di Bocarto, come il Faleg del Bocarto va di séguito al sistema del Seldeno, nella quale l’uomo eruditissimo s’industria di dar a credere che le favole siano sagre storie alterate e corrotte da’ gentili e sopra tutti da’ greci.

[1155] [104] .... onde Publilio Filone, che ne fu autore, ne fu detto «dittator popolare». Perocché ’l dittatore non si criava senonsé negli ultimi pericoli dentro o fuori della repubblica, e perciò si criava con somma monarchica potestá di poter riformare anco, se fusse di bisogno, lo Stato, conforme con la dittatura il cambiò, se non di Stato, certamente di governo, da libera in aristocratica, per cinque anni Silla. [CMA3] E ’l dittatore si preconizzava dal senato, perché il dicevano, non co’ verbi «creare» o «facere», come de’ consoli, pretori e d’altri maestrati, ma «dicere dictatorem»; ove i romani, sappientissimi delle cose dello Stato, intesero la forza monarchica della dittatura e che i monarchi si fanno da Dio e si acclaman dagli uomini. E perciò non solamente da dittatore, durando, non si appellava, né si rendeva ragione finita la dittatura, ma, riassumendo quello in sé tutti gl’imperi minori, sotto di lui, per dirla con l’elegante espressione latina, «omnes magistratus silebant». Lo che ben avvisò Tacito nel terzo motto degli Annali, ove dice «Dictaturae ad tempus sumebantur», usando una delle due formole de’ legati detti «per vindicationem», per ogniuna delle quali i legatari gli si prendevano di propia autoritá, né avevano bisogno di ricevergli dalla mano dell’erede, le quali formole erano «capito» ovvero «sumito». [SN2] Per le quali ragioni, essendo messa su di nuovo con nuove rivolte cotal contesa d’intorno alla forma dello Stato popolare, per rassettarla se ne criò Ortensio dittatore, che confermò la legge publilia.

[1156] Le quali due leggi sono state finora guardate dagli eruditi interpetri della ragion romana per insegnar dalle cattedre a’ semplici giovinetti che con tali leggi fu data a’ plebisciti, o leggi tribunizie, forza eguale alle leggi consolari, e ci lasciarono la repubblica

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romana con due potestá somme legislatrici, indistinte ne’ distretti, nelle materie e ne’ tempi (che è un gran mostro di repubblica); perché non ne han saputo intendere il linguaggio: che, di ciò ch’avesse la plebe comandato con le leggi tribunizie, non potesse il popolo comandar il contrario con le leggi consolari. Lo che appresso sará da noi ad evidenza dimostrato di fatto: basta qui che vediamo un’idea per ipotesi.

[1157] [112] Con uguali passi, gli stessi tribuni s’avvanzarono nella potestá di comandare le leggi. Perocché prima i loro plebisciti non eran altro che dichiarazioni che faceva la plebe de’ nobili ad essolei esosi, perocché fussero gravi alla sua libertá, [CMA3] come aveva fatto a Coriolano. [SN2] Perché non poterono da principio certamente i loro plebisciti comandar pena, perché la plebe non aveva imperi; onde crediamo che i primi plebisciti romani sieno stati gli stessi che gli ostracismi d’Atene, co’ quali i chiari cittadini prendevansi per diece anni l’esiglio, e l’esiglio appo romani fin a’ tempi de’ principi non fu spezie di pena, ma scampo. Ma ne’ tempi di Filone dovettero giugnere i plebei a comandar leggi universali, [CMA3] come dalla storia delle leggi romane chiaramente apparisce averne di fatto comandate molte. [SN2] Quindi, essendo la repubblica romana caduta in questo grandissimo disordine, di nudrire dentro il suo seno due potestá, .... ordinò che d’intorno a ciò che la plebe avesse comandato ne’ comizi tributi, ne’ quali prevalevano i plebei, siccome quelli da’ quali si davano i voti per teste, i quiriti, i romani in adunanza (ché tanto, propiamente, suona tal voce, né «quirite» nel numero del meno si è detto mai), fussero da’ plebisciti obbligati. Che è tanto dire quanto non potessero ordinare leggi a quelli contrarie ne’ comizi centuriati, ne’ quali prevalevan i nobili, siccome quelli ch’ivi davan i voti per patrimoni. [CMA4] Onde, perché ne’ comizi centuriati prevalevano i senatori, pesandovisi i voti per patrimoni, e ne’ comizi tributi prevalevano i plebei, numerandovisi i voti per teste, avevano la ragione i padri di lamentarsi, appo Livio, ch’avevano perduto piú in pace ch’acquistato in guerra quell’anno, nel quale pur fecero i romani molte e grandi conquiste. Per tutto ciò, essendo giá, per leggi nelle quali essi nobili erano convenuti ....

[1158] [115] .... Il qual grand’effetto di cose romane, se non com’in sua propia cagione regge sulla ragion eterna de’ feudi (da noi scoverta nell’opera, schiarita nell’Annotazioni e molto piú avvalorata,

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come si vedrá, in questi libri), non sappiamo certamente qual via s’abbiano tutti i politici e tutt’i giureconsulti c’hanno scritto de iure publico da poterne uscir con onore; particolarmente con due luoghi, quanto per noi opportuni, tanto duri scogli ad essi da rompervi, entrambi di Cicerone. De’ quali uno è in una Catilinaria, dov’afferma che Tiberio Gracco con la legge agraria guastava lo stato della repubblica — [CMA3] lo che pur egli oratoriamente dice, spostandone il sentimento, ch’andava ben di séguito alla formola con la qual il consolo armava il popolo contro gli autori di cotal legge: «Qui rempublicam salvam velit, consulem sequatur» (quando sembra il senato turbar piú tosto lo Stato, che s’oppone al popolo, signore dell’imperio, che vuol disporre de’ campi da esso acquistati per forza d’armi nelle provincie) — [SN2] e che con ragione da Publio Scipione Nasica ne fu ammazzato. L’altro è nell’orazione a pro di Roscio Amerino, ove dice che Silla aveva iure gentium riportato vittoria di Mario.
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[Sezione Seconda]

[1159] [119] .... cosí deono per entro scorrervi ed animarla in tutto ciò che questa Scienza ragiona della comune natura delle nazioni. Onde non piú (come finora in tutti i ragionamenti che si leggono sui libri d’intorno a’ princípi di religioni, lingue, ordini, costumi, leggi, potestadi, imperi, domíni, commerzi, giudizi, pene, guerre, paci, allianze, che l’intiero subbietto ne compiono) ragioni contro ragioni, autoritá contro autoritá con ostinata guerra combattino, ma si compongano in una perpetua pace.

[1160] [120] [CMA2] La prima e principale di tutte le degnitá [CMA3] qui appresso proposte [CMA2] era questa gran metafisica veritá, [CMA3] la qual noi certamente avevamo usata in tutta quest’opera per rinvenire l’origini delle nazioni e delle scienze, le quali senza dubbio da esse nazioni sono state ritruovate; ma non avevano fin a quest’altra impressione avvertita. La qual è che l’uomo, per l’indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell’ignoranza, egli fa sé regola dell’universo, e, con questa smisurata misura, esso, delle cose che ignora, immagina sformatamente piú di quello ch’elleno son in fatti.

[1161] [123*] Questa stessa degnitá dimostra la boria essere figliuola dell’ignoranza e dell’amor propio, il quale ci gonfia, perciocché in noi sono troppo indonnate l’idee ch’abbiamo di noi medesimi e delle cose nostre, e con quelle come matti guardiamo le cose che da noi non s’intendono.

[1162] [127] A tal boria di nazioni aggiugniamo noi la boria de’ dotti, i quali ciò che essi sanno vogliono che lo sia antico quanto che ’l mondo; onde ogni ragionamento erudito che si faccia d’intorno ad ogni materia, udiamo incominciare dalla formazione del primo uomo, e che ciò che essi sanno sia principio al quale sien da richiamarsi tutte le cose che sanno gli altri.

[1163] [128*] Entrambe queste degnitá deon ammonir il leggitore il qual voglia profittare di questa Scienza (poiché entrambe queste borie provengono da ignoranza) di porsi in uno stato [piuttosto] di non saper nulla con docilitá, che con orgoglio di giá saper tutto de’ princípi dell’umanitá.

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[1164] [146] .... Ma in cotal guisa egli sarebbe un diritto civile comunicato ad altri popoli con umano provvedimento, [CMA3] come dall’imperadore Antonino Pio in poi fu il diritto civile romano comunicato a tutto il mondo soggetto al romano imperio, e non sarebbe un diritto con essi umani costumi naturalmente ordinato dalla divina provvedenza a tutte le nazioni, le quali, riconoscendo tai costumi uniformi senza avergli le une all’altre comunicati, gli osservarono come «iura a diis posita» e τῶν θεῶν δώρον, «dono degli dèi», come ne diffinisce il diritto natural delle genti Demostene. Questo sará lo piú gran lavoro che si fará per tutti questi libri ....

[1165] [163] .... le quali si prendono dalle inverisimiglianze, [CMA3] assurdi, sconcezze, contradizioni e impossibilitá di cotali oppenioni. Ma di queste quattro la prima ne dará altresí i primi fondamenti delle ragioni con le quali questa Scienza stabilisce i princípi dell’umanitá gentilesca, che si truoveranno esser quelli della poesia, a cagion che i di lei fondatori, per la lor somma ignoranza faccendosi regola dell’universo, con le loro favole formarono gli tre mondi descritti nella dipintura, cioè quello degli dèi, quello della natura e quello loro propio degli uomini. Le seguenti degnitá dalla quinta fin alla decimaquinta ....

[1166] [195] Questa stessa degnitá con l’antecedente ne dee determinare dugento anni ne’ quali le razze [CMA3] sperdute di Cam subito, di Giafet alquanto dopo, e finalmente di Sem alla fine, tratto tratto [SN2] fussero andate in uno stato ferino .... e con l’educazione ferina vi fussero provenuti e truovati giganti nel tempo che la prima volta dopo il diluvio fulminò il cielo. Ma per l’altezza della Mesopotamia, ch’è la terra piú mediterranea della parte piú terrestre del mondo, donde incominciò la divisione della terra tra’ figliuoli di Noè, è necessario vi avesse fulminato il cielo da un cento anni prima; donde si truovarono uniti in popolo li caldei, i quali, dugento anni dopo il diluvio, sotto Nebrod alzarono in Babillonia la torre della confusione. Lo che si dimostra da ciò: che ora la vasta terra, ove fu Babillonia, è tutta sfruttata, perché per la sua altezza ne sia scorso giú l’umidore, che conservano tuttavia l’altre terre del mondo.

[1167] [240] .... «lex» dovett’essere «raccolta di cittadini», [CMA3] o sia civil ragunanza per comandarvi le leggi: onde la presenza del popolo solennizava gli atti legittimi tra’ romani, e quindi i testamenti i quali si dicevano farsi «calatis comitiis», ch’erano

185 ―
per necessitá di natura tutti nuncupativi, perché i testamenti scritti furono appresso introdutti dal pretore, poi che s’era ritruovata la scrittura volgare; e a’ tempi barbari ritornati, ne’ quali erano radi coloro che sapessero di lettera, la pubblica ragunanza fu detta «parlamento». Finalmente, poi che fu ritruovata la scrittura volgare, fu da’ gramatici con comune errore creduto che «lex» sia stata detta a «legendo», quando, per le origini delle lingue che dentro si truoveranno, da «lex» deve venire esso «legere», che altro non è che raccoglier lettere. Tanto la scrittura è di sostanza della legge! [SN2] E questa degnitá con l’altra antecedente tornano a rinniegare la sapienza riposta de’ fondatori de’ primi popoli.

[1168] [267] .... gli re in casa ministravan le leggi, fuori amministravan le guerre, [CMA3] ed erano prefetti delle divine cerimonie, [SN2] e che i regni antichi si diferivano per elezione, non per successione, il quale civil costume riputa esser propio de’ barbari. [CMA3] Il qual ultimo detto sará da noi esaminato nel libro quarto.

[1169] [268] Di questa degnitá la prima parte per la lxxviii [lxxxii] è conseguenza della lxviii [lxxii]; la seconda cade tutta a livello ne’ due regni eroici di Teseo e di Romolo .... ove Tullio Ostilio ministra la legge nell’accusa d’Orazio. E perché le leggi erano osservate come cose sagre ne’ tempi eroici, gli re romani erano anco re delle cose sagre .... il capo de’ feciali o sia degli araldi. E sí nelle persone degli re eroici passarono unite sapienza di leggi, sacerdozio di cerimonie divine e regno d’armi; e l’uno e l’altro regno si diferí per elezione: l’ateniese fino a’ Pisistratidi, il romano fin a’ Tarquini. Né queste cose dette da noi turba punto il regno spartano, che fu eroico, nel quale succedevano i soli Eraclidi, perché, come si spiegherá dentro, vi venivano per elezione i nobili della razza di Ercole.

[1170] [271] .... i nobili giuravano d’esser eterni nemici, come fu la casa nobilissima Appia alla plebe romana.

[1171] [292*] [CMA3] Questa degnitá con la seguente, unita con la lxviii, scuopriranno queste tre veritá importantissime:

1. i princípi finor seppolti della dottrina politica;

2. la natural successione delle repubbliche;

3. e finalmente che dalle plebi de’ popoli vengono sempre e tutte le mutazioni degli Stati civili.

186 ―

[310*] [CMA1]

civ bis.

[1172] Le sorgive di tutte le umane azioni sono tre: onestá, utilitá, necessitá.

[1173] Questa degnitá dá i princípi della differenza tra ’l diritto natural de’ filosofi, ch’è dettato dall’onestá, per la quale gli uomini dovrebbono per ragion fare gli piú esatti doveri della giustizia; e ’l diritto natural delle genti, che si può ottenere dalla natura umana corrotta, che per le utilitá e necessitá della vita gli uomini celebrino quel giusto onde si conserva l’umana societá. Che è quello che i giureconsulti romani dicono nel diffinirlo: «usu exigente atque humanis necessitatibus expostulantibus».

[1174] [313] Questa stessa stabilisce la differenza da noi qui sopra detta del diritto natural delle genti, diritto natural de’ filosofi e diritto natural degli ebrei, che credevano nella provvedenza d’una mente infinita, e sopra il Sinai ebbero riordinata da Dio quella Legge ch’avevan avuto dal principio del mondo, cosí santa che vieta anco i pensieri meno che giusti, la quale non poteva osservarsi che da un popolo che riverisse e temesse un Dio tutto mente, che spia ne’ cuori degli uomini; e, ’n forza di tal legge, osservavano tutti i doveri dell’onestá. Onde «giusto» nella lingua santa significa «uomo d’ogni virtú»; per lo che gli ebrei sono da Teofrasto chiamati «filosofi per natura». Per tutte le quali tre differenze ....

[1175] [316] .... case nobili antiche, come quelle de’ padri de’ quali Romolo compose il senato e, col senato, la romana cittá, tralle quali, come ne rapporta un’oppenione Suetonio, fu l’Appia Claudia co’ suoi vassalli, venutavi da Regillo. Come, al contrario, dissero «gentes minores» le case nobili nuove provenute dopo le cittá, come furono quelle de’ padri de’ quali Tarquinio Prisco prima, e poi Giunio Bruto, cacciati gli re da Roma, supplirono il senato ....

[1176] [325] .... onde spesso i giureconsulti, ed anco i volgari latini scrittori dal secolo d’Augusto in poi, in ragionando de iusto, usano dire «verum est» per «aequum est».

187 ―

[Sezione Terza]

[1177] [330] .... preghiamo il leggitore che richiami alla memoria e risvegli nella fantasia qualunque anticipato concetto di qualunque materia [CMA2] d’intorno alle origini di tutto lo scibile divino ed umano della gentilitá .... [SN2] Che certamente, egli ...., faccendo cotal confronto, s’accorgerá essere tutti pregiudizi ed oscuri e sconci, e la lor fantasia esser un covile di tanti mostri e la lor memoria una cimmeria grotta di tante tenebre. Ma, perché egli cangi in piacere la dispiacenza che certamente dovrá recargli cotal veduta, la quale, quanto egli sará piú addottrinato, dovrá farglisi sentire maggiore, perché piú il disagia ed incomoda di ciò sullo che esso giá riposava: per tutto ciò esso faccia conto che quanto immagina e si ricorda d’intorno a’ princípi di tutte le parti che compiono il subbietto della sapienza profana, sia una di quelle capricciose dipinture, le quali, sfacciate, dánno a vedere informissimi mostri, ma, dal giusto punto della loro prospettiva guardate di profilo, dánno a vedere bellissime formate figure.

[1178] Ma tal giusto punto di prospettiva ci niegano di ritruovare le due borie che nelle Degnitá abbiamo dimostro. La boria delle gentili nazioni, che diceva Diodoro sicolo, d’essere stata ogniuna la prima del mondo (dalla quale da Gioseffo udimmo essere stata lontana l’ebrea), ci disanima di ritruovare i princípi di questa Scienza da’ filologi; la boria de’ dotti, che vogliono ciò che essi sanno essere stato eminentemente inteso dal principio del mondo, ci dispera di ritruovargli da’ filosofi. In tal disperazione hassi a porre il leggitore che voglia profittare di questa Scienza, come se per lo di lei acquisto non ci fussero affatto libri nel mondo. Né noi l’aremmo ritruovata altrimenti, senonsé la provvedenza divina ci avesse cosí guidato nel corso de’ nostri studi, che, non avendo avuto maestri, non ci determinammo da niuna passione di scuola o setta; e, ’n cotal guisa, dalla bella prima che incominciammo a profondare ne’ princípi dell’umanitá gentilesca, sempre meno e meno soddisfaccendoci ciò che se n’era scritto, stabilimmo finalmente da ben venti anni fa di non legger piú libri; come ultimamente risapemmo aver fatto, con magnanimo sforzo ma con infelice

188 ―
evento, l’inghilese Tommas Obbes, il quale in questa parte credette di accrescere la greca filosofia, e se ne vantava co’ dotti amici che, se esso, come quelli, avesse seguitato a leggere gli scrittori, non sarebbe piú d’ogniuno di essi.

[1179] [331] Ma in tal densa notte di tenebre .... apparisce .... questa veritá, che può servirci di cinosura, onde giugniamo al disiderato porto di questa Scienza: che questo mondo civile certamente egli è stato fatto dagli uomini ....

[1180] [336] Se voglia opporsi al secondo alcuno, che, in questa mansuetudine d’atti e parole, sia di mente piú immane che non furono le fiere d’Orfeo, e voglia appruovare a’ dissoluti ch’i concubiti .... senza solennitá di matrimoni non contengano niuna naturale malizia, egli fugga e si nasconda in ogni angulo piú riposto del mondo, ché sará ripreso di tal sua falsa oppenione. Poiché le nazioni tutte la riprendano di falso con essi costumi umani .... ch’è l’infame nefas del mondo eslege, che determina nefari cosí fatti concubiti, de’ quali non poté intendere la ragione naturale Socrate né gli altri (tra’ quali è Ugon Grozio) che gli vennero appresso. [CMA4] E la ragione naturale si è perché, con tali concubiti, si pianta sopra il piantato, e sí, quanto è per essi, coloro che l’usano, non a propagare, vanno a restrignere e per ultimo a finire la generazione degli uomini.

189 ―

[Sezione Quarta]

[1181] [338*] Ch’è la molesta fatiga che deon fare i curiosi di questa Scienza, di cuoprire d’obblio le loro fantasie e le loro memorie e lasciar libero il luogo al solo puro intendimento; e, ’n cotal guisa, da tal primo pensier umano incominceranno a scuoprire le finora seppellite origini di tante cose che compongono ed abbelliscono cosí questo mondo civile come quel delle scienze, per lo cui scuoprimento con tanta gloria travagliarono, del mondo civile, Marco Terenzio Varrone ne’ suoi libri Rerum divinarum et humanarum, e, del mondo delle scienze, Bacone da Verulamio. E, sventata ogni boria, e quella delle nazioni per ciò che attiensi al mondo civile, e quella de’ dotti per ciò che riguarda il mondo delle scienze, tutte con merito di veritá e con ragion di giustizia, quali (per la serie dell’umane cose e dell’umane idee che nelle Degnitá proponemmo) debbon esser l’origini di tutte le cose, tutte semplici e rozze si ravviseranno qui, come in loro embrione e matrice, dentro la sapienza de’ poeti teologi, che furono i primi sappienti del mondo gentilesco.

[1182] [349] .... in Dio [CMA3], ove voglia, il conoscere e ’l fare è una medesima cosa; di che nella nostra Vita letteraria, con una pruova metafisica, la quale tuttodí sperimentiamo nelle funzioni della nostra anima, abbiamo tratto questa dimostrazione.

[1183] Sono nella nostra mente certe eterne veritá, le quali non possiamo sconoscere e rinniegare, e ’n conseguenza che non sono da noi. Ma del rimanente sentiamo in noi una libertá di far, intendendovi, tutte le cose le quali hanno dipendenza dal corpo, e perciò le facciamo in tempo, cioè quando vogliamo applicarvi, e tutte, intendendovi, le facciamo: come l’immagini con la fantasia; le reminiscenze con la memoria; con l’appetito le passioni; gli odori, i sapori, i colori, i suoni co’ sensi; e tutte queste cose le conteniamo dentro di noi, non essendo niuna di quelle che possa sussistere fuori di noi, onde soltanto durano quanto vi tegniamo applicata la nostra mente. Laonde delle veritá eterne, che non son in noi dal corpo, dobbiam intender esser principio un’idea eterna, che, nella sua cognizione, ove voglia, ella cria tutte le cose

190 ―
in tempo e le contiene tutte dentro di sé, e tutte, applicandovi, le conserva.

[1184] La qual dimostrazione pruova ad un fiato queste quattro grandi veritá:

1. ch’un’idea eterna è ’l principio di tutte le cose mortali;

2. che Dio è principio libero delle produzioni ad extra;

3. che ’l mondo è stato criato in tempo;

4. che vi sia provvedenza divina, la quale, intendendo, conserva tutte le cose criate.

[1185] Per tutto ciò quel «dovette, deve, dovrá» è una maniera archetipa e quasi creativa, la quale non si può avere che nell’idee eterne di Dio; poiché tanto vagliono «dovette» quanto «fu fatto», tanto «deve» quanto «si fa», tanto «dovrá» quanto vale «farassi». Talché cosí, in certo modo, la mente umana con questa Scienza procede a produrre da sé questo mondo di nazioni come la mente di Dio procede nel produrre il mondo della natura, il qual sommo Facitore, nel suo Principio, nel suo Verbo, nella sua eterna Idea, disse in tempo quel «Fiat» et facta sunt. E ’n cotal guisa questa Scienza, come nelle Degnitá avvisocci Aristotile, vien ad essere «de aeternis et immutabilibus».

[1186] [359] Ma tutte queste, anziché pruove le quali soddisfacciano i nostri intelletti, sono ammende che si fanno agli errori delle nostre memorie ed alle sconcezze delle nostre fantasie, e, per questo istesso, faranno piú di violenza a riceverle e piú di piacere dopo averle ricevute. Pruova sia di ciò che, se non avessimo avuto affatto scrittori, sí fatte pruove punto non ci arebbero bisognate, e senza esse resterebbono per tanto ben sodisfatti gl’intelletti di ciò che ne aremmo ragionato in idea; anzi, liberi di cotanto vecchie, comuni e robuste anticipate oppenioni, ci ritruoveremmo piú docili a ricevere questa Scienza.

[1187] [360] .... questi deon esser i confini piú accertati e piú utili alle repubbliche cristiane, che distinguono la ragione e la fede, che non sono quelli di Pier Daniello Uezio, ultimamente in un libro postumo usciti alla luce. E chiunque se ne voglia trar fuori, egli veda di non trarsi fuori da tutta l’umanitá.

[1188] Ora qui si rapportino tutte le degnitá dalla i [ii] fino alla xx [xxii], la xxix [xxxi], il secondo corollario della xli [xliii], la xlii [xliv], la lx [lxiv] e la lxi [lxv], l’ultimo della c [cv] e particolarmente la ci [cvi]; e si truoverá tutto lo qui detto essere eminentemente da quelle dimostrato.

191 ―

LIBRO SECONDO


Introduzione
Prolegomeni

[1189] [363*] [CMA3] Quindi esce questo gran corollario: che non sia materia della sapienza intiera o sia universale, ciò di che la sapienza riposta [CMA4] de’ filosofi [CMA3] non n’ebbe l’occasioni dalla sapienza volgare [CMA4] de’ poeti; [CMA3] onde l’ateismo, non giá per sapienza, si ha a tenere per istoltezza e pazzia, poiché le prime nazioni, come dimostreremo, in tutte le cose criate videro dèi, e poi i metafisici migliori, [CMA4] quali son i platonici, che ’n questa parte di filosofia furono gli piú sublimi di tutti gli altri filosofi, [CMA3] in tutte le cose criate intesero Dio.

Capitolo Primo

[1190] [366] .... le nazioni si disponessero a ricevere la scienza del vero bene eterno ed infinito, in forza d’una fede sopranaturale, a certi avvisi rivelati da Dio, tutto mente e nulla corpo. Onde, appo gli ebrei, tal’avvisi furon dati da esso Dio o mandati dagli angioli o da’ profeti; appo cristiani, lasciatici da Giesu Cristo e datici ne’ di lei bisogni co’ dogmi della sua Chiesa.

192 ―

Capitolo Secondo

[1191] [368] [CMA3] Di tal maniera che questa vien ad esser ad un fiato una storia dell’idee, una storia de’ costumi, ch’è tanto dire che delle leggi, ed una storia de’ fatti del gener umano. E vedrassi dalla storia dell’idee o sia delle menti uscir la storia de’ costumi o sia degli animi, e da entrambe uscir la storia delle lingue, e da tutte e tre uscir la storia della natura umana, che, propiamente, non è altro che mente, animo e lingua. E con tal condotta si descriverá la storia universale, che tutt’i dotti confessano mancare ne’ suoi princípi e nella perpetuitá ovvero continovazione, ma sopra un’idea che niuno de’ dotti ha potuto finora disiderare. La quale ci sará scritta da essa volgar sapienza in modo di commentari, ne’ quali le scienze vi tengon il luogo de’ consigli, i costumi quello de’ mezzi di tutto ciò che la natura umana ha operato in questo mondo di nazioni.

Capitolo Terzo

[1192] [371] .... dall’acqua, la cui necessitá s’intese prima del fuoco, .... avesse incominciato l’umanitá. [CMA3] Siccome viaggiatori riferiscono esservi ancor oggi nazioni selvagge che non hanno ancor inteso la necessitá del fuoco. E questa è l’origine delle sagre lavande ....

193 ―

SEZIONE PRIMA
Capitolo Primo

[1193] [376*] Di piú, perché l’uomo è naturalmente portato a dilettarsi dell’uniforme, com’abbiam veduto nelle Degnitá, perché la mente umana agogna naturalmente di unirsi a Dio, dond’ella viene, ch’è ’l vero uno; e non potendo quelli primi uomini, per la loro troppo sensuale natura, esercitare la facultá (ch’era sotto i loro troppo vigorosi sensi seppolta) di astrarre da’ subbietti le propietá e le forme alle quali le particolari cose, che essi sentivano ed immaginavano, si conformassero, per ridurle alle loro unitá si finsero le favole. E naturalmente appresero per generali veritá quelle che in fatti erano non altro che generi fantastici o unitá immaginarie, o fussero finti modelli, a’ quali riducevano tutte le particolari cose che sentivano o immaginavano o essi stessi facevano, richiamando ciascuna al suo modello al quale si assomigliasse. E ne restarono detti con somma latina eleganza «genus» in significato di «forma» o «guisa» o «maniera» o «modello», e detta «species» in significato di «sembianza» o di «cosa che si assomiglia e rassembra»; e tal acconcezza d’assembramento delle cose fatte alle loro idee o modelli fu detta anco «species» in significazion di «bellezza».

Capitolo Secondo

[La redazione, che questo capitolo ebbe nella SN2, sembra a prima vista totalmente diversa da quella della SN3. Ma, a dir vero, piú che di altro, si tratta di spostamenti. E invero nella SN2 il capitolo constava di tredici paragrafi, che nelle CMA3 divennero quindici, avendone il V. aggiunto uno tra l’XI e il XII e un altro dopo il XIII. Nella SN3, invece, i paragrafi I e II vennero anticipati nel capitolo precedente,

194 ―
formando parte del capov. 384; gli altri furono combinati e spostati giusta la seguente tabella:         
SN2 SN3 
§ III (sfrondato di molte citazioni erudite) e § IV  § I 
§§ VIII e XI, con giunte che si trovano in parte nelle CMA3 § II 
Principio del § VI e § V, con una giunta che si trova in parte nelle CMA4 § III 
Resto del § VI e § VII   § IV 
§ XIII bis (aggiunto, come s’è detto, nelle CMA3)  § V 
§ XI bis (aggiunto nelle CMA3 § VI 
§§ XII e XIII  § VII 

Restarono fuori soltanto i paragrafi IX e X, riferiti qui tra le varianti].

[1194] [385*] Con tal principio dell’idolatria si è dimostrato altresí il principio della divinazione (ché nacquero al mondo ad un parto); a’ quali due princípi va di séguito quello dei sacrifici ch’essi facevano per proccurare o sia ben intender gli augúri. Da’ quali princípi dovevano cominciare i loro libri Cicerone, De natura deorum; Apollodoro, De origine deorum; Giraldo, De diis gentium; Daniel Classenio, De theologia civili; e ’l Vossio la sua maggior opera De theologia gentilium, e Cicerone gli altri De divinatione; Edone Nehusio, la sua Divinazione sacra e profana; Antonio Borremanzio, De poëtis et prophetis; gli autori De diis fatidicis e De oraculis sibyllinis; e Vandalè, i suoi De devinatione e De oraculis; e finalmente Stuchio, De sacrificiis gentium.

[1195] [389*] IX. — Quivi per alto consiglio della provvedenza ebbe il suo principio il diritto della forza, con la quale Giove legittima il suo regno [CMA3] sopra gli dèi e gli uomini con la gran catena d’Omero che noi qui sopra abbiamo spiegato (il qual diritto [SN2] si celebrò per tutto il tempo divino ed eroico, ond’Achille ripone la sua ragione nell’asta), acciocché gli uomini, fin quando non intendessero ragione, estimassero la ragion della forza, ma infrenata da alcun timore di religione (la qual sola, come abbiam nelle Degnitá veduto, poteva infrenar i violenti di Obbes); siccome per la religione i giganti s’assoggettiscono alla forza di Giove.

195 ―

[1196] X. — Si scuoprono quindi ancor i princípi ond’ebbero incominciamento tutti i primi regni, che furono la forza e la froda; ma non giá, quali hanno finora stimato i cattivi politici, fatte da uomini ad altri uomini, ma che fecero gli uomini a se medesimi; e sí furono, forza e froda, dalla divina provvedenza permesse a bene del gener umano.

[1197] [392] .... ne dará una teogonia naturale .... sulla quale doveva Esiodo formare la sua e Giovanni Boccaccio descrivere la sua Genealogia degli dèi. La qual teogonia ne dará, quindi incominciando, la cronologia ragionata della storia poetica, che corse tralle nazioni almen un novecento anni innanzi di venire l’anno astronomico, dal qual finor ha cominciato la dottrina de’ tempi.

[1198] [399] .... come si ha nelle greche tradizioni; comincia il secol dell’oro a’ greci e quel di Saturno a’ latini, ne’ quali gli dèi praticavan in terra cogli uomini, la quale fu la prima etá del mondo gentilesco. [CMA4] La qual prima etá qui, come da una sua prima epoca, conforme si è nelle Degnitá divisato, incomincia da Giove e dalla religione degli auspíci ne’ di lui fulmini, da cui debbe incominciare tutta la storia universale. Di che i latini ci serbarono un certo avviso in queste tre voci: «auspicari», «augurari» (per «incominciare») ed «initia» (per dire «consegrazioni» e «incominciamenti» o «princípi»). Cosí i greci poeti .... [CMA3]

Capitolo Terzo

Come da questa debbano tutte l’altre scienze
prender i loro princípi

[1199] Questi sono gli aspetti generali per gli quali questa Scienza può essere riguardata. Ma da questo stesso primo principio di tutte le divine ed umane cose gentilesche, ch’abbiamo truovato dentro questa metafisica del gener umano, questa medesima Scienza sublime ne dará i princípi di tutte l’altre subalterne, le quali la metafisica deve assicurare della veritá di tutti i loro particolari subbietti. Che saranno le prime fila con le quali si tesserá la tela di questo libro e le prime linee con le quali s’incomincia a condurre il disegno della nostra storia dell’idee.

196 ―

i

[1200] La logica da questa prende le sue prime idee, che si truovano tutte divine, e le prime voci, le quali si truovano tutti parlari mentali spiegati con atti mutoli.

ii

[1201] La morale da questa prende il suo primo principio, ch’è ’l conato, il qual è propio della volontá libera, la qual è ’l subbietto delle virtú e de’ vizi.

iii

[1202] L’iconomica da questa prende il timore della divinitá, ch’è ’l primo principio de’ matrimoni, i quali son il seminario delle famiglie.

iv

[1203] La politica da questa prende il suo subbietto, ché sono due spezie d’uomini che compongono le repubbliche; e incomincia dalla piú nobile di altri che vi comandino, che qui si sono truovati esser que’

pauci quos aequus amavit

Iupiter, a cui appresso seguirá l’altra di altri che v’ubidiscano. Poiché altro non è la politica che scienza di comandare e d’ubidire nelle cittá.

[1204] E qui si compierá il ramo delle scienze attive che proponemmo uscire dal tronco di questa poetica metafisica. L’altro ramo, che pur dicemmo, delle scienze specolative comincia ad uscire da questo tronco stesso con questa serie.

v

[1205] La fisica da questa metafisica prende i suoi princípi fantasticati divini, e ’ncomincia da quello ch’i primi giganti pii appresero:

Iovis omnia plena;

197 ―
la qual poi con Platone terminò in una fisica divina, da esso ragionata nel Parmenide, nel quale stabilisce l’idea eterna per principio di tutte le cose in tempo.

[1206] E la fisica particolare dell’uomo prende quinci i suoi princípi da questi giganti di vasti corpi e d’animi bestiali, da’ quali, come materia, col timore della divinitá incomincia ad edursi la forma delle nostre giuste corporature e de’ nostri animi umani.

vi

[1207] La cosmografia quindi incomincia dal primo cielo, che fu alle prime genti l’altura de’ monti, e dal primo mondo, che fu la loro proclivitá, la qual antichissima idea si conservò da’ latini in que’ loro favellari: «in mundo est» per «in proclivi est», per significar «egli è facile».

vii

[1208] L’astronomia qui comincia dal principe de’ pianeti, ch’è Giove, quando il Cielo regnò in terra e fu tanto benefico al gener umano che n’ebbe il grazioso titolo appo tutte le gentili nazioni di «ottimo».

viii

[1209] La cronologia qui pure da Giove dá incominciamento all’etá degli dèi, ch’è la pianta della nostra Tavola cronologica; e Giove sará la prima delle dodici minute epoche di altrettante divinitá maggiori, le quali serviranno per determinare tal prima etá del mondo aver durato novecento anni.

ix

[1210] E la geografia finalmente, che dalle regioni e misure del cielo accerta quelle della terra, quindi incomincia dalle regioni le quali disegnavano gli áuguri in cielo per prendere quindi gli auspíci di Giove, le qual’i latini dissero «templa caeli», delle quali fu il primo contemplare e la prima contemplazione alla quale attesero i primi uomini al mondo.

[1211] Talché queste nove scienze debbon essere state le nove muse, le qual’i poeti pur ci cantarono esser tutte figliuole di Giove;

198 ―
e per tutte queste cose istesse ora si restituisce il suo propio significato istorico a quel motto:

A Iove principium Musae.

[CMA3]

Capitolo Quarto

Riprensione delle metafisiche di Renato Delle Carte,
di Benedetto Spinosa e di Giovanni Locke

[1212] Laonde, se non s’incomincia da

un dio ch’a tutti è Giove,

non si può avere niuna idea né di scienza né di virtú. Cosí ha facile l’uscita la supposizione di Polibio, il qual dice che, se fusser al mondo filosofi, non sarebber uopo religioni! Perché le metafisiche de’ filosofi debbon andar di concerto con questa metafisica de’ poeti, in questo importantissimo punto, onde dall’idea d’una divinitá sono provenute tutte le scienze c’hanno arricchito il mondo di tutte l’arti dell’umanitá: come questa metafisica volgare insegnò agli uomini perduti nello stato bestiale a formar il primo pensiero umano da quello di Giove, cosí gli addottrinati non debban ammettere alcun vero in metafisica che non cominci dal vero Ente, ch’è Dio.

[1213] E Renato Delle Carte certamente l’arebbe riconosciuto, se l’avesse avvertito dentro la stessa dubitazione che fa del suo essere. Imperciocché, se io dubito se io sia o no, dubito del mio esser vero, del qual è impossibile ch’io vada in ricerca se non vi è il vero Essere, perch’è impossibile ricercar cosa della quale non s’abbia verun’idea. Or, dubitando io dell’esser mio né dubitando del vero Essere, il vero Essere è realmente distinto dall’esser mio. Il mio essere è terminato da corpo e da tempo, che mi fanno necessitá: adunque l’Ente vero è scevero da corpo, e perciò sopra il corpo, e quindi sopra il tempo, il qual è misura del corpo secondo il prima e ’l poi, o (per me’ dire) è misurato dal moto del corpo. E, ’n conseguenza di tutto ciò, l’Ente vero è eterno, infinito, libero. Cosí egli Renato arebbe, come a buon filosofo conveniva, cominciato da una idea semplicissima, che non ha mescolata niuna composizione, qual è quella dell’Ente; onde Platone con peso di parole chiamò la metafisica Ὀντολογία,/

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«scienza dell’Ente». Ma egli sconosce l’Ente e ’ncomincia a conoscer le cose dalla sostanza, la qual è idea composta di due cose: d’una che sta sotto e sostiene, d’altra che vi sta sopra e s’appoggia.

[1214] Cotal maniera di filosofare diede lo scandalo a Benedetto Spinosa, uomo senza pubblica religione e, ’n conseguenza, rifiuto di tutte le repubbliche, e per odio di tutte intimò una guerra aperta a tutte le religioni. E, non dando altro che la sostanza, e questa esser o mente o corpo, e non terminando né corpo mente né mente corpo, per tutto ciò stabilí un Dio d’infinita mente in infinito corpo, e perciò operante per necessitá.

[1215] Incontro a Spinosa si è fatto dalla parte opposta Giovanni Locke, il quale sullo stesso scandalo del Cartesio adorna la metafisica d’Epicuro, e vuole che tutte l’idee sien in noi per supposizione ed essere risalti del corpo, e sí è costretto a dar un Dio tutto corpo operante a caso. Ma il Locke veda s’ella è per supposizione l’idea del vero Essere, la qual io mi ritruovo aver innanzi l’idea del mio essere, ch’è tanto dire quanto innanzi del mio supposto; la qual, perch’è del vero Ente (essendo del vero bene), mi mena a ricercare nel suo Essere l’esser mio: talché ella non mi è venuta dal mio corpo, del qual io ancor dubito dentro la dubitazion del mio essere. Dal corpo è nato il tempo, e dal corpo e dal tempo, che si misura col moto del corpo (ove non sia mente la qual regoli il moto del corpo), esce il caso.

[1216] Con tali ragioni, se non andiamo errati, abbiamo scoverti manifestamente i paralogismi delle metafisiche che tengono diverso cammino dalla platonica. Perocché quella d’Aristotile non è altro che la metafisica di Platone trasportata dal dialogo al metodo didascalico, che noi diremmo «insegnativo»; siccome Proclo, gran mattematico e filosofo platonico, con un aureo libro portò i princípi fisici d’Aristotile (che sono quasi gli stessi ch’i princípi metafisici di Platone) al metodo geometrico.

[1217] Ora incominciamo ormai a ragionare partitamente delle subalterne scienze poetiche.

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Sezione Seconda
Capitolo Primo

[1218] [403] .... che ne dessero le loro origini tutte univoche, come quelle de’ parlari volgari lo sono piú spesso analogiche: quali contese Cesare esserlo ne’ suoi libri De analogia, che scrisse contro Catone, che si era attenuto alla parte opposta ne’ libri De originibus. E ce ne giunse pur ....

[1219] [403*] [CMA4] Talché essendo l’etimologie quelle che ne dánno l’origini delle voci, e le favole furono le prime voci ch’usò la gentilitá, le mitologie poetiche sono appunto quelle che qui noi trattiamo, che ne dánno le vere origini delle favole. [SN2] E questa è la Periermenia o interpetrazione de’ nomi: parte di questa logica poetica, dalla quale doveva quella di Aristotile incominciare.

Capitolo Secondo

[1220] [407] .... Cosí la materia per lo tutto formato, come il «ferro» per l’armadura, perché la materia è piú sensibile della forma: perocché «aes» per lo «danaio coniato» venne da’ tempi che «aes rude» spendevasi per moneta. Quel nastro di sineddoche e metonimia ....

[1221] [408] L’ironia .... è formata dal falso in forza d’una riflessione che prende maschera di veritá. [CMA4] Onde qui riflettiamo non ricordarci d’aver letto ironia in tutta l’Iliade, e però preghiamo il leggitore ad osservarlo; ché s’è cosí, egli ne dará un grande argomento per la discoverta del vero Omero che si fará nel terzo di questi libri, e che l’Omero dell’Iliade fu a’ tempi della Grecia generosa, aperta, magnanima, e sí molto innanzi all’Omero dell’Odissea, la qual è tutta piena delle simolazioni e doppiezze d’Ulisse.

[1222] [410] .... Tal composizione d’idee fece i mostri poetici: di che abbiamo nella ragion romana che ogni padre di famiglia romano

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ha tre «capi», per significare tre vite. Perché «vita» è termine astratto, e ’l capo è la piú cospicua sensibil parte dell’uomo, onde gli eroi giuravano «per lo capo» per significare che giuravano per la vita. Le quali tre vite erano: una, naturale, della libertá; un’altra, civile, della cittadinanza; la terza, famigliare, della famiglia.

Capitolo Terzo

[1223] [414] Come gli ateniesi a Solone e gli spartani a Ligurgo attaccarono tante leggi quante dell’uno e dell’altro la greca storia ne narra, delle quali molte non solo non appartenevano loro, ma erano tutte contrarie alle loro condotte. Come a Solone l’ordinamento degli areopagiti, i quali erano giá stati ordinati sino dal tempo della guerra troiana, perocché Oreste del parricidio commesso nella sua madre Clitennestra fu da essi assoluto col voto di Minerva, o sia con la paritá de’ voti; e gli areopagiti infin a Pericle mantennero con la loro severitá in Atene lo Stato o almeno il governo aristocratico: lo che è contrario a Solone ordinatore della popolare libertá ateniese. Ed a rovescio, a Ligurgo, fondatore della repubblica spartana, che senza contrasto fu aristocratica, attaccano l’ordinamento della legge agraria, della spezie onde fu quella de’ Gracchi in Roma, [CMA3] quando il magnanimo re Agide, ne’ tempi piú avvanzati di quella repubblica eroica, volendo comandarvi la legge testamentaria convenevole alle repubbliche popolari (la qual certamente appo i romani precedette di gran tempo all’agraria de’ Gracchi) funne fatto impiccare dagli efori.

[1224] [425] .... appunto come fu brutto Tersite, descrittoci da Omero con le propietá di capoparte di plebe, che sono di dir sempre male de’ principi e di sollevar loro contro i popoli, ed è da Ulisse battuto .... nella Cittá di Dio. Ond’a torto i critici hanno finora ripreso Omero d’aver con gli eroi trammeschiato persone volgari e ridevoli.

[1225] [427] .... i pittagorici .... tutti furono spenti. [CMA3*] Perché il Carme aureo, il quale sotto il nome di Pittagora ci è pervenuto, sa pur troppo di scolastica platonica ultima; i simboli delli pittagorici devon essere stati provverbi enimmatici contenenti massime di sapienza volgare, i quali, per questa logica, devon

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essere stati appiccati a Pittagora. Certamente in ciò convengono tutti: che Pittagora non lasciò nulla di sé scritto; e ’l primo, dopo piú secoli appresso, fu Filolao, il quale scrisse di pittagorica filosofia.

Capitolo Quarto

[1226] [430] .... oppenioni .... le quali, perocché sono tante e tali, dovrebbono trallasciare di riferirsi. Ma, perché non sospetti il leggitore di noi ciò che molti autori fanno (e particolarmente oggidí), i quali, per promuovere le sole cose scritte da essi, non solo non espongono alla libertá di chi legge le cose scrittene dagli altri, ma anco vietan loro di leggerle, ci piace, per soddisfarlo, arrecargliene qualcuna. Come quella che, perocché a’ tempi barbari ritornati la Scandinavia ....

[1227] [431] Perché da questi princípi .... doveva Aristotile incominciare la sua Periermenia o sia «interpetrazione de’ nomi», come sopra si è detto, ché cosí non sarebbe in ciò stato contrario a Platone; e Platon doveva andarla a ritruovare nel Cratilo, ove con magnanimo conato il tentò e con infelice evento nol conseguí. E generalmente da questi princípi tutti i filosofi e tutti i filologi ....

[1228] [433] .... di che certamente dee intendersi la legge delle XII Tavole nel capo «Qui nexum faciet mancipiumque», [CMA3] cioè che parlò de’ campi dati da’ signori a’ plebei, per gli quali questi restarono a quelli «nexi», obbligati: talché la consegna di tal nodo, ch’abbisognava alla mancipazione, era una mutola professione che ’l podere il quale si consegnava era de’ nobili; ond’essi plebei furono nessi de’ nobili infino alla legge petelia, la qual fu comandata nel CCCCXIX di Roma. Le quali cose qui accennate molto rileveranno per intendere la natura dell’antiche revindicazioni, e se ne deve bene ricordare [il leggitore] per intendere la natura eterna ed universale de’ feudi; delle quali cose appieno ragionerassi nel libro quinto. Con l’istessa mente degli antichi latini gl’italiani ....

[1229] [436] .... la loro sapienza riposta sotto de’ geroglifici. Onde s’intenda con quanto di scienza scrissero Giamblico De mysteriis e Valeriano De hieroglyphicis aegyptiorum!

[1230] [439*] E dovettero tali caratteri pistolari essere come i geroglifici chinesi, ch’ascendono al numero di cenventimila, co’ quali

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s’intendono i popoli, in quell’ampissimo regno, tra loro di lingue articolate diverse; appunto come nelle forme arabiche de’ numeri e de’ pianeti e nelle note della musica convengono di sentimento tutte le lingue diverse d’Europa. Di lettere sí fatte diciamo ch’ogni nazione si ritruovò le sue a suo piacere, non giá per forme, ma per segni de’ suoni umani articolati. E serbiamo la tradizione comunemente ricevuta da’ fenici, però secondo il giudizio disgiuntivo di Tacito: ch’eglino, o ricevute da altri o ritruovate da essi, sparsero le lettere nell’altre nazioni. Ed ammendando qui la boria e delle nazioni e de’ dotti, restrigniamo tutte l’altre nazioni alla sola greca e quindi alla latina: perché dovetter essere caratteri mattematici ovvero figure geometriche, ch’i fenici ricevettero da’ caldei e se ne servirono per forme de’ numeri, come, maiuscole, restarono per tali usi a’ greci e a’ latini. E i greci, con sommo pregio d’ingegno, le trasportarono, piú che a’ segni, alle forme de’ suoni umani articolati; da’ quali l’appresero poscia i latini, le quali il medesimo Tacito osserva essere somiglianti all’antichissime greche. Le quali forme, cosí, riuscirono le piú belle e le piú pulite di tutte l’altre, siccome i greci ingegni furono gli piú ben intesi e gli piú dilicati di tutte le nazioni.

[1231] [444] .... elleno per queste lor origini naturali, debbon significare naturalmente. Imperciocché ogni parola volgare dovette incominciare certamente da alcuno d’una nazione, il quale, con atto o corpo ch’avesse natural rapporto all’idea ch’esso voleva comunicare ad altrui e, come mutolo, dargliene con tal atto o corpo ad intendere che cosa egli con tal voce volesse dire, e sí avere naturale l’origine, e perciò significare naturalmente. Lo che si osserva nella lingua latina, la qual è piú eroica ....

[1232] [449] .... E naturalmente nacque il canto, .... e nacque con voci monosillabe, siccome sono monosillabe nella musica le sei note del canto. Lo che, qui detto, quindi a poco recherá molto uso ....

[1233] [453] .... dall’indivisibile del presente, difficilissimo ad intendersi da’ medesimi addottrinati. Lo che si conferma con l’ellipsi, che per lo piú supplisce i verbi, che dee essere il principio dell’ellipsi sanziana. E pur i verbi, che sono i generi di tutti gli altri ....

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[SN2]

Capitolo Quarto bis

Dimostrazione della veritá della religion cristiana

[1234] E qui nasce una dimostrazione piú invitta di quante mai si son fatte della veritá della cristiana religione, la qual abbiamo sopra promesso. Ché le radici de’ verbi della lingua santa mettendo capo nella terza persona del numero del meno del tempo passato compiuto, dovetter i patriarchi, che la fondarono, dare gli ordini nelle loro famiglie a nome di un solo Dio; onde la Scrittura santa è piena di quella espressione «Deus dixit». Che dev’essere un fulmine da atterrare tutti gli scrittori che hanno oppinato gli ebrei essere stata una colonia uscita da Egitto; quando, dall’incominciar a formarsi, la lingua ebrea ebbe incominciamento da un solo Dio.

Capitolo Quinto

[1235] [462] .... ed affermano gli unni fussero stati cosí detti che le incominciassero tutte da «un». Lo stesso hassi a congetturare de’ vandali: come gli olandesi incominciano tutti i casati da «van»; onde è forte congettura ch’essi sieno una colonia de’ vandali, e che la prima natural necessitá di ritruovar i nomi fu per distinguersi tra loro i casati, che son i «nomi» propiamente a’ latini. Finalmente si dimostra che le lingue incominciaron col canto .... fecero i padri della Chiesa latina (truoverassi il medesimo della greca), incominciando da san Gregorio, talché le loro prose sembrano cantilene.

[1236] [469] .... Acilio Glabrione quest’altra: «Fudit, fugat», ecc.; altri quella: «Summas opes qui regum regias prosternit». [CMA3] I frammenti della legge delle XII Tavole .... «Pietatem adhibento», e con alquanto di licenza la seguente: «Opes amovento». Onde, al riferire di Cicerone medesimo ....

[1237] [471] .... Guntero, Guglielmo pugliese ed altri. Il Genebrando scrive essere stato composto in versi ritmici l’Alcorano, che fanno un canto troppo arioso. Senza contrasto, innanzi d’Omero non vi ha memoria di verso giambico, che succedette al tempo de’ primi poeti tragici, onde fu naturale ch’entrasse nella tragedia. Il qual errore comune fu preso per legge di dover entrare nella commedia,

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quando giá si era ritruovata la prosa. Abbiam veduto i primi scrittori nelle novelle lingue d’Europa .... e sí, per inopia di verbi, avesser unito essi nomi. Talché l’origine delle voci composte è la medesima che quella che noi sopra abbiamo dimostrato dell’ellipsi e del torno, nel qual i tedeschi sono tanto piú raggirati de’ latini quanto i latini lo sono piú di essi greci. Che devon esser i princípi di ciò che scrisse il Morhofio in Disquisitionibus de germanica lingua et poësi; e ’l Loccenio, che scrisse de’ poeti tedeschi che si dissero «scaldi» o «scaltri», seguíto dal Wormio in Appendice Literaturae runicae. E questa sia una pruova ....

[1238] [472] Ed ecco i princípi della poesia, dentro la metafisica e logica di essi poeti, ad evidenza dimostrati, non che diversi, tutti contrari a quelli che tutti i filosofi e filologi han finor immaginati; e dentro di essi scoverte le origini delle lettere e delle lingue, delle quali tutti, e filologi e filosofi, affatto avevano disperato. [CMA3] E questa discoverta dell’origine della poesia, che sará la miniera feconda di tutte l’altre le quali si faranno da questa Scienza, ella, come lavoro del suo disegno, esce dalla degnitá xxviii incominciando fin alla xxx, dalla xxxii fino alla xl, dalla lxii fin alla lxiv.

Capitolo Sesto

[1239] [476] .... ed ancor oggi conservano una volgar arte d’indovinare. Ed oppinaron il cielo esser templo di Giove, dove credevan eternarsi gli re con le loro stupende piramidi.

[1240] [478] De’ romani è famoso quel verso di Ennio: «Aspice hoc sublime cadens» (in significato di «pendens», cioè sospeso sulle colonne de’ monti, delle quali da’ greci due, Abila e Calpe, ne restaron dette colonne d’Ercole, e dagli arabi il diede Maometto a creder a’ turchi), «quem omnes invocant Iovem» ....

[1241] [481] Ma gli ebrei adorarono il vero Altissimo, ch’è sopra il cielo, entro il chiuso del tabernacolo: onde veda il Marshamo se gli ebrei presero dagli egizi il costume di fabbricar templi al vero Dio.

[1242] [482] .... «moure bleu» per «muoia Iddio». [CMA3] E qui è tutto spiegato ciò che si è sopra detto in accorcio: che l’idea del diritto nacque congenita con quella della provvedenza divina, perché il primo gius che nacque al mondo fu quello comandato dal vero Dio ad Adamo, e da Giove a’ primi fondatori delle nazioni gentili.

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[1243] [483] .... contrasegnare con lettere o con imprese, bestiami o altre robe da mercantare, per distinguere ed accertarne i padroni. Le quali, a’ toscani dette «marche», si dissero «notae» a’ latini, a’ quali significarono anco lettere prime accorciate dalle loro intiere voci; e «nota», ove portava ignominia o infamia, si disse anco da’ medesimi «insigne» in sentimento di sfregio: per lo cui contrario senso di onore l’impresa si dice «insegna» agli italiani.

[1244] [484] .... o tre atti di falciare significano propiamente «tre anni». Ove, se ben si rifletta, cotal’imprese erudite deon esser trasformazioni poetiche, come «una torre» per Aiace, che fu detto «torre de’ greci», nella qual «Aiace» diventa «torre»; talché, essendo l’imprese erudite non altro che metafore dipinte, tutte le metafore deon essere poetiche trasformazioni.

Capitolo Settimo

[1245] [498] .... «poesie in un certo modo reali». [CMA4] Onde, se gli autori delle nazioni furon i fanciulli del gener umano, essi dovetter esser i poeti c’han fondato il mondo dell’arti, com’i filosofi, che vennero lunga etá appresso, s’innalzarono a meditare sopra il mondo delle scienze, onde fu affatto compiuta l’umanitá.

[1246] [CMA3] Ed è in ciò da ammirare il ricorso che fanno le nazioni (del quale, in tutta la distesa di tal materia, ragioneremo nel libro quinto): che a’ tempi barbari ritornati, tutte le invenzioni massime si ritruovarono [CMA4] o da idioti o da barbari. [CMA3] Come la bussola nautica, da un pastore d’Amalfi, che compié l’arte nautica, ne ha dato lo scuoprimento del mondo nuovo e quasi il compimento della geografia; e pure nella magnanima audace impresa si segnalarono tre ingegni, due italiani, che furono Cristoforo Colombo genovese ed Americo Vespucci fiorentino, che ha dato il nome a tutta quella gran quarta parte del mondo, e Ferdinando Megaglianes portoghese, ivi penetrando lo stretto, a cui ha lasciato eterno il suo nome, con la sua famosa nave detta della Vittoria, girò col sole tutta la terra. La nave con le sole vele, [CMA4] che n’ha dato una nuova arte navale, [CMA3] perocché gli antichi l’ebbero tutte con vele e remi, ritruovate in Italia nelle maremme del Lazio, onde serbano il nome di «vele latine». Gli occhiali, ritruovati pur in Italia da [Salvino degli Armati] fiorentino,

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de’ quali privi, gli antichi con le guastadette piene d’acqua soccorrevano alle bisogne degli occhi. Il cannocchiale, ritruovato da un idiota occhialaio olandese, il qual perciò con aria latina chiamano «conspicilla batavica»; che ne ha dato al gran Galileo, pur italiano, la discoverta di nuove stelle, il compimento dell’astronomia ed un altro sistema mondano. La polvere e lo schioppo, ritruovati in Germania da un tal Bertoldo; onde poi nacque il cannone, la prima volta di cuoio, pur in Italia inventato in una guerra tra genovesi e viniziani, che ne ha dato una nuova bellica. Il lambicco, ritruovato dagli arabi, da’ quali ha la voce «alembich», il qual n’ha dato questa spargirica, tanto disiderata dagli antichi, come l’aveva ne’ suoi maggiori voti Galeno, e n’ha fruttato la chimica. Pur ritruovato degli arabi, ricevuto da tutte le nazioni, sono le dieci figure de’ numeri, c’hanno facilitato l’aritmetica sopra quella degli antichi, i quali le somme sformatamente numerose contavano per punti. La carta, ritruovato di questi tempi, e gli piú vogliono nell’Italia, e la stampa, ritruovata in Magonza (contesa a torto alla Germania dall’Olanda, la qual pretendeva essersi ritruovata in Arlem), che ne ha dato la soprabbondante copia di libri, la quale oggimai n’opprime. L’orologio, pur ritruovato nella Germania, quanto ingegnoso tanto necessario per osservare in ogni luogo, in ogni tempo, l’esatte misure del tempo. Filippo Brunelleschi fiorentino non arebbe ritruovato la cupola di Santa Maria de’ fiori in Firenze, se avesse ceduto agli architetti antichi, i quali tutti gliel’avevano contrastato, che produsse una nuova architettura. La circolazione del sangue n’ha dato nuovi sistemi di [CMA4] notomia e di [CMA3] medicina; la quale, benché si contenda tra l’Inghilterra e l’Italia, questa d’averla ritruovata Paolo Sarpi e quella Guglielmo Arveo, certamente Marco Polo, gentiluomo viniziano, riferisce averla ritruovata, insieme con la stampa, [CMA4] discoverta innanzi, [CMA3] nella gran Tartaria.

[1247] Tante e sí grandi invenzioni barbare, che poi destarono gl’ingegni de’ dotti a meditare tante bellissime ed utilissime scienze, se giugnessero a’ lontani secoli avvenire senza queste distinte notizie di storia certa, direbbono senza dubbio i vegnenti ch’i loro ritruovatori fussero stati ricolmi dell’innarrivabile sapienza barbaresca dell’Ornio, siccome finora noi abbiam creduto de’ Zoroasti, de’ Berosi, de’ Trimegisti, degli Atlanti e degli Orfei; e, come da quelli era stata la Grecia, cosí da questi fussesi illuminata la

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Francia, ch’aprí la famosa scuola parigina agli studi della piú sublime teologia, tanto piú ch’andò ad insegnarlavi dall’Italia il famoso Pier lombardo, detto il «maestro delle sentenze», e vi lavorarono sopra acconci sistemi di sottilissima filosofia un Giovanni Dunz ed un Guglielmo Ocamo da Inghilterra ed un san Tommaso d’Aquino da Italia.

[1248] Da sí grave ragionamento, che tratta di ricorso di nazioni, fuori d’ogni nostro proposito esce di fianco la risposta al libro del francese, il quale con tanta sicurezza porta questo problema in fronte: Se l’altre nazioni d’Europa abbiano pregio d’ingegno. Forse ciò avviene perché gl’ingegni delle nazioni sono come quelli de’ terreni, i quali, lunga etá incolti, poi coltivati, dánno frutti maravigliosi per grandezza, buono succo e sapore, e poi con la lunga e molta coltivazione gli rendono piccioli, poco sostanziosi e sciapiti? e che perciò da’ latini la facoltá ritruovatrice della mente umana fu detta «ingenium», quasi «ingenitum», che sia «natura», come dissero «ingenium caeli», «ingenium soli»; e tanto non si acquista e migliora che s’infievolisce e si disperde con la coltura delle scienze e dell’arti?

[1249] [499] [CMA3] Questa storia dell’umane idee, pruovata con l’antiche e ripruovata con le moderne nazioni, ci vien a maraviglia confermata dalla storia della filosofia, [CMA4] la quale lo Stanleo, come noi qui il facciamo in questa parte della logica, doveva filosoficamente narrare. Che la prima maniera ch’usarono gli uomini ....

[1250] [500] .... (tanto i primi popoli eran incapaci d’universali!). Le quali le menti cortissime di que’ primi uomini non potevan affatto intendere, e solamente le potevan sentire a certe comuni utilitá universalmente richieste da intieri comuni d’uomini, qual fu la prima legge agraria che nacque al mondo, com’appresso dimostreremo. Del rimanente, non intendevano il bisogno delle leggi senonsé fussero succeduti i fatti che domandavanle; come il re Tullo Ostilio apertamente il professa sulla storia romana, ove dice di non sapere che pena s’appartenga ad Orazio, accusato d’aver ucciso la sua sorella.

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SEZIONE TERZA


Capitolo Unico

[1251] [507] .... le mogli erano a luogo di figliuole de’ lor mariti e di sorelle de’ lor figliuoli, ed appo molte nazioni barbare le mogli non meno che i figliuoli sono da’ lor mariti trattate da schiave. Finalmente, per tal prerogativa degli auspíci appo le prime nazioni, dovetter i matrimoni incominciare non solo con una sola donna ....

[1252] [508] .... Bacco nato da Semele fulminata; chiaro, quanto i due anzidetti, Perseo fatto con Danae da Giove cangiato in pioggia d’oro, per significare la gran solennitá degli auspíci con una pioggia di fulmini. Questo fu il primo motivo ....

[1253] [509] La seconda solennitá è che le donne si velino .... Il qual costume è stato conservato da tutte le nazioni, anco dagli ebrei; e i latini ne diedero il nome ....

[1254] [510] .... E dopo le prime terre occupate da’ giganti con ingombrarle coi corpi [CMA3] e con le mani, come appunto i pittori dipingono i giganti con le mani incatenate a terra sotto de’ monti, le mogli solenni si dissero «manucaptae».

[1255] [512] Onde Venere eroica .... si cuopre la vergogna col cesto dal quale furon detti da’ romani «incestuosi» i congiugnimenti vietati da strettezza di sangue; il qual cesto, poi, i poeti effemminati ricamarono di tutti gl’incentivi della libidine. [CMA3] Ma forse meglio sará, alla maniera di Varrone, dar a cotal voce origine natia, e che le nozze contratte tra gli troppo stretti di sangue si dicano «inceste» perché sieno troppo caste, siccome la particella «in» per un gran numero di voci non toglie ma accresce il sentimento. Perché le prime nozze dovetter essere tra fratelli e sorelle, ch’avevano la comunanza dell’acqua, che faceva la castitá delle nozze, come quindi a poco diremo. Dipoi, essendosi propagata l’umana generazione, tal castitá fu soverchia, e, per piú propagarsi il gener umano, proibita. Alla stessa fatta poi, corrotta la severa storia degli auspíci ....

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[1256] [513] .... in tal sentimento «heri» si dissero da’ latini, [CMA3] e con perpetuitá cosí restaron detti nel comandare, siccome costantemente s’osserva nelle commedie da’ servi dirsi «heri» i loro padroni. E ’l patrimonio del padre di famiglia difonto, che con voce natia latina era stata detta «familia» nella legge delle XII Tavole, poi da quest’origine greca restò detta «hereditas», che dapprima dovette significare «sovrana signoria», siccome tra gli dèi è signora e regina Giunone; e da essa legge delle XII Tavole .... e i figliuoli non meno che gli schiavi furono compresi sotto il nome «rei suae», anzi tutta la famiglia venne intesa sotto la voce «pecuniae», com’altri leggono quel capo con le voci «pecuniae tutelaeve». Lo che troppo gravemente appruova .... la ritennero anco dentro le repubbliche popolari. Per cotal signoria dovettero le madri di famiglia dirsi «dominae» da’ romani dalla voce «domi», ond’è «servare domi», «guardar la casa», perocché il dover iconomico delle madri di famiglia è di comandar e conservar nelle case; e quindi «donna», in sentimento di «signora», fu detta agl’italiani, «dueña» agli spagnuoli, «dame» a’ francesi. Le qual’origini di cose e di voci stando cosí, tanto dovette a’ greci significar «eroe» quanto «signore», e le repubbliche «eroiche» lo stesso che repubbliche «di signori», quali sono e si dicono le repubbliche aristocratiche.

[1257] [518-9] Tal morale divina finalmente diede a’ primi uomini quella pratica sperimentata, utile per tutti i tempi appresso ed assistita dalle ragioni delle migliori filosofie, di commettersi gli uomini tutti alla divina provvedenza e stimar bene tutto ciò ch’ella ci para davanti. Della morale eroica de’ tempi ultimi ragioneremo nella Discoverta del vero Omero.

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SEZIONE QUARTA
Capitolo Primo

[1258] [521] .... Talché essi duumviri venivan ad essere quasi leggi vive e parlanti, [CMA3] come poi, ritruovate le lettere volgari, propiamente «legislatori» si dissero i consoli, per cagion d’esemplo, i quali dal senato portavano le leggi al popolo, le quali esso volesse comandare.

[1259] E qui sia lecito far una digressione a Tribuniano, il quale nell’Istituta vuole che la divisione del diritto romano in iscritto e non iscritto sia venuto da Grecia in Roma, cioè da Atene, che, come repubblica popolare, scriveva le leggi, e da Sparta, che, come repubblica aristocratica, osservava le costumanze. E ciò che fu, è e sará civil natura di tutti i popoli di vivere finalmente con costumanze e con leggi — perché, innanzi di ritruovarsi le lettere volgari, la divina provvedenza aveva ordinato che vivessero con costumanze, e poi, ritruovate le lettere, vivessero anche con le leggi, siccome l’avvertimmo nell’Annotazioni alla Tavola cronologica (onde il gius naturale, che precorse al civile in tutte le nazioni, egli da’ giureconsulti si diffinisce «ius divina providentia hominum moribus constitutum») — i romani il dovettero apparare da’ greci! Il qual errore, com’altri quanto numerosi tanto egualmente gravi, è germogliato da quello: che la legge delle XII Tavole fusse venuta da Grecia in Roma, come farem vedere nel Ragionamento ch’abbiam promesso nel fine di questi libri. Qui ora solamente s’avvertisca quanto nulla o assai poco Tribuniano, Teofilo, Doroteo, che composero l’Istituta e dovetter essere gli piú riputati di tutti gli altri greci giureconsulti di que’ tempi, furon essi filosofi, che da un errore cosí balordo incomincian a trattare de’ princípi della giurisprudenza. S’aggiugna che furon ignorantissimi delle cose romane. E finalmente faccia il cumulo che presero a trattar di leggi concepute in lingua straniera; d’intorno alle quali la cosa quanto necessaria tanto da Cuiacio, ne’ Paratitli de’ Digesti, è riputata la piú difficile, ch’è la diffinizione de’ nomi

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di legge, la qual esce da essa interpetrazione delle parole. Per le quali cagioni tutte s’intenda che guasto hanno essi dato alla giurisprudenza romana con irreparabil danno, avendo fatti in minutissimi brani i libri de’ romani giureconsulti, i quali se avessero lasciati intieri tutti uniti in un corpo, altre testimonianze che marmi e medaglie arebbon avuto i filologi, altri lumi i filosofi, per iscuoprire quelli le romane antichitá e questi la natura di questo mondo di nazioni! Lo che Bacone da Verulamio, tra perché fu filosofo e non filologo, e perché gl’inghilesi nulla o poco curarono la romana giurisprudenza, non seppe nemmeno disiderare; e que’ pochi canoni, che dá d’intorno alla scienza delle leggi nel suo aureo libro De augumentis scientiarum, non hanno né ’l nerbo né ’l fondo c’hanno gli altri disidèri e discoverte delle quali si adorna il suo Novus orbis scientiarum.

[1260] [530*] [CMA2] Ma perché è costume comune delle nazioni ch’i plebei, perché naturalmente ammirano la nobiltá, ne prendono i favellari come l’usanze, ed al contrario i nobili, perché naturalmente voglion esser distinti nelle cittá, altri e altre di nuovo ne truovano (la qual dee essere la gran cagione delle differenze delle parole in ciascuna lingua, le quali quanto sono lo stesso nella significazione tanto nel suono elleno son affatto diverse); [CMA3] e perché tra’ contadini come l’usanze cosí gli antichi favellari piú si conservano: cosí [CMA2] la voce «filius», la quale nel principio fu vocabolo eroico, e perciò quello che ’n giurisprudenza si dice «vocabulum iuris», poscia, divolgatosi nella plebe romana, passò a significare i figliuoli naturali ....; i nobili, per distinguersi, presero ad usare la voce «liberi», [CMA3] con la quale parola parla la legge delle XII Tavole, ond’è vocabolo ora di legge e comprende di qualunque grado i nipoti, i quali, naturalmente, non sono figliuoli.

[1261] [545] [CMA3] Appresso, menando innanzi la stessa maniera di pensare, dovettero dire «poma d’oro» prima il latte e dappoi le belle lane, che pur sono frutti di natura, con quest’ordine avvertiti dopo il frumento, perché appresso si mostrerá la pastoreccia esser venuta dopo la villereccia. Quindi appo Omero si lamenta Atreo che Tieste gli abbia rubato le pecore d’oro; e gli argonauti predarono il vello d’oro da Colco, ed Ercole faceva bottini di pecore e capre d’oro: dal qual pregio e carezza i poeti, delle loro amate donne, dissero «aureas papillas». Perciò lo stesso Omero appella con perpetuo aggiunto i suoi re ....

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[1262] [547] [CMA3] Tanto vi volle di tempo che l’idea della carezza e del pregio passasse dall’oro frumento al metallo! Dallo che si raccogliono due bellissimi corollari. De’ quali uno è che non bisogna piú travagliarsi i mitologi a dire con molta serietá molte ciancie per giustificare d’avarizia, di sfacciatezza e d’ingratitudine un valoroso eroe, Diomede, che sembra avaramente voler cangiare il suo scudo di ferro con quello d’oro di Glauco, sfacciatamente fargliene la domanda, e senza grado alcuno nel riporta cangiato. L’altro è che la divisione dell’etá del mondo per gli quattro metalli, cioè d’oro, d’argento, di rame e di ferro, è ritruovato de’ poeti de’ tempi bassi, della quale non vi ha niun luogo appo Omero che ne faccia alcuna menzione. Perché quest’oro poetico diede a’ greci il nome dell’etá dell’oro ....

[1263] [550] .... cioè di sanginelli, sambuchi, che finoggi ne ritengono e l’uso e ’l nome, e di quella che pur dagl’italiani si dice «erba santa»; dette cosí dal sangue degli uccisi .... quella parte della legge che minaccia la pena a’ di lei trasgressori. [CMA4] Sí fatta istoria delle prime vervene (ché cosí pure si chiamarono tali erbe ch’adornarono i primi altari del gentilesimo) ella ci dimostra che gli altri popoli del Lazio celebravano privatamente lo stesso costume de’ romani di tenere sí fatte erbe per sante. Ch’è quello che qui pruoviamo generalmente; che il diritto natural delle genti ....

[1264] [552] E ’n questi princípi doveva dar Aristotile ed altri c’hanno scritto della dottrina iconomica, che, per difetto di questa Scienza, essi non poterono vedere per la parte de’ figliuoli, e molto meno per l’altra de’ famoli. Perché tutti i filosofi, ingannati da’ filologi, stimarono le famiglie nello stato di «natura» essere state di soli figliuoli ....

Capitolo Secondo

[1265] [553] .... uccidevano i violenti ch’avevano violato le loro [CMA3] arate terre. Che dovett’essere la prima violenza ingiusta fatta contro l’umana societá, perocché le violenze innanzi fatte nelle risse che produceva l’infame comunione delle cose e delle donne non erano state né giuste né ingiuste, a cagion che non si eran ancora gli uomini associati. E ricevevano in protezione i miseri da essolor rifuggiti ....

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[1266] [557] .... E con una di queste famiglie dovette Abramo far guerre co’ re gentili. [CMA4] Cosí si può far verisimile la storia romana d’intorno alla calogna da Appio decemviro tramata contro Virginia, ch’ella fusse sua schiava, perché in que’ tempi i plebei erano come schiavi de’ nobili.

[1267] [564*] Ma i gramatici latini, ignari di quest’origini di cose, che dovevano dar lor la scienza dell’origini delle voci, essendo lor pervenuta la voce «lucus» in significazione di «bosco sagro» (perché ne’ primi tempi con aspetto di sagre si guardavano tutte le cose profane), ed osservando che folti fronzuti arbori con dense ombre facevano le delizie de’ boschetti sagri, si finsero l’antifrasi con cui fosse «lucus» stato detto perché «non lucet». Come se gli autori delle lingue, ch’erano tutti senso quando le si formarono, come sta appiena sopra dimostro, avesser dato i nomi alle cose dalle loro negazioni, le quali non lasciano vestigio in esso intelletto, tanto non posson fare impression alcuna ne’ sensi!

[1268] [565-6] .... pei quali forse fu immaginata Venere maschia, natane in mente de’ poeti eroi la fantastica idea dal veder essi quant’erano brutti, laidi, sozzi, irsuti, squallidi e rabuffati gli uomini empi che si rifuggivan a’ lor asili: nel quale stato sarebbono degni d’andare alcuni dotti con la loro sfumata letteratura, a’ quali dovrebbe far capo Bayle, che sostiene che senza religione si possa vivere, e che si viva di fatto, [in] umana societá. Di questa bellezza, e non d’altra, furono vaghi gli spartani .... come osserva Antonio Fabro nella Giurisprudenza papinianea. [CMA4] E con la stessa eroica propietá Orazio dovette dire «infame monstrum» la regina Cleopatra, maritata a Marc’Antonio senza aver con lui il gius divino de’ romani auspíci comune.

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SEZIONE QUINTA


Capitolo Primo

[1269] [582] .... e per tutto ciò naturali obbligazioni. [CMA3] Né le leggi romane s’impacciaron unquemai delle nazioni libere poste fuori del lor imperio, [CMA4] né loro apparteneva impacciarsene, le quali tutte essi stimavano barbare. Ch’anzi tal paterna potestá degli antichi romani ha del barbaro, e quella che si celebrò sotto gl’imperadori hassi a tener per umana.

[1270] [593] .... i vagiti di Giove bambino ...., che Saturno (il qual dee esser plebeo) volevasi divorare, per significare che con una fame di disiderio ne bramava il dominio de’ campi; dal quale nascondimento i latini gramatici, indovinando, dissero essere stato appellato Latium.

Capitolo Secondo

[1271] [601] .... tutti i regni eroici furono di sacerdoti, quali oggi sono nell’Indie orientali i regni de’ bonzi. I quali feudi sovrani ....

[1272] [603*] Di queste cose dovevano avere la scienza gli eruditi interpetri, ch’empiono tutte le carte del famoso «ius quiritium romanorum», e non seppero nulla de’ suoi princípi, perché trattarono le leggi romane senza veruno rapporto allo stato da cui, come prendono la forma, cosí debbon avere la lor vera interpetrazione le leggi. Ma, per ciò ch’appartiene al nostro proposito, per queste ed altre ragioni ch’a’ luoghi lor usciranno, si convince d’errore Oldendorpio, che credette i nostri feudi essere scintille dell’incendio dato da’ barbari al diritto romano; perché ’l diritto romano, come d’ogni altro popolo, è nato da questi princípi eterni de’ feudi. Si convince d’error Bodino, ove dice che i feudi sovrani soggetti ad altri sovrani sono ritruovati de’ tempi barbari, intendendo i secondi a noi vicini; perch’è pur troppo vero di tutti i tempi barbari ne’ quali da sí fatti feudi nacquero tutte le repubbliche

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del mondo. [CMA3] Si riprende di falsa oppenione Cuiacio, il qual tiene cotal materia di feudi per vile; la quale nelle sue cagioni è tanto nobile e luminosa, ch’indi, nonché la giurisprudenza romana, illustra i suoi princípi essa dottrina politica, ch’è la regina di tutte le scienze pratiche.

[1273] [611*] Dalla discoverta di tal’ospiti eroici si può facilmente intendere il trasporto di fantasia, per lo quale Cicerone negli Ufici vanamente ammira la mansuetudine degli antichi romani, che col benigno nome di «ospite» chiamavano il nimico di guerra. A cui affatto somigliante sono due altri: uno di Seneca, ove vuol pruovare che debbano i signori usare umanitá inverso gli schiavi, perocché gli antichi gli chiamarono «padri di famiglia»; l’altro è di Grozio, che, nell’annotazioni a’ libri De iure belli et pacis, con un gran numero di leggi di diverse barbare nazioni d’Europa crede dimostrare la mitezza delle antiche pene dell’omicidio, che condannano in pochi danai la morte d’un uomo ucciso. I quali tre errori escono dalla sorgiva di tutti gli altri che si sono presi d’intorno a’ princípi dell’umanitá delle nazioni, la quale è stata da noi additata tralle prime delle nostre Degnitá; perché tali etimologie e tali leggi dimostrano la fierezza de’ primi tempi barbari anzi che no, ne’ quali trattavano gli stranieri da nimici di guerra, i figliuoli a guisa di schiavi, come si è sopra veduto, e tenevano cotanto a vile il sangue de’ poveri vassalli rustici, che con la lingua feudale si dicevano «homines», di che si maraviglia Ottomano come abbiam accennato sopra.

Capitolo Quarto

[1274] [624] [CMA3] Tanto che la βουλή e l’ἀγορά .... dovetter essere tra’ romani le ragunanze curiate .... e le ragunanze tribunizie. D’una delle quali Pomponio fa menzione ove narra la legge con la quale Giunio Bruto pubblicò alla plebe romana l’ordinamento fatto da’ padri d’intorno agli re per sempre discacciargli da Roma. Sopra la nominazione della qual legge dicono tante inezie erudite i colti interpetri della romana ragione; delle quali quella non è punto da passare senza castigo: che cotal legge fusse stata appellata «tribunizia», [CMA4] quasi «Bruti Iunia»; e piú quell’altra: [CMA3] perocché Giunio Bruto, che comandolla, era allora tribuno de’ celeri, ch’ora si direbbe capitano delle guardie del corpo

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del re. Con la quale sciocchezza vengon a dire che Bruto, il quale con tal legge comanda che sia spento eternalmente in Roma anco il nome di re (onde a Tarquinio Collatino, di tanto offeso dal figliuolo del Superbo, quanto fu la violenza dell’adulterio che ne patí e la morte che se ne diede la sua amabilissima casta e forte moglie Lucrezia, non per altro fece deponere il consolato che perché aveva il casato Tarquinio), avesse appellato tal legge da un maestrato che con l’armi ne aveva guardato la persona: quando a’ dittatori, ch’appresso, nelle bisogne pubbliche le quali gli richiedevano, con qualitá reale monarchica si crearono, si dava un maestrato che dovevane guardar le persone, ma per l’odio del nome reale [lo] dissero «maestro de’ cavalieri»; e, per riguardo della sola religione, superstiziosa delle parole [CMA4] e delle formole consagrate, [CMA3] «re delle cose sagre» (quali con Aristotile vedemmo essere stati gli re eroici, e perciò anco stati lo erano gli re romani), restò un nome attaccato al capo de’ feciali o sia degli araldi, [CMA4] i quali oggi, nella barbarie ricorsa, si veggono vestir le dalmatiche e diconsi «re dell’armi» e, come or sono questi, [CMA3] cotanto avvilito, che ’n tutta la storia romana appresso non se ne legge altro che ’l nome. Errore affatto somigliante a quello con cui han creduto [CMA4] essere stata appellata col nome, odiosissimo a’ romani, di «regia» [CMA3] la legge con la quale Tribuniano vaneggia aver il popolo romano trasferito il suo libero sovrano imperio in Augusto: della qual favola nel fine di questi libri, come abbiam sopra promesso, terremo un particolare ragionamento.

[1275] [626] .... ed all’incontro tanto «plebeo» quanto «ignobile». [CMA3] Ma, dappoi che i plebei cominciaron a ragunarsi per comandar l’esiglio di chiari uomini nobili, ch’erano gravi alla loro libertá naturale, come avevano incominciato a farlo con Marcio Coriolano, indi in poi si disse «maximus comitiatus» la ragunanza grande de’ nobili e de’ plebei; della qual voce si serve la legge delle XII Tavole. Il qual superlativo porta necessariamente di séguito la ragunanza minore, ch’era la tribunizia de’ plebei, e la maggiore, ch’era la curiata de’ nobili. Ma, poi che Fabio Massimo introdusse il censo pianta della libertá popolare ...., il qual censo distingueva il popolo romano per tre ordini, secondo le facultá ....

[1276] [626*] [CMA3] La qual veritá si dimostra con un luminoso esemplo della casa Appia, la piú nobile di tutte le patrizie

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romane, la qual da Regillo era fin da’ tempi di Romolo venuta in Roma con Atta Clauso, signore co’ suoi vassalli; della qual casa il ramo della famiglia Appia Claudia fu sempre senatoria, l’altro della famiglia Appia Pulcra, per la povertá, fu sempre plebea. E, della stessa Appia Claudia, Clodio, per ambiziosi disegni d’essere tribuno della plebe, non potendo esserlo se non fusse dell’ordine plebeo, fecesi da un plebeo adottare, né pertanto lasciò d’esser nobilissimo. Perché, con l’adozione, si perdeva la sola famiglia e quindi la sola agnazione; ma non si perdeva la casa o gente e, per essa, la gentilitá, [CMA4] siccome il professa Galba appo Tacito, il qual dice che, con l’adozione ch’egli faceva di Pisone, esso allo splendore della casa Sulpizia, che vantava di venire da Pasife e da Giove, univa quello delle case di Crasso e Pompeo, da’ quali Pisone traeva l’origine.

[1277] [627] .... «plebiscitum», venendo egli da «sciscor», e non «scio». [CMA3] E ne’ comizi centuriati si serbò l’origine della voce «curia», perché delle novantanove curie, nelle quali, per tre ciascheduna, si eran divise le trentatré tribú di Roma, per ritondezza di numero e per leggiadria di favella, si dissero cosí quasi «centumcuriata».

[1278] [628] [CMA4] Lo che tutto era ciò che doveva dar i princípi al Gruchio, il quale scrisse un giusto volume De comitiis romanorum, al Sigonio ed altri autori, c’hanno adornato in questa parte le cose antiche romane.

Capitolo Sesto

[1279] [641] .... Questa stessa eterna inimicizia de’ primi popoli dee spiegarci che i giuochi equestri, ne’ quali i romani rapirono le donzelle sabine, dovetter essere ladronecci fatti da ospiti eroici, che convengono alle castissime sabine donzelle piú che vadano in cittá straniere a vedere i giuochi per gli teatri, [CMA3] le quali non si portavano in quelli delle cittá loro propie [SN2]. Dee spiegarci altresí che ’l lungo tempo ch’i romani avevano guerreggiato con gli albani .... aveva loro renduto il legittimo re Numitore. Ed è piú verisimile di quello che l’Orazia avesse riconosciuto la veste del suo Curiazio ucciso, mentre il fratello la portava con l’altre in trofeo, ch’ella di sua mano avessegliela ricamata; quando Penelope ci assicura che ’l piú nobil lavoro donnesco delle greche

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regine era il tesser la tela. È molto da avvertirsi che si patteggia la legge della vittoria ....

[1280] [644*] Onde l’antichissime leghe delle dodici cittá dell’Ionia, delle dodici cittá di Toscana, delle quarantasette latine sono sogni eruditi; né Servio Tullio, né Tarquinio Superbo, narratici da Dionigi d’Alicarnasso essere stati capitani della latina guerra alliata, sono altrimenti da prendersi che quali Ulisse ed Enea furono capitani de’ loro soci. E la lega delle Gallie sotto Vercingetorige e de’ Germani sotto d’Arminio non furono dettate da altro che dall’aver Cesare e Germanico fatta lor con l’armi un’uguale necessitá di difendersi. Ch’altrimente, non tòcchi, se ne sarebbono stati come fiere dentro le tane de’ loro confini, seguitando a celebrare la vita selvaggia ritirata e solitaria de’ polifemi, ch’abbiam sopra dimostrata.

[1281] [657] .... cosí noi la legge delle XII Tavole .... possiam chiamare «ius naturale gentium romanorum». Perché sel credano da oggi innanzi gli sciocchi che ne’ primi tempi di Roma vi fusse stata costumanza onde le figliuole venissero ab intestato alla successione de’ lor padri, e che la legge delle XII Tavole l’avesse riconosciuta. Perché ’l famoso «ius quiritium romanorum» ne’ suoi primi tempi era propiamente diritto di romani armati in adunanza (come si è detto), di cui o totale o primaria dipendenza era il dominio quiritario: dominio per ragion d’armi, il quale tra gli altri modi si acquistava con le successioni legittime; e, perché le donne non ebbero in niuna nazione il diritto dell’armi, quindi appo tutte restaron escluse dall’adunanze pubbliche, e particolarmente tra’ romani rimasero in perpetua tutela o de’ padri o de’ mariti o d’altri loro congionti.

Capitolo Settimo

[1282] [664*] Non vogliam qui accrescere di piú confusione e lui e tutti gli altri politici e critici romani ed eruditi interpetri della romana ragione, con ricordar loro le riflessioni che dovevan fare sopra il regno romano, per trarne dagli effetti la natura, se fusse stato monarchico o aristocratico; lo che abbiam fatto nella Scienza nuova prima. Solamente gli avvertiamo che non hanno pur un autor romano che loro assista, anzi che non sia loro contrario. Vaglia per tutti Livio, il quale, in narrando l’ordinamento fatto

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da Giunio Bruto .... e, finito il regno annale, eran anco soggetti all’accuse, conforme gli re spartani erano fatti afforcare dagli efori. Se i consoli romani furono due re monarchi come sarebbono stati due dittatori, cosí prima gli re erano stati ciascuno a vita monarchi di Roma.

[1283] [665] Né punto loro soccorre, ma contrasta Tacito, ove dice «libertatem et consulatum Iunius Brutus instituit», [CMA3] essendo egli un verbo comune all’«ordinare» (onde son detti «instituta maiorum», «ordinamenti de’ maggiori») ed all’«incominciare» o «avviare» (onde son dette «institutiones») nelle discipline. Perché Giunio Bruto ordinò il consolato, col quale restituí o sia rimise in piedi la libertá de’ signori dai tiranni, e con l’elezione d’anno in anno de’ consoli incominciò la libertá popolare, poiché la plebe ne volle eletto, del suo corpo, ancor uno, e ne riportò non solo uno ma tutt’i due. Perché lo stesso politico pone in bocca di Galba ch’è in luogo di libertá l’eleggersi l’imperadore, il qual era pur uno ed a vita; molto piú dovette qui intenderlo del consolato, il qual era annale diviso in due: ma dice esser a luogo di libertá, perché, come l’elezione degl’imperadori non mutò la forma monarchica dell’imperio romano, cosí l’elezione de’ consoli non mutò la forma aristocratica della romana repubblica. Che se Tacito avesse inteso Bruto aver ordinato la libertá popolare come ordinò il consolato, con la sua brevitá l’arebbe detto col solo verbo «ordinavit», perocché è frase solenne e quasi consegrata «ordinare rempublicam». Se non pur i romani, gente barbara e rozza, avesser avuto il privilegio da Dio ....

Capitolo Ottavo

[1284] [677] .... egli è ora per civil natura impossibile. [CMA3] Ma i dotti, in questa umanitá, che gli rende di menti scorte e spiegate, con le lor inefficaci riflessioni, le quali non mai fecero un eroe operante, ciò che fu effetto di nature corte e perciò d’ingegni particolari e presenti, ne han fatto un sublime interesse di giustizia inverso tutto il gener umano, la qual Achille sconosce con un suo pari, nel tempo stesso che corre con quello una stessa fortuna; ne han fatto quell’amor di gloria, ch’Achille non sente per tutta la sua greca nazione pericolante; ne han fatto quel disiderio d’immortalitá, ch’Achille nell’inferno contracambierebbe con la vita d’un vilissimo schiavo.

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[1285] [SN2] Queste ragionate cose si compongano sulle degnitá dalla lxxxv [lxxxix] incominciando sino alla xc [xcv], sulle quali, come in lor base, si sono ferme. E quivi si combinino le cagioni dell’eroismo romano con l’ateniese, che, finché Atene, come ne udimmo Tucidide, fu governata dagli areopagiti, cioè fu di forma o almen di governo aristocratica (il qual tempo durò fin a Pericle ed Aristide, che furon il Sestio e ’l Canuleo ateniesi, ch’aprirono la porta degli onori a’ plebei), fece ella delle imprese sublimi e magnanime. Si combinino con lo spartano, il quale fu certamente di Stato aristocratico, e quanti nobili diede tanti eroi alla Grecia, che con merito si davan a conoscere essere discendenti di Ercole. E si vedrá ad evidenza pruovato che l’umana virtú non può umanamente sollevarsi che dalla provvedenza con gli ordini civili ch’ella ha posto alle cose umane, come ne abbiamo dato una degnitá. La quale ora stendiamo ancor alle scienze, le quali non si sono intese né accresciute che alle pubbliche necessitá delle nazioni: come la religione produsse l’astronomia a’ caldei; le innondazioni del Nilo, che disturbava i confini de’ campi agli egizi, produsse loro la geometria, e quindi la maravigliosa architettura urbana delle loro piramidi; la negoziazion marittima produsse a’ fenici l’aritmetica e la nautica; siccome oggi l’Olanda, per esser soggetta al flusso e riflusso del mare, ha tra’ suoi produtto la scienza della fortificazione nell’acque. Onde si veda se senza religione, che ne avesse fondate le repubbliche, gli uomini arebbono potuto avere verun’idea di scienza o di virtú!

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SEZIONE SESTA

Capitolo Unico

[1286] [679] .... E Desiderio Erasmo con mille inezie, [CMA3] tralle quali son queste: ch’i denti son il numero delle lettere, e che gli uomini armati son i letterati, i quali nelle loro literarie contese combattono a morte tra loro e finalmente s’uccidono. La qual interpetrazione poteva egli afforzare con quella frase latina con cui si dice «exarare literas», e che lo stile «arava» sulle tavole incerate le lettere; e con quell’altra greca con cui dicono βουσροφηδόν γράφειν scrivere voltando lo stile a guisa de’ buoi quando arano la terra. Si veda quanto può la superstizione di un falso dogma ricevuto senza esame per vero, che fa dire tali ciancie ad un uomo il quale per la grande erudizione fu detto il Varrone cristiano ....

[1287] [686*] [CMA3] Il padre Monfocone, il quale noi vedemmo dopo aver dato alle stampe le nostre Lezioni omeriche, dove tratta dell’armi degli antichi, e spezialmente degli scudi, rapporta d’un letterato francese l’interpetrazione dello scudo d’Achille, e l’adorna con molta lode d’erudizione e d’ingegno. Prieghiamo il leggitore che vada ad osservarlo.

iv

[1288] [CMA3] Però conservarono tutta questa storia divina ed eroica le nazioni nel geroglifico della verga divina con in punta un’aquila, come vedemmo averla conservata gli egizi, i toscani e romani e ’n fin ad oggi gl’inghilesi: che dapprima fu il lituo degli áuguri nel tempo de’ governi divini; dappoi lo scettro de’ sacerdoti, che dappertutte le nazioni usaron corona e scettro; finalmente l’aste de’ capitani, ne’ tempi che, dopo le cittá, vennero le guerre. E tal verga o bacchetta, attaccatale la divinitá, fu ella dalle nazioni tenuta per dio, come Giustino ce n’accerta, e i romani eserciti ne venerarono l’aquile in cima all’aste per numi delle loro legioni.

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SEZIONE SETTIMA


Capitolo Primo

[1289] [689] .... que’ che ne’ corpi sembran esser conati, sono moti insensibili, come si è detto sopra nel Metodo. Imperciocché Renato Delle Carte, che comincia la sua Fisica dal conato de’ corpi, egli veramente l’incomincia da poeta, ché dá a’ corpi, che son agenti necessari in natura, ciò ch’è della mente libera: di contener il moto per o quetarlo o dargli altra direzione. Da tal conato uscí la luce civile ....

[1290] [691*] Ci giovi però da tutto il ragionato raccogliere ch’è senso comune del gener umano, ch’ove non intendono gli uomini le cagioni delle cose, dicono cosí aver ordinato Iddio. Dalla qual metafisica volgare, di cui proponemmo una degnitá, cominciò la sapienza volgare de’ poeti teologi, e nella quale termina la sapienza riposta de’ migliori filosofi, e ’n conseguenza nella quale s’accorda tutta la sapienza criata di ragionar la fisica per princípi di metafisica che o vi scendino a dirittura, come fecero Platone prima e poi Aristotile, o vi dechinino per le mattematiche, come Pittagora fece co’ numeri e Zenone co’ punti, [CMA3] come sta da noi dimostrato nel primo libro De antiquissima italorum sapientia.

[1291] Ma, perché la meditazione de’ princípi fisici, i quali sono materia e forma, innalza la mente alla contemplazione dell’autore [della natura] dalle locuzioni latine, come di una lingua piú eroica di quello che ci pervenne la greca volgare, per una degnitá sopra posta, della quale dappertutto qui facciam uso, avremo piú certi vestigi di ciò che n’oppinarono i poeti teologi. I latini dissero «numen» la divina volontá da «nuere», «cennare», ond’è «nutus» «cenno», che dovette certamente cosí appellarsi da Giove, appreso ne’ tempi mutoli, che parlasse co’ cenni de’ fulmini e de’ voli dell’aquile; e sí credettero l’autore della natura essere provvedente. Con tal teologia convengono le voci «casus», «fortuna», «fatum». Perché «casus» è, latinamente, l’uscita che fanno le cose, onde «casus» poi si dissero l’uscite o terminazioni che fanno le parole: talché

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le cose nel loro incominciare e progredire devono esser condotte da essa provvedenza. «Fortuna» è detta da «fortus», che agli antichi significò «buono», onde dovettero stimare «buona» anco l’avversa fortuna, e per ciò: che anco nell’avversa la provvedenza voglia il bene degli uomini, e quindi gli uomini anco nell’avversa debbano benedire gli dèi; onde poi, per distinguerla dalla rea, la buona fortuna dissero «fors fortuna». «Fatum» è da «far faris», che significa «parlar certo e innalterabile», com’era il parlare delle formole romane; onde i giorni ne’ quali il pretore rendeva ragione, la qual concepiva con sí fatte formole, si dissero «dies fasti». Appunto come la formola della condennagione d’Orazio narra Livio che doveva lo re eseguire anco se il reo si fusse ritruovato innocente; nella stessa guisa che Giove dice a Teti, appo Omero, che esso non può far nulla contro a ciò ch’una volta avevano gli dèi determinato nel Consiglio celeste (forse anco da Grecia si portò a Roma cotal ordine di giudizi?), onde gli stoici vogliono Giove soggetto al fato. Ma i latini ed essi greci, quando intendevano Iddio che regge e governa tutto, dissero «gli dèi»: talché questo è ’l «fas deorum», dal quale cominciò il «fas gentium», le quali dapprima, come appieno dimostriamo in questi libri, osservavano scrupolosamente le formole delle leggi e de’ patti. Perché era stata pur volontá di Giove di convocare il Consiglio celeste, ed era stata pur volontá degli dèi di cosí (come potevano altramenti?) decretare. Ond’Omero intese il Fato essere la determinata volontá degli dèi, la quale, perocché sia col decreto determinata, non cessa pertanto d’essere volontá.

[1292] Dalle quali ed altre interminabili origini della lingua latina abbiamo in quest’opera tratto l’antichissima sapienza, non giá riposta dell’Italia, ma volgare di tutto il mondo delle nazioni; perché, essendoci accorti quella metafisica, la quale ne faceva il primo libro, esser una spezie di quella che noi qui chiamiamo «boria de’ dotti», alzammo la mente di meditare la fisica e la morale, ed applicammo a meditare ne’ Princípi del Diritto universale, che è stato un abbozzo di questa Scienza.

Capitolo Secondo

[1293] [693] L’uomo, per quanto è da’ fisici contemplato, egli è un ammasso di corpo e d’anima ragionevole; dalle quali due parti

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cospira in lui un principio indivisibile d’essere, sussistere, muoversi, sentire, ricordarsi, immaginare, intendere, volere, maravigliarsi, dubitare, conoscere, giudicare, discorrere e favellare. Certamente gli eroi latini sentirono l’essere .... purissimo, che da niun esser è circoscritto, [CMA4] Quinci venne a’ latini la voce «ens» per significar astrattivamente «cosa che è»: venne sí tardi che si ha per scolastica, non per volgare latina; e lo stesso truoverassi de’ greci nel medesimo senso la voce ὤν. E quindi si tragge un grave argomento per la veritá della cristiana religione, ch’ella ha altri princípi incomparabilmente piú sublimi di quelli delle gentilesche: che questa voce, la qual venne sí tardi tra gli piú dotti gentili e non si usò che da’ filosofi, ella è antichissima volgare agli ebrei, per quel luogo di Mosè, il quale nel Sina domanda a Dio chi deve dir al popolo di averlo con la Legge mandato, e Iddio gli risponde «Qui est misit te»; e, domandandogli Mosè di nuovo chi esso si fusse, egli si descrive: «Sum qui sum» [CMA3*] (nel qual luogo Dionigi Longino ammira tutta la sublimitá dell’espressione, convenevole alla somma altezza del subietto), [CMA4] appunto come Platone, quando assolutamente dice ὤν, intende Iddio. [CMA3*] Lo che qui detto si può aggiugnere a ciò che se n’è sopra ragionato nella Metafisica poetica. [SN2] Sentirono la sostanza ne’ talloni, perocché sulle piante de’ piedi l’uomo sussiste: onde Achille portava i suoi fati sotto il tallone, com’a’ tempi barbari ricorsi i paladini portavano i talloni fatati, perché ivi stasse il lor fato, o sia la sorte del vivere e del morire.

[1294] [694] .... come restò a’ latini «succiplenum» per «corpo carnuto insuppato di buon sangue», dal quale viene il vero buon colore, che fa il compimento della bellezza: onde, se non si è sano, non si può esser di vero bello.

[1295] [695] .... E i poeti teologi, con giusto senso ancora, mettevano il corso della vita nel corso del sangue, perch’i fisici vogliono l’aria bisognar a’ pulmoni per rinfrescar le fiamme del cuore, ch’è l’ufficina del sangue, e col suo moto il ripartisce per le arterie nelle vene, onde se n’irrighi tutto il corpo animato.

[1296] [696] .... ch’è l’«igneus vigor» che testé ci ha detto Virgilio. [CMA3] Il quale, siccome colui ch’era stoico di setta, sembra aver voluto dire poeticamente ciò che que’ filosofi dicevano «senso etereo», ch’i peripatetici appellarono «intelletto agente». i platonici chiamarono «genio», [SN2] e i poeti teologi il sentivano e non intendevano .... Il qual principio poi da’ latini fu detto

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«mens animi» (onde nacque quella volgar teologia che gli uomini avessero quella mente che Giove avesse lor dato); e sí, rozzamente, intesero quell’altissima veritá metafisica: Dio essere il primo principio della vita spirituale dell’uomo o sia del movimento degli animi, il quale non venga da impressione di corpo.

[1297] [697] Intesero la generazione con una guisa che non sappiamo se piú propia n’abbiano potuto appresso ritruovar i dotti per ispiegare la sostanzialitá delle forme in metafisica, e ’nsiememente in fisica l’organizzazione di essi corpi formati. Tanto vale un giusto senso sopra ogni affilata riflessione. [CMA3*] La guisa tutta si contiene in questa voce «concipere» .... Tanto vale un giusto senso sopra ogni affilata riflessione (ch’ora si dee supplire con la platonica circumpulsione dell’aria, ch’essi poeti teologi non poterono intendere) di prendere d’ogn’intorno i corpi loro vicini ....

[1298] [699] .... E come naturalmente prima è ’l ritruovare, poi il giudicar delle cose [CMA4] (lo che appieno si è da noi ragionato in una replica ai signori giornalisti d’Italia d’intorno al primo libro De antiquissima italorum sapientia), cosí conveniva alla fanciullezza del mondo ....

[1299] [701] .... cioè l’irascibile nello stomaco, onde i greci dicevano lo «stomaco» per l’«ira», perocché, spremendovisi i vasi biliari, che vi son nati per la concozione de’ cibi, e diffondendovisi la contenuta bile per lo ventricolo, questi faccia la collera; e posero la concupiscibile, piú di tutt’altro, nel fegato ....

[1300] [702] .... quantunque spesso falsi nella materia. [CMA4] Ed essa voce «sentenza» ci conferma ch’i pareri uscivano dettati dal cuore: ond’è quella formola latina «ex animi tui sententia».

Capitolo Quarto

[1301] [705] [CMA3] Ma ora, perché le menti delle nazioni si son assottigliate col saper volgarmente di lettere, impicciolite col sapere di conto e ragione, e finalmente fatte astrattive con tanti vocaboli astratti, de’ quali oggi abbondano le lingue volgari, per le quali cagioni tutte oggi si pensa con animi riposati; e perché nel capo sono gli organi di due sensi, de’ quali [uno] è ’l piú disciplinabile, come il diffinisce Aristotile, ch’è l’udito, l’altro il piú acre, qual è quello della vista: perciò immaginiamo che l’anima nostra pensi nel capo. Talché, se questi due organi de’ sensi fusserci

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dalla natura stati posti ne’ talloni, diremmo certamente che noi pensiamo ne’ piedi. Perché la posizione della glandola pineale, posta in cima del celabro, ove l’animo tenga il suo seggio, se non fusse di Renato Delle Carte, direi ch’è d’uomo che non s’intende affatto di metafisica. Però non altronde egli si può intendere con maggior maraviglia quanto i primi uomini, perché erano nulla o pochissima reflessione, essi valsero col vigore de’ sensi sopra ogni piú affinata riflessione; non altronde diciamo che con maggior maraviglia si possa intendere che da’ nomi ch’i latini diedero ad essi sensi e meglio che i greci gli conservarono. Che insiememente saranno due grandi ripruove: una dell’oppenion di Platone, che si parlò una volta una lingua naturale nel mondo; l’altra del vero che ha sostenuto per tanti secoli la volgar tradizione, che gli autori delle lingue fussero stati sappienti, però d’una sapienza de’ sensi.

[1302] [706] [CMA3] De’ quali dissero «auditus», quasi «hauritus», quel dell’udito ed «aures» l’orecchie da «haurire», perocché l’udito si faccia da ciò, che gli orecchi tirano l’aria ch’è da altri corpi percossa, onde s’ingenera il suono. Dissero «cernere oculis» lo scernere o veder distinto, ch’è per latina eleganza diverso da «videre», ch’è un vedere confuso, perché dovettero sentire gli occhi essere come un vaglio .... Ond’è la ragione che la fiera che fugge, finch’è veduta dal padrone, non ricupera la natural libertá. L’odorare dissero «olfacere» ch’è propiamente far odore; e ’l dar odore, al contrario, dissero «olere»: che forse indi presero da sé, estimando l’api, ch’immaginavano con l’odorare facessero il mèle (perocché non potevan intendere che ne succiassero i sughi), cosí essi coll’odorare facessero gli odori. Lo che poi, con gravi osservazioni .... perché assaggiassero nelle cose il sapor propio delle cose; onde poi con sappiente trasporto stesero all’animo e ne dissero la «sapienza», ch’allor l’uomo sappia ovvero dia sapor di uomo, quando pensa, parla, opera le cose con propietá.

[1303] Talché è necessario che conoscessero per sensi quella gran fisica veritá, ch’or appena s’intende da’ migliori filosofi: che l’uomo faccia i colori, suoni, odori, sapori e tutt’altre sensibili qualitá con essi sensi del corpo; faccia le reminiscenze con la memoria, le immagini con la fantasia (perocché l’ingegno certamente non si esercita se non truova o fa nuove cose); e che molto meglio che i greci, i quali richiamavano al genere il qual dissero δύναμις/ (la qual con piú voci i latini voltarono «vis et potestas», onde

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gl’italiani chiamano «potenze dell’anima» che usano le scuole), molto meglio, diciamo, i latini avevano per significarlo una sola voce natia, «facultas», dagli antichi detta «faculitas», e poi ingentilita e chiamata «facilitas», senza la quale facilitá di fare non si dice esser acquistata una facultá. Che doveva esser il principio della sua Logica ovvero Metafisica dell’inghilese barone Erberto, con la quale vuol provare che ad ogni nuova sensazione si desti nell’anima una nuova facultá; ch’è appunto quello che ne sembrava esser una goffa semplicitá de’ primi uomini, ch’ad ogni nuova aria di volto credevano vedere una nuova faccia, ad ogni nuova passione o pensiero credevano aver altro cuore (che truovammo esser il vero della favola di Proteo): e ’n conseguenza il parlar vero di quelle frasi poetiche «ora», «animi», «pectora», «vultus», usati per lo numero del meno da essi poeti, che oggi sembrerebbono fatte per ispiegare nell’accademie quella gran fisica veritá, che s’intese poi dagli piú avveduti filosofi: ch’in ogni momento appresso, tutte le cose in natura sono altre da quelle che sono state nel momento innanzi.

[1304] [707] [CMA3] E deve essere stato cosí dalla divina provvedenza ordinato ch’avendo ella dato agli animali i sensi per la custodia de’ lor individui, in tempo ch’erano gli uomini caduti in uno stato bestiale, da essa stessa bestialitá avessero sensi scortissimi e, come gli animali bruti, sentissero anco le virtú dell’erbe che sanassero i loro malori. Siccome viaggiatori raccontano d’una generazion d’uomini in sommo grado selvaggi dell’Affrica, che sanno a maraviglia le virtú dell’erbe. I quali sensi scortissimi, venendo l’etá del senno con cui gli uomini potessero consigliarsi, si disperderono. Che tutto è pruova di ciò che ne’ Princípi dicemmo: che ora appena intender si può, affatto immaginar non si può, come pensassero i primi autori del gener umano gentilesco.

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SEZIONE NONA


Capitolo Secondo

[1305] [730] .... che corre il piú lungo anno di tutti gli altri pianeti; che misura l’etá degli uomini, perocché non poté tosto intender l’astronomia l’anno che misura la vita del mondo, detto «anno massimo» da Platone, che camina col moto delle stelle fisse. Talché l’ali troppo mal convengono a Saturno.

[1306] [731] .... Tanto essi dipendono da naturali cagioni! Tali dovrebbon essere stati i princípi dell’astronomia, piú ragionevoli che non quelli che ce ne cantarono ed Arato ed Igino.

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SEZIONE DECIMA

Capitolo Primo

[1307] [733*] Ed ecco il perché la storia universale cotanto manca ne’ suoi princípi. Perché le manca questa cronologia ragionata; imperciocché tralle nazioni dovettero almeno passar mille anni per incominciarvi la voce dell’anno astronomico. Ond’è quel gran divario de’ tempi che ’l calcolo d’Eusebio errò di mille e cinquecento anni; nel qual errore si perdé il generoso sforzo di Piero cardinal di Alliac, arcivescovo di Parigi, nella sua Concordia dell’astrologia con la teologia, di truovare la certezza de’ tempi dentro le congiunzioni de’ pianeti maggiori; benché tal’incontri celesti, quantunque portassero, co’ lor influssi, straordinari effetti sopra il mondo degli uomini, v’arebbe bisognato almeno un milion d’anni innanzi, e sí d’avervi precorsi almeno trent’anni massimi di Platone, per averne, con la costanza dell’osservazione, la certa scienza che tali e non altri effetti significassero.

Capitolo Secondo bis
Supplimento della storia antidiluviana

[1308] Né qui si ferma la nostra critica. Ché col meditar il precorso delle stesse cagioni, ch’avevan dovuto produrre gli stessi effetti nella razza sperduta di Caino, innanzi, quali produssero, dopo il diluvio, nelle razze sperdute di Cam e Giafet subito, e tratto tratto in quella di Sem; per le quali cagioni tale si era desolata, innanzi, la religione di Seto nel solo Noè, quale si desolò, dopo, la religione di Semo nel solo Abramo: dovette il mondo crescere a tal cumolo di vizi, qual fu l’assiro a’ tempi di Sardanapalo, che meritava la collera di Dio di mandar altro diluvio; e ’l doveva pur mandare a’ tempi d’Abramo, quale l’aveva mandato a’ tempi di Noè, se Iddio non si fusse compiacciuto con Abramo d’entrar in una nuova allianza e nella di lui razza conservare la sua vera religione. E ’n cotal guisa si supplisce con l’intendimento il gran vuoto di mille e seicento anni, che la storia santa tace delle cose profane avanti il diluvio.

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SEZIONE UNDECIMA


Capitolo Primo

[1309] [744] Dalla Tracia natia .... dovette venir Orfeo, un de’ primi poeti teologi greci. [CMA3] Altrimenti, s’egli è Orfeo della Sitonia, posta nello piú addentrato seno di Ponto, un tanto eroe, che fu fondatore della greca umanitá, vien ad essere uno scellerato traditore della sua patria, il quale scorgette i greci argonauti a farvi la ruba del vello d’oro. Ma il primo Ponto dovett’essere il picciolo stretto di mare dello Bosforo tracio, che poi distese il nome a tutto quel mare.

[1310] [750] .... che se fusse stato il monte Atlante nell’Affrica, era troppo difficile a credersi [CMA3] che, per banchettare, Giove e gli altri dèi avesser avuto a fare un viaggio, che gli piú disperati mercadanti, per l’audace ingordigia di strarricchire, [appena] arebbono fatto, quando esso Omero, estimando quella degli dèi dalla natura degli uomini, dice che Mercurio, con tutte l’ascelle, difficilissimamente pervenne nell’isola di Calipso ....

[1311] [753*] [CMA*] E qui aggiugniamo che per questi stessi princípi di geografia si dimostra:

[1312] I. — Che Zoroaste caldeo fu battriano, da Battro dapprima posto nel mezzo d’essa Asia verso settentrione.

[1313] II. — Che com’Ercole in Esperia, Perseo in Mauritania, Bacco nell’India, tutte poste dentro essa Grecia; cosí Tanai scita l’Egitto, e Sesostride egiziano avesse soggiogato la Scizia dentro essa Asia, dove fu il regno dell’Assiria; i quali due Giustino (o Trogo Pompeo, di cui è abbreviatore Giustino) propone per antiprincípi della storia universale, che ci facevan vedere il mondo assai piú antico di quel ch’è. I quali femmo vedere essere due mostri di geografia, sopra, nelle Note alla Tavola cronologica, a proposito di Zoroaste caldeo, narratoci battriano.

[1314] III. — Che Erodoto, con quell’ignoranza dell’antichitá sue propie la quale gli oppone Tucidide, con cui aveva detto che in Affrica i mori un tempo erano stati bianchi (i quali mori bianchi erano dentro la sua medesima Grecia), con quella stessa ed anco, come dovette, maggiore delle cose straniere, osserva per l’Asia

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minore memorie di Sesostride egizio, che l’egizio sacerdote chiama Rampse appo Tacito, e, vaneggiando, dice a Germanico che quel loro re aveva signoreggiato fin [CMA4] nell’Asia minore, nella Libia e nella Bitinia.

[1315] [CMA3*] IV. — E nella stessa guisa si vince ed atterra quell’altro mostro d’istoria: che Cambise aveva portato la guerra, nella quale morí, a Tearco re d’Etiopia, finor intesa per lo regno degli abissini, posto nel cuore dell’Affrica: ch’arebbe dovuto marciare con un grande esercito o per entro l’Egitto, chiuso naturalmente a tutt’altre nazioni, che per qualunque forza straniera non può perrompersi, e indi per gl’insuperabili monti della Luna calare nell’Etiopia, o per l’arene del regno di Barca, per le quali non vanno le picciole caravane se non provvedute di acqua e con la bussola, e a certi tempi che non vi soffiano venti, da’ quali restin anniegati in quel mare d’arene.

[1316] [754] [CMA3] Tali princípi di geografia assolutamente possono giustificare Omero di gravissimi errori o sfacciate menzogne che gli s’imputano in sí fatta scienza, siccome noi con questi princípi, non cosí come in questi libri si sono stabiliti, nel difendiamo nelle Note a’ Princípi del Diritto universale. Donde perché que’ libri non facciano piú di bisogno, rapportiamo, e piú afforzato, quel luogo qui.

[1317] [755] .... doveva in otto giorni far un viaggio [CMA3] di ventiduemilacinquecento e piú miglia; il qual errore gli è notato da Eratostene. Or qui aggiugniamo ch’i lotofagi furon anco della Caldea, perché Giobbe piange il felice stato onde cadde, ch’esso mangiava pane di frumento e li suoi servi si nutrivano di cortecce d’alberi.

[1318] [757*] [CMA3] IV. — Che l’oracolo dodoneo è posto da Omero tra i tesproti: dappoi i greci, per la somiglianza del culto, l’avessero osservato e detto in Egitto.

[1319] [759] .... non distese piú che venti miglia, come sopra abbiam detto, l’imperio, e pur l’acquisto di Corioli diede a Marcio il titolo di Coriolano, com’a conquistatore d’una provincia. L’Italia fu certamente circoscritta .... poi con le vittorie romane, si è disteso da Nizza di Savoia fino allo stretto di Messina, quale Livio il descrive.

[1320] [761] .... come greci (quelli di Menelao, di Diomede, d’Ulisse). E sopra queste novelle sparse per lo mondo da’ greci si dovrebbono con piú veritá descrivere le carte geografiche de’ viaggi

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d’Ulisse e d’Enea. Osservaron essi per lo mondo sparso .... gli Ercoli dell’altre nazioni aver preso il nome dal lor Ercole egizio, per quel comun errore, che suol essere padre della boria, come madre n’è l’ignoranza, onde credevan essere la nazione piú antica ....

Capitolo Secondo

[1321] [771] .... le favole debbon aver avuto alcun pubblico motivo di veritá, nella cui ricerca macera tanto di scelta erudizione Samuello Bocharto, De adventu Aeneae in Italiam, per farla istoria. Perché egli è Evandro sí potente .... fu egli il primo che menò una colonia nel mar vicino? E se tali frigi non sono i compagni d’Enea, tal difficultá s’avvanza vieppiú, quanto sono trecento anni piú antichi degli Ermodori che vengono da Efeso, cittá pur d’Asia, a far l’esiglio in Roma, per dar le notizie delle leggi ateniesi a’ romani, onde portino la legge delle XII Tavole da Atene in Roma; e vi viene da un cento anni dopo che nemmeno il nome di Pittagora .... non sapevano chi fusser i romani, giá potenti in Italia? Oh critica sopra gli scrittori troppo scioperata, che da tali princípi incomincia a giudicar il vero delle cose romane!

[1322] [772] .... e i vinti ricevuti in qualitá di soci eroici, dispersi per le campagne di quel distretto, obbligati a coltivare i campi per gli eroi romani; e ch’avessero avuto ben i romani l’idee di vagabondi, cosí mediterranei come marittimi, d’uomini senza terreni, e non avessero le voci da spiegare cotali cose straniere; ma che cosí l’ebbero da’ greci, che dovettero i vagabondi mediterranei chiamare «arcadi» uomini selvaggi, e i marittimi chiamare «frigi» per uomini usciti da cittá bruciate, stranieri venuti da mare e che non avevano terre. E cosí a capo di tempo che tali tradizioni per mano di gente barbara ....

[1323] [772*] Ma pur resta uno scrupolo sull’oppenione volgare de’ dotti, che i troiani non furon greci, ond’han creduto la frigia essere stata una lingua da quella de’ greci diversa. Certamente Omero non ha dato loro l’occasione di tal comun errore, perché egli chiami i greci d’Europa «achivi», e «frigi» quelli dell’Asia; e senza dubbio Troia per un picciolo stretto di mare era divisa dal continente d’Europa, come l’Ionia, dove fu Troia, senza contrasto tutta fu greca. Ma Aceste fu eroe troiano e fonda la lingua greca

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in Sicilia, ed è di tanta antichitá che Enea il ritruova avervi fondato un potente regno; talché dovette menarvi una colonia eroica greca di Frigia molto tempo innanzi della guerra troiana.

Capitolo Terzo

[1324] [775] .... dovettero chiamare «aras» (perché Virgilio osserva ch’a’ suoi tempi gl’italiani dicevano «aras» gli scogli che sovrastan al mare) e appellar anco «arces» tai luoghi forti di sito .... «sulcus designandi oppidi captus [CMA3] (cioè fu il campo arato dove poi surse la cittá), ut magnam Herculis aram amplecteretur, ara Herculis erat» (talché dice apertamente che cotal ara fu tanto ampia quanto lo fu poi la cittá di Roma nella prima sua pianta). Di sí fatte are è sparsa la prima geografia ....

[1325] [778] .... Cotal voce .... per immensi tratti di luoghi e tempi e costumi tra lor divise e lontane diede forse l’origine all’«araldo» degl’italiani, che con la sua santitá arretra ogni forza nimica, e donde venne «aratrum» a’ latini, la cui curvatura si disse «urbs» ....

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CONCLUSIONE

[1326] [779] .... gliel’hanno piú tosto niegata [CMA3] e di quell’altra, della quale pure ne pervenne la volgar tradizione, di cui Cicerone ed altri hanno scritto che la sapienza degli antichi faceva i suoi saggi, con uno spirito, e filosofi e legislatori e capitani ed istorici. Appunto quali per tutto questo libro abbiamo ritruovato gli autori delle nazioni, dalla lor stessa sapienza poetica addottrinati, avere gittato le prime fondamenta di tutto l’umano e divin sapere, avere co’ loro stessi costumi dato le leggi a’ popoli, essere stati capitani e guide del gener umano, e finalmente aversi essi stessi descritta la lor istoria nelle lor favole. Dentro le quali, come in embrioni o matrici, si è discoverto .... i princípi di questo mondo di scienze.

[1327] [CMA3] E qui sono da compatire tutti i dotti di tutti i tempi che, osservando di piú arricchito questo mondo di nazioni di tutti i beni che ’l facessero contento del necessario, utile, comodo, piacere ed anco lusso umano, innanzi di provvenir in Grecia i filosofi, hanno, per quest’altra potente ragion ancora, cotanto lodata, ammirata e ricercata la sapienza degli antichi; ma con quanta vanitá, il facemmo apertamente vedere nella Logica poetica, ché tutte l’invenzioni massime, le quali hanci o ritruovato nuove scienze o migliorato l’antiche, tutte provvennero in tempi barbari o da idioti. Quindi si è dimostrato [SN2] con quanto nulla o poco di veritá si è ragionato de’ princípi del divino ed umano sapere in tutte le parti che ’l compiono, e con quanta scienza si sien arrecati luoghi di poeti, di filosofi, di storici, di gramatici, che sembrano essere stati luoghi comuni da pruovare in entrambe le parti opposte i problemi in tutte le scienze; talché sono state finor materia senz’impronto certo di propia forma. [CMA3] La quale, in osservandola, ci ammonisce doversi per tutto ciò benedire la provvedenza eterna, ammirare la sapienza infinita ed unirci alla somma bontá di Dio, come promettemmo di far vedere nel principio di questo libro.

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LIBRO TERZO


SEZIONE PRIMA
Capitolo Primo

[1328] [786] .... esso e coloro, appo i quali ragiona, prorompono in [CMA3] dirottissimo pianto. Ond’è vero il precetto di rettorica che dá Dionigi Longino, il quale dalle materie dello stil sublime esclude il lamento, ch’è consegnato all’elegia, i cui versi Orazio chiama «exiguos», perché sono versi rotti (particolarmente nel pentametro, il qual deve avere due posamenti necessari), e deve dentro il picciol corso d’un distico terminare; e perciò anche buona per l’allegrezza, perché cosí questa come il lamento ella è passione di cuor picciolo. Ma è falsa la ragione che, perché sia passione di cuor basso, ella perciò non sia eroica; perché gli eroi d’Omero, se non si lamentano, dánno in maggior bassezza, ché piangono, e piangono dirottamente, come fanno le vilissime donnicciuole. Di che è la ragion morale: perché il lamento è una passione ragionata; ma le passioni eroiche, come di fanciulli, erano tutte senso e nulla o assai poco avevano mescolato della ragione. Talché essa ira, che Platone pone nella parte ragionevole dell’uomo, ella da Omero è raccontata irragionevolissima nella persona d’Achille, ch’è ’l piú grande de’ greci eroi, tanto ch’è ’l subbietto di quel poema. Altri, tornando al proposito, da sommo dolor afflitti ....

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Capitolo Secondo

[1329] [789] .... Eubea non era tanto lontana da Troia, ch’era posta sul lido orientale del Bosforo tracio, onde la chiamarono «terra de’ ciechi», perché fu fondata in luogo men felice, quando nel lido opposto vicino era amenissimo, ov’ora è posta Costantinopoli. Di piú, perché, a’ tempi di Omero, ivi i greci si chiamarono «achivi», che diedero il nome all’Acaia, il qual nome, poi sparso per tutta, vi fece appresso convenire a quella guerra in lega tutta la Grecia, come sopra si è ragionato.

[1330] [791*] Il simile appunto egli è avvenuto di Dante, che, con errore nel quale noi pur eravamo caduti, si è creduto finora d’aver esso raccolto da tutti i popoli dell’Italia i favellari per la sua Commedia; ma a Dante non arebbono bastato ben tante vite, per aver pronta ad ogni uopo la copia de’ favellari co’ quali compose la sua Commedia. Il vero egli è ch’a capo di trecento anni, essendosi dati i fiorentini a ragionare della lor lingua, ed osservando in Dante tanti favellari, de’ quali, come non ritruovavano autori in Firenze, cosí gli osservavano sparsi per altri popoli dell’Italia (conforme nella nostra plebe napoletana, piú nel nostro contado, ed assaissimo per le nostre provincie, ne vivon moltissimi), caddero in sí fatto errore, non avvisando che, quando Dante gli usò, dovevan esser anco celebrati in Firenze, perché pur dovette Dante usare una lingua intesa da tutto il comune d’Italia.

Capitolo Terzo

[1331] [801] .... che sono la delizia delle cene, ed onde furono cotanto lodate, quanto Ateneo ne parla, quelle degli antichi.

Capitolo Quinto

[1332] [816] .... un bel luogo d’Aristotile ne’ Morali, ove riflette che gli uomini di corte idee d’ogni particolare fan massime: ch’è un grave giudizio della picciola comprensione di quell’ingegni che d’ogni particolar cosa fanno sistemi. Al qual detto d’Aristotile soggiogniamo noi la ragione: perché l’ampiezza della mente umana, la qual è indiffinita ....

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[1333] [817] .... né appo i greci né appo i latini giammai si finse di getto un personaggio [CMA4] tragico, come ultimamente cominciò a fare Torquato Tasso con la tragedia del Turismondo. E ’l gusto del volgo gravemente lo ci conferma ....

[1334] [835] Adunque tutte l’anzidette cose furono propietá .... comuni a’ particolari uomini di tali popoli. Però la sapienza riposta è propia di particolari uomini, né può esser comune a popoli intieri.

Capitolo Sesto

[1335] [853] Ch’i Pisistratidi, tiranni d’Atene, con arte propia di stabilirvisi, ch’è d’ammansire le nazioni feroci con gli studi dell’umanitá, come l’avverte Tacito nella Vita d’Agricola, che gl’introduce nell’Inghilterra, con quel motto: «et humanitas vocabatur, quae pars servitutis erat», eglino disposero e divisero o fecero disponere e dividere i poemi d’Omero ....

[1336] [856] .... «vilem patulumque orbem», che tutti i commentatori han disperato d’intendere, come dopo tutti ingenuamente il confessa la valorosa donna Dacier, la quale non rimane punto soddisfatta ....

[1337] [857] .... il qual si deve allogar a’ tempi d’Erodoto. E pur crediamo di farli piacere, perché piú importa ad una nazione scriversi le sue storie che libri di medicina; siccome i romani assai tardi ricevettero i medici, e luminose nazioni tuttavia, come la turca, vivono senza professori di cotal arte.

[1338] [862] Quasi tutti i popoli della Grecia il vollero lor cittadino; anzi non mancarono di coloro che ’l volessero greco d’Italia.

240 ―

SEZIONE SECONDA


Capitolo Secondo

[1339] [904*] Or, se in tutto questo libro, trallo spiegandosi e le ragioni che ci diede la filosofia in forza della nostra nuova arte critica, e le autoritá che la filologia ci somministrò, il leggitore prescindesse col pensiero che cosí le ragioni come l’autoritá s’indirizzano alla discoverta del vero Omero; certamente esso non sentirebbe affatto motivo alcuno di non dovervi ben convenire. Lo che se egli, riflettendovi, avvertirá, ne risultano queste tre gravissime conseguenze. La prima, che le ragioni ed autoritá sono state da esso ricevute con mente pura e scevera d’ogni passion d’amor propio. La seconda, che ’l risentirsi della discoverta del vero Omero egli è un richiamo che gliene faccia fare la memoria, la qual altro sel ricordava, e la fantasia, la qual altro avevalosi immaginato. La terza, che né le ragioni de’ filosofi, che ne hanno tante cose altrimenti discorso, né le autoritá de’ filologi, che ne hanno tante cose volgarmente rapportate, gli abbiano punto valuto per l’Omero qual esso si ricordava ed avevasi immaginato; e, ’n conseguenza, gli è di bisogno di questa Scienza per la discoverta del vero Omero. Per la quale l’aspre tempeste delle tante difficultá fatte in ragion poetica contro lui sonosi tranquillate; le gravi accuse fattegli da’ critici si sono dileguate; le rare, somme ed immortali lodi, che sembravano innanzi punto non appartenergli, si sono vendicate; e perfino e le cagioni del vero delle tante e sí costanti tradizioni che sonci di lui pervenute e le occasioni onde ci vennero sí bruttamente ricoverte di falso, si sono tra loro amichevolmente conciliate e composte.

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APPENDICE

[1340] [914*] [CMA3] Ed ecco la storia de’ poeti fatta ragionevole in tutte e tre le spezie maggiori che l’assorbiscono:

1. de’ poeti eroici, divisi in due spezie, la prima di teologi, la seconda d’epici, che propiamente si chiamano «eroici»;

2. de’ poeti dramatici, pur in due spezie divisi, tragici e comici, ed entrambi altri antichi, altri nuovi;

3. e finalmente de’ poeti lirici, di tre spezie: antichi, che furon i lirici sagri; mezzani, che furon gli eroici; ed ultimi, che son i melici.

[1341] La qual istoria non si poteva altrimenti accertare che con la nostra arte critica sopra essi autori delle nazioni, quali per tutta quest’opera, e principalmente per tutto il libro secondo, abbiamo dimostrato essere stati poeti.

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LIBRO QUARTO


SEZIONE SETTIMA

[1342] [939] .... talché il pretore non potesse niegargliele. Che prima professavano, come Pomponio dice, «privati ingenii fiducia», da Augusto in poi (che, con saggio consiglio, a sé, come monarca e perciò fonte di tutto il diritto civile, volle anco richiamar questa parte) il professarono coloro a’ quali esso ne avesse permesso e dato la facultá. Che durò infin ad Adriano, il qual ordinò che, nata appo i giudici difficultá se la formola data dal pretore cadesse sul fatto o no, eglino, col tacer i nomi de’ litiganti, ne consultassero i giureconsulti ordinati da esso, a’ quali questi davano chiuse e suggellate le loro risposte, dalle quali «iudicibus recedere non licebat»: onde da Adriano salí in tanta riputazione la giurisprudenza, perché indi in poi in mano de’ giureconsulti erano tutti i giudizi romani. Cosí a’ tempi barbari ritornati, tutta la riputazione de’ dottori .... ch’era appunto il «cavere» e «de iure respondere» de’ romani giureconsulti. Il qual ricorso di cose in giurisprudenza non è stato avvertito da niuno di tutti gl’interpetri, ed antichi e moderni, della romana ragione.

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SEZIONE NONA


Capitolo Secondo

[1343] [951] .... e ne’ secondi son i sudditi comandati d’attender a’ loro privati interessi e lasciare la cura del [CMA3] ben pubblico al monarca ed a coloro a’ qual’il monarca, la somma a sé riserbando, ne commette la cura nelle parti minori, nelle quali una repubblica è ripartita; aggiugnendo a ciò le naturali cagioni .... Ch’è l’«aequum bonum» considerato dalla natural equitá, ed è l’obbietto della giurisprudenza ultima, che cominciò ne’ tempi della romana libertá popolare e si compiè sotto gl’imperadori.

[1344] Dal qual ragionamento escono questi importantissimi corollari:

[1345] I. — Che tal è avvenuto della sapienza de’ romani quale della poesia d’Omero, estimate entrambe effetti d’innarrivabile filosofia, che furon, in fatti, produtte dalla lor eroica natura.

[1346] II. — Che, con troppo giusto senso, gli eroi, come sopra ragionammo nella Fisica eroica dell’uomo, posero la loro sapienza nel cuore; perché ove fussero cuori eroici, cioè sinceri, aperti, fidi, generosi e magnanimi, vi sarebbon i veri sappienti di Stato, i quali ad essi monarchi non consiglierebbono che ordini di pace ed imprese di guerra, che rendessero loro gloriosi gli Stati, i quali gloriosi non sono se non portano un’universale e durevole contentezza de’ sudditi.

[1347] III. — Ch’i romani per ciò furono sappientissimi di Stato sopra tutte le nazioni del mondo, perché si fecero guidare con giusti passi dalla divina provvedenza, la qual è tutta occupata a conservar il gener umano (dal qual fine assolutamente Ulpiano diffinisce la ragione di Stato); né troppo acuti per l’indole del cielo affricano, essi scaltrirono la loro sapienza co’ traffici marittimi, come fecero i cartaginesi; né troppo dilicati per lo presto passaggio che vi avevano fatto, assottigliarono la loro con le filosofie, come fecero i greci: la qual sapienza simulata, come la cartaginese, o affilata, come la greca, non piacque al senato nel tempo della romana virtú. La qual manomise Cartagine, e con

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Cartagine l’Affrica, ed in Ispagna Numanzia nel di lei troppo ancor acerbo eroismo, ed in Italia Capova, ch’aveva risoluto troppo anzi tempo l’eroismo con le delizie del cielo e con l’abbondanza della terra: delle quali tre cittá aveva temuto Roma l’imperio dell’universo. Manomise quindi la Grecia, e con la Grecia l’Asia, e fece parti della sua quelle ch’erano state innanzi due grandi monarchie, la prima de’ persiani e la seconda de’ macedoni, e divenne signora di tutto il mondo, di cui per natura potette esser signora. Onde Cicerone, il qual non credeva la favola della legge delle XII Tavole venuta da Atene in Roma (come altrove abbiamo dimostrato e meglio dimostreremo in un propio Ragionamento nel fine di questi libri), aveva ben onde anteporre il solo libretto di quella legge a tutte le librarie de’ filosofi. E i romani giureconsulti, in conformitá di tal loro pratica, posero in teorica per gran principio della giurisprudenza la provvedenza divina.

[1348] IV. — La soluzione d’un altro egualmente (quanto questo, senza la soluzione di questo) difficil problema a solversi: — Perché la giurisprudenza nacque sola al mondo tra’ romani? — Perché essi soli, prima coi costumi e poi, essendosi questi portati nella legge delle XII Tavole, per mezzo dell’interpetrazione, seppero custodire religiosissimamente gli ordini naturali, co’ quali la provvedenza dapprima aveva ordinato il mondo delle nazioni; lo che, per le cagioni e naturali e civili ch’abbiamo testé arrecato, non poterono né Cartagine né Numanzia né Capova né essa dottissima Grecia.

[1349] V. — Si manifesta la fortuna la qual fu cagione della romana grandezza, cioè la divina provvedenza, da’ romani sopra l’altre nazioni del mondo tutto religiosamente osservata; la qual fortuna non seppe vedere Plutarco, alquanto individioso della romana virtú, né seppe additargliela Torquato Tasso nella sua generosa Risposta a Plutarco.

[1350] VI. — Il rovesciamento dell’idee c’hanno finor avuto i dotti: che l’eroismo andò di séguito alla sapienza degli antichi; quando de’ primi tempi, ne’ quali gli uomini erano tutti senso e pensavano nel cuore, la sapienza degli antichi dovette esser effetto dell’eroismo.

[1351] VII. — E finalmente si ha la piú luminosa pruova di ciò che sopra dicemmo: che la maraviglia e ’l disiderio, c’hanno finor avuto i dotti della sapienza degli antichi, furono sensi diritti d’intorno alla provvedenza divina, i quali poscia la loro boria depravò con immaginarla sapienza umana.

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[1352] Dal fin qui ragionato facilmente s’intende la terza spezie di ragione, ch’è la ragion naturale della natura umana tutta spiegata, che si dice «aequitas naturalis». Della quale sola è capace la moltitudine ....

Capitolo Terzo

[1353] [952] [CMA3] Le cose qui ragionate d’intorno alle tre spezie della ragione ne dánno la ragione finor nascosta, la quale non han saputo tutti coloro c’hanno adornato la storia delle leggi romane, i quali riconoscono tre spezie di giurisprudenze, cioè antica, mezzana ed ultima, ma non han saputo il perché s’andarono d’una in altra cangiando. Perché non considerarono ch’i governi debbon esser conformi alla natura degli uomini governati ....

[1354] [953] .... che naturalmente dettavano tali e non altre pratiche. [CMA3] Lo che fu alto consiglio della provvedenza, con cui secondo le diverse nature degli uomini ha ordinato la successione delle forme politiche. Ché nel tempo della somma fierezza del gener umano .... e l’equitá civile, o ragion di Stato, fu intesa da pochi pratici di corte e serbata arcana dentro de’ gabinetti.

[1355] Tante cose e sí grandi nascondeva quest’arcano delle leggi che gl’interpetri, non sappiendo, han creduto impostura [CMA4] de’ romani patrizi, [CMA3] e Claudio Clapmario, De arcanis rerumpublicarum, non osservò. Per tutto lo che ragionato, quanto naturalmente erano stati appresi per giusti i rigori della giurisprudenza antica, tanto naturalmente se ne riconobbe appresso l’ingiustizia dalla giurisprudenza mezzana, e molto piú dalla ultima. Che dee esser il vero c’ha dovuto sostenere la volgar tradizione della legge delle XII Tavole venuta da Grecia in Roma: perché nacque in tempi che durava ancora la maniera di parlare per caratteri poetici; e, per tutto il tempo che la giurisprudenza antica usò del rigore nel ministrarla, fu detto essa legge esser venuta da Sparta, repubblica la qual a mille pruove abbiamo dimostrato essere stata di forma aristocratica, qual abbiam truovato essere stata la romana infin alla legge publilia; ma, dappoi che la giurisprudenza mezzana cominciò a temprarne i rigori con la ragion naturale, si disse esser venuta da Atene, repubblica popolare, quale fu la romana dalla legge publilia in poi. E tal oppenione restò, perché questa spezie d’interpetrazione si ricevette e s’accrebbe dalla giurisprudenza ultima sotto gl’imperadori.

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SEZIONE DECIMA


Capitolo Primo

[1356] [955] .... e nel secondo per «excipere». [CMA3] Tanto che queste dovetter essere le prime orazioni fatte agli dèi; ond’a’ latini gli avvocati restaron detti «oratores». A’quali anco da tali orazioni ed obsecrazioni, con eleganti differenze, restarono «oro» ed «obsecro» per cose gravissime, «rogo» e «quaeso» per cose leggieri. Tali richiami agli dèi si faccevano dapprima dalle genti ....

[1357] [955*] [CMA3] Sulla qual credenza Boiocalo, valoroso principe degli angrivari ed assai benemerito de’ romani, avendo ad Avito, luogotenente generale dell’esercito romano in Germania, domandato terre, dove esso ed altri germani principi, ch’avevano fatto lui capitano di quella spedizione, potessero vivere co’ loro vassalli, ed avendogliele il romano niegato, se ne richiamò al cielo con quell’apostrofe, che non fu uno sparuto colore di rettorica, ma piena di eroica vivezza: «solem inde respiciens — ci serviamo delle stesse parole di Tacito, perché adeguano la grandezza della storia — et cetera sydera vocans, quasi coram interrogabat: vellentne contueri inane solum? potius mare superinfunderent adversus terrarum ereptores». La qual sublimitá di lingua non nacque altronde che dalla sublimitá del di lui cuore. Perocché, da tal detto commosso, Avito avendogli profferto per lui solo e i di lui vassalli le domandate terre, egli generosamente, «tanquam proditionis precium aspernatus», diede in quella risposta magnanima: «deesse nobis terra, in qua vivamus, potest; in qua moriamur, non potest»; com’esso con tutte quelle nazioni, disperatamente combattendo, morirono. La qual istoria appruova a maraviglia ciò che noi diciamo: che con la barbarie sta la vera grandezza e sublimitá, la quale non è da sperarsi né dalle sottigliezze delle filosofie né dalle pulitezze dell’arti.

[1358] [957*] [CMA3] E qui si faccia una stretta ma pesante raccolta di cose de’ tempi divini della gentilitá. La prima fede fu la forza degli dèi; il primo culto fu la coltivazione de’ campi; le prime are

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essi campi arati; le prime contemplazioni quelle degli auspíci; i primi templi le regioni del cielo, le quali disegnavano gli áuguri per contemplarglivi; i primi misteri essi auspíci medesimi, onde i poeti teologi se ne dissero «mystae», che Orazio volta «interpetri degli dèi», i quali si tenevano per sappienti di tal teologia mistica, e tai poeti n’ebbero il titolo di «divini», cioè dotti in divinitá o sia nella scienza della divinazione; le prime cerimonie e le prime solennitá quelle degli atti legittimi; le prime orazioni furono l’accuse o difese; le prime devozioni furono l’esegrazioni de’ rei; i primi voti cotali rei consegrati; i primi sagrifici i supplíci di tali rei; le prime ostie, le prime vittime, cotali rei giustiziati. Dalle quali cose tutte si vede apertamente le prime religioni gentilesche essere state tutte sparse di fierezza e di sangue; e tutto ciò dalla divina provvedenza ordinato, acciocché la generazione degli uomini, nel ferino errore perduti, temprando l’indole immane della fiera natura con ispaventose e crudeli (e per ciò crudeli, perché spaventose) religioni, si riducesse finalmente all’umanitá.

Capitolo Terzo

[1359] [966] .... e ’l popolo, a cui si appellò, l’assolvette piú perché il delitto si nascose dentro lo splendore della sua gloria che per alcun merito della causa, come il tutto si può raccogliere da Livio. [CMA3] Il qual diritto eroico durò fin a’ tempi di Giustiniano, che tutti i giudizi, perch’eran tutti ordinari, erano tutti condennatòri, perché la formola di tutti dal pretore si concepiva: «Si paret reum esse, condemna, iudex»; onde, se non appariva il reo, non vi era bisogno di assolversi, perché non vi era stato giudizio, il quale tutto consisteva in essa formola. Oggi, che tutt’i giudizi sono estraordinari, ordinati dalla ragion naturale, sono tutti assolutòri; perché o si truova in fatti reo, e, col condennarsi, si assolve naturalmente dal debito; o non si truova, e si dice assolversi «ab impetitis», si assolve dall’ingiusta o falsa oppenione, perché in tali giudizi regna la natural giustizia e la veritá. Cotali giudizi ordinari bisognarono a’ tempi d’Achille, [SN2] che riponeva tutta la ragion nella forza .... fu in cautelare i clienti. Il qual costume natural delle nazioni diede l’argomento a tutta una commedia di Plauto, intitolata Il persiano, nella quale i testimoni, che vi si adoperano, professan esser uomini dabbene, e sono dal padrone dello schiavo

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informati di tutto l’ordine della trappola che esso tende contro il ruffiano; e non sono d’altro soleciti o scrupolosi che di vedere contarsi dallo schiavo al ruffiano il danaio; e ’l ruffiano, di ciò da essi convinto, si fugge da Atene, per non essere condennato d’aver corrotto lo schiavo altrui. [CMA3]

Capitolo Quinto

Riprensione del sistema d’Ugone Grozio
ne’ libri «De iure belli et pacis»

[1360] E, per dimostrar ad evidenza, particolarmente contro il Grozio, quanto sia difettuoso e vada errato il suo gran sistema De iure belli et pacis, è da riflettersi che i romani, i quali senza contrasto furono sappientissimi di tal diritto sopra tutte l’altre nazioni del mondo, quelli che Livio dice «sunt quaedam belli et pacis iura» il qual motto diede il primo motivo al Grozio di meditare quell’opera incomparabile, essi sperimentarono prima privatamente con que’ plebei, contro a’ quali udimmo Aristotile nelle Degnitá che gli eroi giuravano d’esser eterni nimici; e quelle leggi, che lor avevano dato in casa, poi fuori nelle guerre diedero alle vinte nazioni. Le leggi furono queste cinque e non piú, quali in quest’opera abbiamo ritruovato:

1. le clientele di Romolo,

2. il censo di Servio Tullio,

3. il «ius nexi mancipique» della legge delle XII Tavole,

4. la legge de’ connubi,

5. e finalmente quella di comunicarsi il consolato alla plebe.

[1361] Perocché riducevano le provincie fiere e feroci a’ giornalieri di Romolo con mandarvi le colonie romane; — regolavano le mansuete col censo di Servio Tullio, o sia col dominio bonitario; — alla splendida e luminosa Italia, ch’era contenta d’essere nel suo seno Roma, capo del mondo, permise il dominio quiritario de’ campi con la mancipazione, o sia tradizione solenne del nodo della legge delle XII Tavole, onde furono detti i fondi «soli italici»; — a’ popoli benemeriti dentro essa Italia comunicarono il connubio e col connubio la cittadinanza, che (siccome i plebei romani, ove si facessero de’ grandi meriti) fussero capaci degli onori e del consolato, quali furon i municipi romani.

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[1362] Sopra sí fatte cinque leggi essi andarono stendendo con giustizia le conquiste e ingrandendo con clemenza il romano imperio; che è quello onde doveva con sodezza di princípi trattare queste cose romane il gran Carlo Sigonio con l’immensa minuta erudizione con cui n’ha scritto. Quindi s’intenda quanto il Grozio trattò il diritto della guerra e della pace assai meno della mettá e senza scienza di princípi, contemplando tutto ad un colpo le nazioni entro la societá di tutto il gener umano! Il qual errore nacque da quell’altro: ch’egli ne ragiona non co’ princípi della provvedenza, come n’avevano ragionato i romani giureconsulti; la quale prima addottrinò dentro i popoli privatamente, senza saper nulla l’uno dell’altro, d’intorno a queste leggi, le quali, usciti poi fuori con le guerre, riconobbero giuste cosí i vincitori di darle, come di riceverle i vinti.

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SEZIONE UNDECIMA

[CMA3]

Capitolo Secondo

Dimostrazione di fatto istorico contro lo scetticismo

[1363] Or qui sieci lecito di far una digressione, non inutile però alla somma dell’opera, in una dimostrazione di fatto istorico, che pruovi ad evidenza che le sètte de’ filosofi vanno a seconda della corrozione della setta de’ tempi umani, ne’ quali abbiam dimostro nascer esse filosofie, e che le rovinose all’umana societá vengono da impuritá di cuore, ch’appesta le menti d’una sapienza perniziosa al gener umano. Tal dimostrazione di fatto è la storia d’intorno allo scetticismo.

[1364] Imperciocché Socrate, il qual fu detto padre di tutte le scuole de’ filosofi, ne’ tempi ancor costumati della Grecia, professò sapere questa sola cosa: ch’esso non sapeva nulla. Su di che Platone stabilí quel criterio di veritá: ch’è un grande argomento del vero sembrar una cosa la stessa a tutti; della quale non vi ha regola piú sicura nella vita umana, con cui tutte le nazioni accertano l’elezioni, le giudicature, i consigli. Tanto che Socrate e, dopo di lui, Platone aprirono l’Accademia antica sopra questo dogma: doversi vedere nelle cose se si accosti al vero piú questo che quello. S’andarono piú corrompendo i costumi greci, e Carneade in Roma un giorno ragionò esservi giusto in natura, e ’l giorno appresso ragionò che ’l giusto era nell’oppenione degli uomini; ed aprí la scuola dell’Accademia mezzana, che si cominciò a dire scettica, la qual lasciava almeno rattenuti gli uomini sulla dubbiezza d’esser o questo o quello. Appresso, incominciandosi a sfacciare la Grecia, venne Arciselao e portò piú innanzi lo scetticismo, con insegnar e questo e quello, e sí lasciò libertá d’indifferenza agli uomini d’operare qualunque delle due con non poco d’audacia. Ma, quando la Grecia finalmente, perduto ogni rossore, faceva professione d’una sapienza di laidissimi gusti e di furiose dilicatezze, l’Accademia di Socrate degenerò nell’Accademia ultima, detto «pirronismo», da Pirrone, ch’insegnò né questo né quello; onde gli uomini con tutta la sfacciatezza confusero il lecito e l’illecito, l’onesto e ’l disonesto, il giusto e l’ingiusto.

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SEZIONE DUODECIMA


Capitolo Secondo

[1365] [985] .... funne fatto strozzare o appiccare dagli efori, custodi della libertá signorile de’ lacedemoni. Perché ’l testamento di Telemaco, narrato da Omero e riferito da Giustiniano nell’Istituta, fu donazione particolare fatta mortis caussa. Della quale s’intese la necessitá nelle guerre, perch’i beni, ch’erano appo i soldati i quali morivano nelle battaglie, non restassero senza signore; e ne rimase l’eterna propietá: che ’l soldato, che fa testamento in procinto di battagliare, possa morire «pro parte testatus, pro parte intestatus». Onde s’intenda quanto ella è saggia la critica degli eruditi interpetri delle leggi romane, i quali con tanta esattezza fissano nella tavola undecima il capo ....

[1366] [990*] [CMA3] E qui finalmente ci abbiamo riserbato di esaminare quel detto d’Aristotile, il quale ne’ suoi Libri politici udimmo nelle Degnitá dire ch’i regni per successione sieno celebrati da’ barbari e che per elezione si diferirono i regni eroici. Perché Aristotele non visse tanto, che vedesse de’ suoi umanissimi greci i regni di Siria, d’Egitto, di Macedonia ed altri molti, ne’ quali tra’ capitani d’Alessandro Magno si divise la monarchia persiana, essere stati tutti per successione; né poté vedere l’imperio romano nella sua piú splendida umanitá essere stato per cinque imperadori un retaggio della casa di Cesare, come l’appella Galba (appo Tacito), che fu il primo imperadore romano eletto. Ma egli fu ingannato dalla boria de’ dotti, d’estimare gli antichi eroi qual’i filosofi l’hanno finor immaginati, non quali furono per natura, che, come a tante pruove s’è in questi libri dimostrato, fu natura di barbari.

[1367] [992] Ed è degno di due riflessioni. Delle quali una è: su due sconcissimi errori presi da cotesti eruditi adornatori della legge delle XII Tavole: uno che tali successioni ab intestato, con tal’imperi ciclopici, con tali pene crudelissime, quali appresso diremo, fa venir in Roma da Atene ne’ tempi che godeva la piú mansueta libertá popolare; l’altro che de’ padri di famiglia romani l’ereditá ab intestato .... delle cose che sono dette nullius o in quella

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de’ beni vacanti. L’altra riflessione, che piú rileva, è che per l’agrarie si fecero dalla plebe delle grandi rivolte, ma per tali contese eroiche non se ne fece pur una, perché quelle guardavan cosa fuori delle persone de’ nobili e che si potevan avere da’ plebei senza i nobili: ma i connubi, i consolati, i sacerdozi eran attaccati alle persone de’ nobili, e i plebei in tanto l’ambivano in quanto gli godessero insieme co’ nobili. Onde le contese, essendo tutte d’onore in pace, portavano i plebei a fare delle grandi imprese in guerra, come sta proposto nelle Degnitá, per appruovar a’ nobili ch’essi eran degni de’ diritti de’ nobili; come Sestio, tribuno della plebe, una volta il rimpruovera a’ nobili. Laonde conobbero, ma di sottil profilo, questa gran veritá, da una parte Macchiavelli, che disse la cagione della romana grandezza essere stata la magnanimitá della plebe, e dall’altra Polibio, che la rifonde tutta nella romana pietá: perocché (noi lor soggiugniamo) i padri dicevano tutti i diritti eroici essere loro propi, perché «sua essent auspicia». I quali scrittori, entrambi da noi cosí spiegati, possono accusar Plutarco d’invidia, che fa della romana grandezza fabra la romana fortuna, ed avvertire Torquato Tasso di non averlo ben còlto nella sua Risposta a Plutarco.

[1368] [996*] [CMA2] E Tacito, che vuole anche con esse propietá delle voci dar i suoi avvisi politici, nel principio degli Annali disse «ius tribunorum militum», usando un vocabolo generale di diritto, non lo propio e grave d’«imperio». Come con iscienza pur aveva detto, nel verso sopra, «decemviralis potestas»: perché nel primo anno fu imperio legittimo; nel secondo, fermatovisi a forza Appio con gli altri nove, il decemvirato divenne tirannide (come «dieci tiranni» s’appellano sulla storia), e sí fu una potestá di fatto, non di ragione.

[1369] [997] .... «tribunorum plebis potestas». Lo che dá apertamente a divedere quanto s’intendesse della natura delle cose umane civili Giovan Bodino, che vorrebbe nella sua monarchia francese restituita la patria potestá de’ romani antichi!

Capitolo Terzo

[1370] [999] .... al narrare di Pomponio. [CMA3] Dov’è da farsi questa importante riflessione: che, perciocché la sapienza degli auspíci era stata agli eroi il primo principio di tutte le loro ragioni

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eroiche, i plebei furono rattenuti di domandare, senonsé all’ultimo, comunicarsi loro da’ nobili la ragion eroica de’ sacerdozi e de’ ponteficati, che portava di séguito la scienza delle leggi, della quale prima e principal parte era quello che dicevano «ius augurium», di cui s’intendeva la scienza augurale; per la qual parte la giurisprudenza si diffiní «notitia rerum divinarum», dalla quale dipendeva l’altra parte «humanarum»; le quali entrambe ne compiono tutto l’obietto adeguato. Perciò qui noi ragioneremo della custodia delle leggi ....

[1371] [1001] .... e perciò Augusto, per istabilirla, ne fece in grandissimo numero. Onde Tiberio, di lui successore, poi godeva di veder nella curia da una parte i suoi figliuoli combattere le leggi e dall’altra tutto il senato difenderle, le quali pur eran vinte; e Caligula, mal sopportando le formole delle leggi, che ponevano in suggezione la sua libera sovranitá, diceva a’ giureconsulti quelle parole: «redigam illos ad aequum», che dasse il suono di «eccum», in atto di additare se stesso. E i seguenti principi usarono non per altro il senato che per fare senaticonsulti ....

[1372] [1002] ...., talché Grozio afferma esser oggi un diritto naturale delle genti d’Europa; ma non ne sa la ragione: perché è ritornato il diritto natural delle genti, che naturalmente s’osservò a’ tempi di Giustiniano.

[1373] [1003] .... con tardi passi s’impropiassero le parole della legge delle XII Tavole, in conformitá degli Stati che si cangiavano, prima libero e poi monarchico, secondo l’avviso politico che Tacito pur ne dá: che le leggi non si mutino tutte ad un tempo. Onde forse per cotal cagione principalmente ....

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SEZIONE DECIMATERZA


Capitolo Primo

[Nella SN2 questo capitolo e i due che seguono costituiscono una lunga introduzione, senza titolo, del libro quinto. Ma giá nelle CMA1 questa introduzione, pur restando al medesimo posto, venne spezzata in due capitoli, i quali, divenuti tre, nelle CMA3 mercé lo sdoppiamento del primo, furono, nella SN3, anticipati al quarto libro].

[1374] [1004] Da sí lunga, numerosa, multiforme, costante e perpetua successione di cose umane .... apertamente e con evidenza si è da noi dimostrato che, per tutta l’intiera vita .... ma di forme seconde mescolate col governo delle prime; il qual mescolamento naturale, quanto è vero in natura, tanto egli non è stato punto osservato da tutti i politici. [CMA3] Questo ha fruttato scrivere di sí fatta scienza sull’idee boriose particolari de’ dotti, e non sopra le comuni delle medesime nazioni, dalla comune natura delle quali, che questa Scienza contempla, naturalmente nascono essi Stati e secondo quella naturalmente si ordinano essi governi civili. Egli è tal mescolamento fondato [SN2] sopra quella degnitá: che, cangiandosi gli uomini ne’ lor costumi, ritengono per qualche tempo l’impressione del vezzo primiero, e per quella metafisica veritá: che le forme per la lor unitá si sforzano quanto piú possono di discacciar dai loro subbietti tutte le propietá d’altre forme.

Capitolo Secondo

[1375] S’introdusse la legge monarchica con questa natural legge regia, che sentirono pure tutte le nazioni, che riconoscono da Augusto essersi fondata la monarchia de’ romani, e per la quale Bodino si maraviglia dell’effetto, perché non sa la cagione, che tutti gli ordini necessari alla monarchia esso osserva esser uniformi tra gli ebrei, romani, turchi e francesi, e solamente variar nel suono delle voci di quattro lingue diverse. Perché queste quattro nazioni

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con un senso uniforme sentirono tali e non altri, tanti né piú né meno, bisognar alla monarchia. Se non vogliamo che la legge regia di Samuello, con la quale Saulle da Dio fu ordinato monarca, con gli stessi viaggi di Pittagora per lo mondo, avesse caminato dagli ebrei a’ romani, da’ romani a’ turchi ed a’ francesi. E i pareggiatori del diritto attico fanno venire la legge delle XII Tavole da Atene in Roma per alquanti pochi costumi civili romani, ch’osservano sopra autori greci essere stati conformi in Atene. Ma della patria potestá, della suitá, agnazione, gentilitá, e quindi delle successioni legittime, de’ testamenti, delle tutele, della mancipazione (con cui si solennizzavano tutti gli atti legittimi, tra’ quali erano i matrimoni e le adozioni, e senza la quale tra’ vivi non s’acquistava dominio civile), delle usucapioni e finalmente delle stipulazioni (con le quali s’avvalorano tutti i patti), nelle quali cose consiste tutto il corpo del diritto romano, siccome negli ordini osservati dal Bodino uniformi tralle quattro anzidette nazioni si contiene tutta la forma del governo monarchico, essi non ne rapportano verun luogo pari da niuno greco scrittore; e ciò che loro fece prender abbaglio, fu il lusso greco de’ funerali, che truovaron vietato dalle leggi romane. Ma vi voleva questa Scienza, che lor dasse la discoverta de’ caratteri poetici, co’ quali parlarono per lunga etá le antiche nazioni, per poter intendere che dovette introdursi in Roma dopo che i romani si erano conosciuti co’ greci, che fu con l’occasione della guerra di Taranto, che portò appresso quella con Pirro; e che nelle XII Tavole si andarono tratto tratto aggiugnendo le leggi che dal CCCIII di Roma si comandarono lunga etá appresso, come noi ne’ Corollari della Logica poetica abbiamo pienamente sopra dimostro.

[1376] [1007] Or, ritornando al proposito, diciamo che cotal legge regia naturale, ch’intesero tutte le nazioni, non seppero vedere tutti gl’interpetri delle leggi romane, occupati tutti d’intorno alla favola delle legge regia di Tribuniano, di cui apertamente si professa autore nell’Istituta, ed una volta l’appicca ad Ulpiano ne’ Digesti. D’intorno alla quale se Tribuniano non avesse favoleggiato, essi non saprebbero render alcuna ragione della monarchia romana che fu fondata da Augusto; [CMA3] siccome Ugon Grozio, per renderne ragione, egli è, quantunque a torto, con vani o falsi o irragionevoli argomenti notato dal Gronovio, che vi scrive le note a compiacenza della libertá olandese, che ’l Grozio in ciò sia adulatore della francese monarchia. Ma l’intesero bene i giureconsulti romani ....

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[1377] [1008] .... la maggior parte de’ cittadini non curano piú ben pubblico; [CMA3] e nelle cose politiche il maggior numero si tiene a luogo di tutti, siccome nelle morali lo «per lo piú» si tien a luogo di «sempre». Lo che Tacito, sappientissimo di diritto natural delle genti ....

Capitolo Terzo

[1378] [1014] .... [CMA3] a celebrar le cittá, ed a cingerle di muraglie. Tanto gli antichissimi monarchi sognati da’ politici, da’ qual’incomincia la sua posizione il Bodino, erano stati lontani dal pensier d’infrenar le cittá col timore delle fortezze! E tanto i fondatori delle cittá essi furono quelli ....

[1379] [1015] .... Tanto il regno romano era stato monarchico e la libertá da Bruto ordinatavi popolare! Dovrá perciò il Bodino, per mantener il suo detto, ricorrere a’ servi co’ quali Abramo fece guerra co’ re gentili. Ma gli schiavi si fanno in guerra, che, per la sua posizione, hanno ancora da cominciare.

[1380] [1016] .... degli schiavi, che vennero dopo le cittá con le guerre. E contro sua voglia si salvi Gian Bodino, che fa materia delle repubbliche uomini liberi e servi, e si perde in ritruovarne la guisa. Ma Abramo non fece guerre alliato con altri patriarchi, e, se con altri patriarchi avesse fatto le guerre che fece contro gli re gentili, se non vi fosse stato diverso ordinamento dato espressamente da Dio, doveva con quelli dividere le conquiste.

[1381] [1017] .... [CMA3*] E sí gli antichi franchi, che ’l Bodino, francese, non intende, il diedero alla sua Francia. Il qual costume umano usa tuttavia la religione di Malta, la quale distingue le nazioni de’ suoi cavalieri per «lingue».

[1382] [1019] perché gli uccidevano per ordine di essi senati regnanti. [CMA3] Come Bruto dovette liberar Roma dal tiranno Tarquinio, ch’aveva fatto uccider una gran parte del senato; né l’arebbe liberata altrimente se non fusse avvenuto il fatto di Lucrezia, il qual commosse la plebe contro il tiranno. Gli re, nella ferocia de’ primi popoli ....

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SEZIONE DECIMAQUARTA


Capitolo Primo

[1383] [1025] E finalmente come da’ funesti sospetti delle aristocrazie, per gli bollori delle repubbliche popolari, vanno finalmente le nazioni a riposar sotto le monarchie. [CMA3] E, se ben si rifletta sulla storia universale, si osserverá che le monarchie non mai si fondarono e stabilirono senonsé dopo lunghe e grandi guerre civili de’ popoli.

[1384] [1026] Tutto il ragionato in questo libro è propio di questa Scienza, prima e principalmente per l’aspetto ch’ella ha di storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini; la quale, come da’ suoi particolari princípi, si avrá tutta spiegata e ferma sulle degnitá [CMA3] lxvi, lxvii, lxviii e particolarmente la lxxx, la xciv, xcv e xcvi, [SN2] dalle quali, come sue sorgive, deesi richiamare. Dipoi, come in conseguenza di tal istoria ideal eterna questa Scienza ha l’aspetto di sistema del diritto natural delle genti, esce, come da semenze le frutte, dalle degnitá [CMA3] cv fin alla cxiv, [SN2] ch’è l’ultima. Sulle quali si rincontrino le cose che qui se ne dicono, e si vedrá dimostrato ch’i romani, i quali con essi umani costumi si fecero condurre dalla divina provvedenza, acconciamente a tal pubblica loro pratica diffinirono nella teorica delle loro leggi, come ogniun sa, «ius naturale gentium divina providentia constitutum». La qual, principalmente con essi romani costumi, l’abbiamo per tutta quest’opera, e particolarmente in questo libro, ragionata. Che Grozio non fece, il qual, per troppo affetto ch’egli ebbe alla veritá, professa il suo sistema reggere anco precisa ogni cognizione di Dio (del qual diritto non può reggere niun sistema, se non comincia dalla cognizione d’un Dio provvedente); — Seldeno la suppone; — Pufendorfio non ne ragiona con gravitá, perché l’incomincia da un’ipotesi epicurea dell’uomo gittato in questo mondo senza niuna cura ed aiuto di Dio; — e per la boria de’ dotti han creduto tutti e tre di

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concerto che le genti, perdute nell’error della colpa, osservato avessero coi costumi un diritto naturale comune con gli ebrei, ch’eran illuminati dal vero Dio, ed avesserlo inteso co’ filosofi, che, dopo lungo tempo fondate le nazioni, furono schiariti in parte de’ lumi dell’universal eterna giustizia.

Capitolo Secondo

[1385] [1034] .... [CMA3] «personari», il qual verbo congetturiamo aver significato dapprima «vestir pelli di fiere uccise», com’Ercole vestiva quella del lione. Lo che non era lecito ch’a soli eroi, perch’essi soli, com’abbiam sopra detto, avevano il diritto dell’armi; ond’ancor oggi in Lamagna, nazion eroica, non è ad altri lecita la caccia ch’a soli nobili. E n’è rimasto certamente il verbo compagno «opsonari», che dovette dapprima significare «cibarsi di carne salvaggine cacciate», detto cosí da Opi, dea della forza, a cui dovevano innanzi consegrare le fiere che bramavano uccidere, nel tempo che credevano ch’ogni cosa facesser gli dèi, come si è appieno sopra dimostrato. Laonde, come dovettero le prime mense opime esser queste dove s’imbandivano tali carni, che facevano tutta la lautezza delle cene eroiche, quali appunto le descrive Virgilio; e poi, passando il pregio da’ cibi a’ pesci, i quali oggi rendono sontuose le tavole de’ grandi, restò «opsonari» per «comperar pesci», come l’avvertono i latini gramatici; — cosí «personari» dovett’essere «vestir pelli di fiere uccise», e ’n conseguenza queste dovetter essere le prime spoglie opime, che riportarano dalle prime guerre gli eroi, le quali prime essi fecero con le fiere per difenderne sé e le loro famiglie, come abbiamo sopra ragionato, e poi se ne dissero «spoglie opime» quelle degli re uccisi in guerra da’ romani re o da’ consoli, ch’eran appese in voto a Giove Feretrio nel Campidoglio.

[1386] [1037] Ma, venuti finalmente i tempi umani delle repubbliche popolari .... le ragioni astratte dell’intelletto ed universali si dissero indi in poi «consistere in intellectu iuris». E della mente de’ popoli legislatori [CMA3] (e sen rida pure il celebratissimo giureconsulto di Arnoldo Vinnio, perch’egli non può intendere questi sublimi e finor seppelliti princípi di legal metafisica) si fece una platonica idea, detta «intellectus iuris», alla qual idea la volontá de’ cittadini si debbe conformare, acciocché ella sia, per dirla

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co’ dottori, «investita» e, piú propiamente co’ filosofi, «informata» del diritto. Il qual intelletto è appunto la mente d’eroe scevera di passioni, la quale divinamente Aristotile diffinisce la buona legge; perché in cotal intelletto consiste il gius, che non ha punto di corpolenza, dalla quale vengono alla mente le passioni; e quivi consistono tutti que’ diritti che non hanno corpo, dov’essi si esercitino, quali si chiamano «nuda iura», diritti nudi [di] corpolenza, e si dicono «in intellectu iuris consistere». Cosí i romani giureconsulti in forza di essa giurisprudenza, i cui princípi richiamavano dalla provvedenza divina, sentirono ciò che Platone in forza d’una sublime metafisica, nella quale dimostra la provvedenza, intese dell’idee eterne: che, perocché i diritti sono modi di sostanza spirituale, perciò son individui, perché la divisibilitá è propia de’ corpi, e, perocché son individui, son quindi eterni, perché la corrozione non è altro che la division delle parti.
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LIBRO QUINTO
Capitolo Primo

[1387] [1047] Ora, entrando vieppiú nel ricorso delle cose umane, che ’n quest’ultimo libro principalmente proponemmo di ragionare, diciamo che tutti i politici ultimi, abbagliati da’ falsi princípi, che della civil dottrina avevano posti i politici primi (per lo che sopra abbiam preso Giovanni Bodino a confutare, il qual è stato il piú erudito di tutti gli ultimi), non avendo inteso il ricorso che fanno le nazioni, secondo il quale si conducono le forme politiche da noi scoverte per gli princípi di questa Scienza, senza i quali i tempi della barbarie seconda erano giaciuti piú oscuri di quelli della barbarie prima ...., perciò non poteron avvertire che la divina provvedenza, avendo per vie sovraumane schiarita e ferma la veritá della cristiana religione, con la virtú de’ martiri incontro la potenza romana e con la dottrina de’ Padri e con miracoli ’ncontro la vana sapienza greca; [CMA3] e sí avendo fondata e stabilita la cristiana religione con la sapienza e con l’eroica virtú, ma infinitamente superiori a quelle con le quali s’erano fondate e ferme le religioni gentilesche, nelle quali la sapienza fu di fantastici e l’eroismo fu d’orgogliosi; ove nella cristiana fu una sapienza piú sublime di quella degli piú sublimi filosofi, e un eroismo tutto riposto nella mansuetudine ed umiltá dello spirito; ed avendo poi a surgere nazioni armate ....

[1388] [1048] .... vestirono le dalmatiche dei diaconi, [CMA1] le quali ora vestono gli angioli che son i tenenti dell’arma reale di Francia, e delle quali poi restò il costume di vestirsi gli araldi

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di guerra che si chiamano gli «re dell’armi»; e consegrarono le loro persone reali ....

[1389] [1050] .... Ond’è che i popoli, in que’ tempi, erano diligentissimi in sotterrarle e nasconderle, [CMA3] onde tai luoghi, ch’osserviamo nelle chiese addentrati e profondi, ne restaron detti «succorpi».

[1390] [1056*] [CMA4] Tutte queste osservate cose, con altre sopra ragionate da noi, possono dare la via d’intorno a ciò che la storia barbara del settimo ed ottavo secolo, con maraviglia de’ leggitori, racconta: che gli re concedevano a’ loro capitani intieri cenobi e monasteri, in qualitá di benefíci e di feudi, e che nella Francia, Inghilterra, Germania ed anco Italia ministri de’ re possiedevano de’ cenobi e monasteri, e vi abitavano con le loro mogli e figliuoli, consecravano il capo con la tonsura, che usasi da’ chierici, e s’intitolavano «abati».

Capitolo Secondo

[Questo capitolo nella SN2 formava tutt’una cosa col precedente. Ma giá nelle CMA1 il V. ne faceva un capitolo a parte, col titolo: Discoverta d’intorno alla vera origine de’ feudi; titolo che nelle CMA3 diventò Ricorso che fanno le nazioni sopra la natura eterna de’ feudi, e quindi il ricorso della giurisprudenza romana antica fatto colla dottrina feudale; salvo a esser nuovamente mutato, nelle CMA4, in quello adottato nella SN3].

[1391] [1057] A questi succedettero certi tempi eroici, per una certa distinzione ritornata di nature quasi diverse, eroica ed umana; onde ancor oggi tra noi usano i nobili quella espressione: che essi «nascono bianchi». Da che viene la cagione di quell’effetto di che si maraviglia Ottomano ....

[1392] [1075] .... [CMA3] cosí questi negli ultimi loro tempi perderono di veduta l’antico diritto feudale. Imperciocché diffiniscono l’investitura del feudo con la tradizione; poi ne fanno due spezie, delle quali una chiamano «cerimoniale», e diffiniscono «tradizione del feudo fatta con la consegna dell’anello o della spada o della lancia»; e questa oppinano produrre una spezie di «bonorum possessione» decretale: l’altra spezie d’investitura chiamano «vera», ch’è quando il signore del feudo ne mette nel real possesso il

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vassallo. Quindi vedasi che sconcezze! che assurdi! che contorcimenti d’idee! Chiamano «cerimoniale» la prima in senso di «finta», perché l’oppongono all’altra, che chiaman «vera»; la quale dovevano appellare «investitura vera fatta con la tradizione solenne», o sia con la mancipazione, ch’a’ romani era stata la consegna d’un nodo, a questi fu dell’anello (che sopra ad altro proposito dimostrammo esser succeduto in luogo del nodo), o si faceva con la consegna della spada o dell’asta, dalla qual appunto era venuto detto il dominio quiritario a’ romani, e i feudi se ne dissero da’ barbari, con troppo bella corrispondenza, «beni della lancia». E cotal tradizione era del gius, la quale principalmente si considerava dalla giurisprudenza romana antica; e cosí dalla giurisprudenza barbara antica dovette considerarsi. La qual tradizione di gius deve produrre possessione civile, non naturale, che debbia essere soccorsa da alcuna «bonorum possessione»; e cosí questa dovette scrupolosamente osservare le cerimonie di tal tradizione, che perciò «cerimoniale» restò detta, come quella aveva osservato la solennitá della mancipazione, la qual dava la forma a tutti gli atti legittimi. Perché l’una e l’altra civile tradizione nacque ne’ tempi mutoli, ne’ quali con atti diffiniti si dovevano spiegare le volontá determinate di coloro che volevano acquistare, conservare o alienare diritti; e sí in tai tempi tai cerimonie erano tanto necessarie quanto lo è oggi l’accertarsi della volontá, ch’è ’l subbietto di tutti i diritti. Onde cosí dagli antichi romani come da’ primi ricorsi barbari si teneva a luogo d’una dipendenza di fatto la tradizione naturale, che i feudisti dicono «vera», ed era la tradizione d’esso corpo feudale. Perché i feudisti ne parlano ne’ tempi umani, ne’ quali, come i giureconsulti della giurisprudenza ultima, attendono alla sola veritá de’ fatti, non giá alle cerimonie degli atti legittimi. Conduce a ciò che diciamo, che chiamano «cerimoniale» la prima, perché si celebrò ne’ tempi divini ricorsi, ne’ quali i feudi incominciarono dagli ecclesiastici, de’ quali questi furono i primi ecclesiastici benefíci, come sopra si è detto, e i feudisti eruditi latinamente «beneficia» voltano i feudi, de’ quali le piú antiche memorie si ritruovan ne’ canoni.

[1393] [1077*] Ritornarono le pene crudeli eroiche, onde lo scudo di Perseo insassiva i riguardanti, come sopra abbiam spiegato, e ne restaron dette «pene ordinarie» le pene di morte.

[1394] [1079] .... [CMA3] Perché nelle cittá eroiche ogni tal ammazzamento era fatto d’un padre o sia d’un nobile, perché di soli

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nobili esse si componevano. Il quale stato civile doveva anco durare nel tempo ch’era in osservanza quel capo della legge delle XII Tavole, il qual è «De capite civis romani nisi in maximo comitiatu ius dicere nefas esto»; perché, comunicata poi la cittadinanza romana a’ plebei, arebbero dovuto i romani star sempre in adunanza per conoscere cause d’omicidio. Perciò da Romolo infin a Tullo Ostilio ....

[1395] [1081] [CMA3] Finalmente, come dalla sentenza con la qual era stato condennato Orazio, permise al reo il re Tullo l’appellagione al popolo, ch’allora era di soli nobili e tutti i filologi, ingannati da tal voce «popolo», non distinta, credettero ch’avesse appellato alla miserabile ciurma de’ giornalieri di Romolo, e Tullo avesse loro il suo regno assoggettito con appellazione sí fatta. Ed è necessario ch’a tal popolo di nobili la casa Publicola, per un suo famigliare destino che dice Livio, avesse due volte restituita l’appellagione. Perché da un re d’un senato regnante non vi è altro rimedio a’ rei che ’l richiamo a’ medesimi giudicanti; cosí e non altrimenti dovettero praticar i nobili de’ tempi barbari ritornati, nelle loro cause feudali di richiamarsi ad essi re ne’ loro parlamenti, come, per cagion d’esemplo, agli re di Francia, che n’eran capi e da principio, com’abbiam veduto, vi presiedettero.

[1396] [1082] [CMA3] E quest’è l’origine dell’inclito nostro Sagro Real Consiglio napoletano, il quale di sua natura è un’aristocrazia: il presidente vi presiede col titolo di «Real Maestá» .... ma sol è permesso di richiamarsi al Sagro Consiglio medesimo. Le quali cose i dottori municipali, non sappiendo tali propietá uscite dall’aristocrazie eroiche degli antichi, ne hanno fatto somiglianze al prefetto al pretorio sotto la monarchia de’ romani imperadori: quando, nel tempo che s’introdusse questo gran tribunale, non si sapeva chi fosse stato Cesare Augusto, nonché ’l prefetto al pretorio. [SN2] Dalle quali cose d’intorno a’ feudi, qui in parte raccolte e combinate, veda Cuiacio se tal materia de’ feudi è punto vile, com’egli dice; ché ella è tutta eroica e degna di esser adornata della piú colta riposta erudizione antica cosí greca come romana.

[1397] [1084*] Dalla qual forza la dea Opi fu da’ poeti appresa, come si è sopra veduto, per la signora del mondo delle cittá. [CMA4] E cosí può farsi vera la favola della legge regia, con la qual il popolo romano si spogliò del suo sovrano imperio, e n’investí Augusto. Con che può convenire il saggio motto di Tacito, con cui legittima la monarchia romana fondata da Augusto: «qui

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rempublicam, bellis civilibus fessam, sub imperium accepit». [SN2] Se cotal legge regia naturale avesse Grozio avvertito, il Gronovio, per lusingare la libertá olandese, non l’arebbe calonniato che fusse adulatore della francese monarchia [CMA3], come sopra si è pur narrato. Ma, lasciando le frivole obbiezioni che gli fa il Gronovio, esso Cuiacio, [CMA1] quando scrisse sopra i feudi, doveva [CMA3] pure [CMA1] porsi in ricerca perché le piú belle espressioni [CMA3] e piú eleganti [CMA1] della piú colta giurisprudenza romana [CMA3] antica, [CMA1] con le quali egli mitiga la barbarie della dottrina feudale, vi riescono cotanto acconce che nulla piú. Ma egli non poté neppur odorare le cagioni dell’acconcezza, perché non [CMA3] poté saper nulla de’ princípi [CMA1] dell’antica giurisprudenza romana eroica. La quale giá si era perduta di vista da essi giureconsulti della giurisprudenza romana [CMA3] ultima, tanto che Giustiniano, come sopra osservammo, ne tiene le leggi a luogo di favole; e i romani certamente [CMA1] non dovettero godere del privilegio, che non poteron aver essi greci, gli piú intelligenti e scorti di tutte le nazioni, i quali fin al tempo del padre di Tucidide nulla seppero affatto delle antichitá loro propie: onde l’uomo d’ingegno severo e grave si diede a scrivere l’istoria della guerra peloponnesiaca, [CMA3] la quale si era fatta a’ suoi tempi.

[1398] [1085] [CMA3] E qui faccia tutto il suo uso ciò che si è sopra detto: che quindi intenda Bodino se i feudi [CMA4] soggetti a maggiore sovranitá [CMA3] sono diritto de’ tempi barbari ultimi, che sono di tutti i tempi barbari, da’ quali incomincian le nazioni; intenda Oldendorpio .... il diritto romano è nato dalle scintille de’ feudi; intenda Cuiacio, che, se [CMA1] avesse ritruovato queste origini de’ feudi, non solo non ne arebbe detto essere la [CMA4] dottrina, in questa sua parte, [CMA1] vile, ma arebbe scoverte l’origini del suo grande e magnifico regno di Francia. [CMA4] Il quale, perché piú degli altri stiede fermo sopra i princípi dei feudi, particolarmente con la legge salica, divenne sopra gli altri tutti d’Europa grande e magnifico. Appunto come i romani, perché vi stettero fermi piú dell’altre nazioni del mondo, divennero signori del mondo. Le quali origini del regno di Francia abbiamo noi scoverte in dimostrando [CMA1] i falsi princípi della politica [CMA3] posti dal francese [CMA1] Bodino, il quale superbamente si rideva d’esso Cuiacio. [CMA3] Ch’è finalmente ciò che nell’Idea dell’opera avevamo promesso di dimostrare: dentro la natura de’ feudi ritruovarsi l’origini de’ nuovi reami d’Europa.

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Capitolo Terzo

[1399] [1091] .... ha nella lingua un’aria simile alla latina [CMA3*] e perché egli partecipa piú della zona fredda che temperata, come noi abbiam osservato de’ reami d’Europa posti sotto il Settentrione, ritiene molto della natura eroica ....

[1400] [1092] .... perverranno a perfettissime monarchie. [CMA3*] Ed è da osservare come sopra i feudi reggono tutte le nazioni del mondo; ch’in Affrica il gran negus, nell’Europa l’imperador de’ romani, nell’Asia il Gran Turco, nell’Indie orientali l’imperador del Giappone hanno quantitá di sovrani soggetti alla loro maggiore sovranitá. In questa nostra parte del mondo sola, perché coltiva lettere, vi ha di piú un buon numero di repubbliche popolari, ....

[1401] [1095] Finalmente, valicando per l’oceano nel nuovo mondo, gli americani correrebbon ora tal corso di cose umane, se non fossero stati scoperti dagli europei, e los patacones verranno a queste nostre giuste stature ed umani costumi, se gli lasceranno fare il naturale lor corso. Ci vien riferito, perché non l’abbiam veduto, che ’l padre Lafitó, gesuita, missionario nell’America, ha scritto un’opera assai erudita, De’ costumi de’ selvaggi americani, i quali osserva essere quasi gli stessi che gli antichissimi dell’Asia: onde vuol pruovare che dall’Asia fussero uomini e donne trasportate in America. Ma è troppo duro il poterlo persuadere. E forse egli l’avrebbe lavorato con piú veritá, se noi l’avessimo prevenuto con questa Scienza. Perciò il leggitore il rincontri con questi nostri princípi, ch’auguriamo ch’esso gli truoverá, con tal rincontro, felicemente avverati.

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CONCHIUSIONE DELL’OPERA
Capitolo Primo

[1402] [1101] .... dovevano portare di séguito un’eloquenza robusta e sappientissima. Siccome la coltura della latina volgar favella in Terenzio, che dicesi aver lavorato le sue commedie secondo gli scorti avvisi di Lelio, il romano Socrate, e di Scipione, in cui Roma riveriva una certa divinitá, si osserva tale e tanta, che ’n tutte l’etadi appresso, anco quella che dicesi secol d’oro della lingua latina, non si legge maggiore.

[1403] [1106] .... gli avevano resi fiere piú immani con la barbarie della riflessione che non è la stessa barbarie del senso. Perché, come ne’ tempi della barbarie del senso, cosí la barbarie della riflessione osserva le parole e non la mente delle leggi e degli ordini, con questo di peggio: che quella credeva tal essere il giusto, dal qual fosse tenuta qual suonavano le parole: questa conosce e sa il giusto, con cui è tenuta, essere ciò ch’intendono gli ordini e le leggi, e si studia di defraudarle con la superstizione delle parole. Perciò uomini maliziosamente riflessivi, con tal ultimo rimedio, ch’adopera la provvedenza ....

[1404] [1109] .... La quale Pufendorfio sconobbe con la sua ipotesi, Seldeno suppose e Grozio ne prescindé. Sono quindi innanzi da cacciarsi dalle scuole della giurisprudenza cosí Epicuro col suo «caso» come col lor «fato» gli stoici, come sopra s’avvisò nelle Degnitá; nella quale gl’interpetri quanto molto eruditi, tanto poco filosofi, per boria d’ingegni hanno a forza intruso le sètte stoica ed epicurea. Perché si è appieno dimostrato che i primi governi del mondo ....

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[CMA3]

Capitolo Secondo

Pratica della scienza nuova

[1405] Ma tutta quest’Opera è stata finora ragionata come una mera scienza contemplativa d’intorno alla comune natura delle nazioni. Però sembra, per quest’istesso, mancare di soccorrere alla prudenza umana, ond’ella s’adoperi perché le nazioni, le quali vanno a cadere, o non rovinino affatto o non s’affrettino alla loro roina; e ’n conseguenza mancare nella pratica, qual dee essere di tutte le scienze, che si ravvolgono d’intorno a materie le quali dipendono dall’umano arbitrio, che tutte si chiamano «attive».

[1406] Cotal pratica ne può esser data facilmente da essa contemplazione del corso che fanno le nazioni; dalla qual avvertiti i sappienti delle repubbliche e i loro principi potranno con buoni ordini e leggi ed esempli richiamar i popoli alla loro ἀκμή, o sia stato perfetto. La pratica, la qual ne possiamo dar noi da filosofi, ella si può chiudere dentro dell’accademie. Ed è che ’n questi tempi umani, ne’ quali siam nati, d’ingegni scorti ed intelligenti, dee qui, nel fine, guardarsi a rovescio la figura proposta nel principio; e che l’accademie colle loro sètte de’ filosofi non secondino la corrottella della setta di questi tempi, ma quelli tre princípi sopra i quali si è questa Scienza fondata — cioè: che si dia provvedenza divina; che, perché si possano, si debbano moderare l’umane passioni; e che l’anime nostre sien immortali — e quel criterio di veritá: che si debba riverire il comun giudizio degli uomini, o sia il senso comune del gener umano, del quale Iddio, che non lascia sconoscersi dalle quantunque perdute nazioni, non mai desta loro piú forte riflessione che quando esse son corrottissime. Perché, mentre i popoli sono ben costumati, essi operano le cose oneste e giuste piú che ne parlano, perché l’operano, piú che per riflessione, per sensi: ma, quando sono guasti e corrotti, allora, perché mal soffrono internamente sentirne la mancanza, non parlan d’altro che d’onestá e di giustizia (come naturalmente avviene ch’uomo non d’altro parla che di ciò ch’affetta d’essere e non lo è); e, perché sentono resister loro la religione (la qual non possono naturalmente sconoscere e rinniegare), per consolare le loro perdute coscienze, con essa religione, empiamente pii, consagrano le loro scellerate e nefande

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azioni. Onde sono que’ due orrendi umani fenomeni che si leggono sulla storia di Roma corrotta: uno di Messalina, la qual aveva appo il balordo e scimonito Claudio tutto l’agio, licenza e libertá di sfogare l’intiere notti nel chiasso la sua insaziabil libidine, ma, nel tempo stesso ch’era maritata con l’imperadore, vuol godersi Caio Silio con tutta la santitá e celebritá delle nozze; l’altro è di Domizio Nerone, ch’aveva svergognata la maestá dell’imperio romano col far il musico per gli pubblici teatri, e co’ sagrifici ed augúri e tutte l’altre cerimonie divine volle maritarsi nefariamente a Pittagora.

[1407] Per tutto ciò i maestri della sapienza insegnino a’ giovani come dal mondo di Dio e delle menti si discenda al mondo della natura, per poi vivere un’onesta e giusta umanitá nel mondo delle nazioni. Ciò vuol dire che l’accademie, con tai princípi e con tal criterio di veritá, addottrinino la gioventú che la natura del mondo civile, ch’è ’l mondo il qual è stato fatto dagli uomini, abbia tal materia e tal forma quali essi uomini hanno; laonde ciascuno di essi due princípi, che ’l compongono, sia della stessa natura ed abbia le stesse propietá c’hanno esso corpo ed essa anima ragionevole, delle quali due parti la prima è la materia e la seconda è la forma dell’uomo.

[1408] Le propietá della materia sono d’esser informe, difettuosa, oscura, poltrona, divisibile, mobile, «altro», come Platon la chiama, o sia sempre da sé diversa; e per tutte questa propietá essa materia ha questa natura d’esser disordine, confusione e cao, ingordo di distruggere tutte le forme. Le propietá della forma sono d’essere perfezione, luminosa, attiva, indivisibile, costante, o sia che, quanto piú può, si sforza di persistere nel suo stato, nel qual’è (che è quello onde Platone suol appellarla «l’istesso»); per le quali propietá la natura della forma dell’uomo è d’essere ordine, lume, vita, armonia e bellezza.

[1409] Quindi la materia (ch’è ’l corpo del mondo delle nazioni), per la propietá d’essere informe, sono gli uomini, che non hanno né propio consiglio né propia virtú; per la propietá d’esser difettuosa, sono gli uomini viziosi, perché tutti i vizi altro non son che difetti; per la propietá dell’oscurezza, sono gli uomini i quali traccurano, nonchè la gloria (ch’è un lume grande e strepitoso), anco la lode (ch’è un lume quieto e picciolo); per la propietá d’essere neghittosa ed infingarda, sono tutti i poltroni, dilicati, molli e dissoluti; per la divisibilitá, sono gli uomini che

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non vanno appresso ad altro che alle loro propie particolari utilitá (le quali dividono gli uomini) ed a’ corporali piaceri o sieno gusti de’ sensi (i quali tanti sono quanti son gli uomini); per la mobilitá, sono tutti gli uomini stolti, che sempre si pentono, non mai sono contenti del medesimo, sempre amano ed affettano novitá (che, in una parola, si chiama «volgo», di cui è aggiunto perpetuo quello d’esser «mobile»); per lo disordine e la confusione, sono gli uomini che, per tutte queste propietá della materia, ridurrebbono, quanto è per essi, il mondo delle nazioni al cao de’ poeti teologi (qual è stato da noi truovato essere la confusione de’ semi umani), e ’n conseguenza alla vita bestiale e nefaria, quando questa terra era un’infame selva di bestie.

[1410] Per lo contrario, la forma e mente di questo mondo di nazioni, per la propietá d’esser perfezione, sono gli uomini che possono consigliare e difendere sé ed altrui, che son i saggi e i forti; per l’attivitá, sono gli uomini industriosi e diligenti; per la propietá d’esser luminosa, sono gli uomini che s’adornano privatamente di lode, pubblicamente di gloria; per l’indivisibilitá, sono gli uomini i qual in ciascuna loro azione o professione sono tutti occupati con tutte le potenze e con tutta la propietá: il cavaliere nell’arti cavalleresche, il letterato negli studi delle scienze, il politico nelle pratiche della corte, ciascun artegiano nell’arte sua; per la costanza, sono gli uomini seriosi e gravi; per la propietá d’essere «lo stesso», sono gli uomini uniformi, circospetti, convenevoli e decorosi; e ’n fine, per quelle d’essere ordine, bellezza ed armonia, sono gli uomini che, compiendo ciascuno i doveri del suo ordine propio, cospirano all’armonia e bellezza delle repubbliche e, con tutte queste belle virtú civili, si sforzano di conservare gli Stati. Il quale sforzo non potendo essi celebrare per la loro debole corrotta natura, la provvedenza ha posto tali ordini alle cose umane, che loro il promuovano le religioni e le leggi assistite dalla forza dell’armi. La qual forza incominciò tra’ gentili dalla forza di Giove con le religioni, la quale promosse lo sforzo de’ pochi piú robusti giganti a fondare l’umanitá. Alla qual forza i pochi forti sono tratti per natura e, ’n conseguenza, con piacere, perché promuove loro lo sforzo, ch’è connaturale de’ forti; e i molti deboli vi son tenuti dentro a dispetto, perché non dissolvano l’umana societá. Ch’è lo spirito di tutta quest’opera.

[1411] Cosí, con questi princípi di metafisica discesi nella fisica e quindi per la morale innoltrati all’iconomica, o sia nell’educazione

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de’ giovani, sien essi guidati alla buona politica e con tal disposizione d’animi passino finalmente alla giurisprudenza (la qual perciò noi nella Scienza nuova prima proponemmo alle universitá dell’Europa doversi trattare con tutto il complesso dell’umana e divina erudizione, e ’n conseguenza ponemmo sopra a tutte le scienze), perché i giovani da erudirsi, cosí disposti, apparino la pratica di questa Scienza, fondata su questa legge eterna, c’ha posto la provvedenza al mondo delle nazioni: ch’allora son salve, fioriscono e son felici, quando il corpo vi serva e la mente vi comandi; e sí mostrar loro il vero bivio di Ercole (il quale tutte le gentili fondò): se vogliamo entrare nella via del piacere con viltá, disprezzo e schiavitú loro e delle loro nazioni, o in quella della virtú con onore, gloria e felicitá.

Appendice

Il Fine

[CMA3*]

Exegi monumentum aere perennius

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I [CMA3] Ragionamento Primo

D’intorno alla legge delle XII Tavole venuta da fuori in Roma
[Introduzione]

[1412] Questa legge con la legge regia di Triboniano hanno corso un destino tutto contrario alle due leggi Publilia e Petelia. Perocché quelle han giaciuto finora oscure e neglette, le quali contenevano due mutazioni massime della romana repubblica; e queste han fatto tanto romore d’aver portato due mutazioni massime del romano stato e governo, e non sono giammai state nel mondo. E, con un fato comune ad entrambe, di una, ch’è la legge delle XII Tavole, si è tanto variato circa al luogo dond’ella sia venuta; dell’altra, ch’è la legge regia, si è variato tanto circa il tempo nel qual ella sia stata comandata: talché entrambe fanno l’Omero ch’è stato finor creduto. Del quale primo lume di Grecia la storia ci ha lasciato al buio d’intorno alle due sue piú importanti parti, che sono la cronologia e la geografia, e per lo tempo di quattrocensessant’anni ogni etá l’ha voluto suo contemporaneo; e sí, per la ragione del noverare geanologica, ne han fatto da presso a quattordici Omeri, e, per lo luogo, ogni cittá della Grecia avendolo voluto suo cittadino, ne han fatto Omeri senza numero.

[1413] Noi, in questo primo ragionamento, che sará d’intorno alla legge delle XII Tavole, ragioneremo di sette cose:

I. di esso fatto qual si racconta;

II. degli storici che ne scrissero;

III. degli autori i quali non la credettero;

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IV. de’ danni c’ha fatti alla scienza del diritto, governo, istoria ed alla giurisprudenza romana;

V. dell’utilitá che ci ha intercettato d’intorno a’ princípi della scienza di questo mondo di nazioni;

VI. del vero che diede occasione e durata a sí fatta tradizione volgare;

VII. e finalmente de’ motivi onde tal vero restò seppellito tra tanto falso.

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[Capitolo Primo]
D’intorno al fatto qual si racconta

[1414] Con tal fatto, qual si racconta, tutti gli eruditi al popolo principe del mondo per virtú e per sapienza, circa i princípi della sapienza han fatto un onore corrispondente all’altro che gli han fatto circa i princípi delle virtú. Ché, come per la virtú, l’han fatto venire da’ troiani, che fu una gente vinta e vagabonda; cosí, per la sapienza, come brutta ciurma d’eslegi venuti dall’infame vita ferina, gli han fatto andare vagabondi per le nazioni, cercando leggi da ordinare la loro repubblica, le quali tanto sappientemente seppero con l’interpetrazione custodire sopra que’ popoli i quali (lo che era stato piú) avevan avuto la mente di ritruovarle. E, da quarant’anni dopo essa legge venuta da Grecia oltramare — che i tarantini, greci d’Italia, non sapevano chi fussero i romani e donde fussero venuti ad approdare a’ loro lidi (la qual ignoranza fu la cagione di quella guerra), — tanto, non solo per la Grecia oltramare, ma anco per l’Asia, era celebre la fama di Roma, che da Efeso (magnifica cittá capitale dell’Ionia, che fece pompa del templo di Diana efesia, una delle sette maraviglie del mondo) Ermodoro, per consolarne l’esiglio, si eleggé Roma, che ancor non sapeva cosa fusse libero viver civile. A cui Eraclito, dal diserto dove se n’era ito a fare l’esiglio suo, per le poste per le quali aveva fatti tanti e sí lontani viaggi per tutta la terra Pittagora, scrive la ridevolissima lettera ad Ermodoro, la quale dagli eruditi si rapporta per uno de’ grandi elogi di lode dati alla legge delle XII Tavole, e con essolui si rallegra di avere sognato che tutte le nazioni del mondo venivano ad adorare le di lui leggi. La qual lettera è veramente un sogno, che rovina essi pareggiatori del diritto attico col romano che lo rapportano, perché ella fa Ermodoro autore di quella legge, della quale fu traduttore; ch’è un’adulazione indegna di un tanto filosofo a dirla e di un sí saggio e veloce principe d’ascoltarla, i quali Strabone riputò tanto, che stima gli efesi tutti degni d’essere strozzati infin all’ultimo per aver dato l’esiglio a tal’uomini. Dipoi i pareggiatori, onde credono

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di sostenere tal favola, indi le fanno sopra cader la rovina; perché, se, per buona ventura, a capo di tre anni che stiede fuori l’ambasciaria per le leggi, non si ritruova vivo Ermodoro in Roma che gliele interpetri, i romani non sanno essi che fare delle leggi greche, le quali si avevano portato dentro delle balici. Non sono queste inezie piú ridevoli di quelle che d’intorno a questo fatto istesso racconta la Glossa del pazzo romano e del filosofo ateniese, posti a disputare tra loro d’intorno alle piú alte veritá rivelate della nostra santa religione, le quali noi qui ci vergognamo di riferire?

[1415] Né i pareggiatori si salvan punto perocché Pomponio giureconsulto faccia Ermodoro, non interpetre, ma autor del consiglio a’ romani donde essi potevano mandare a domandare le leggi. Perché questo sarebbe stato un fatto somigliantissimo a quello d’Anacarsi scita, ricolmo d’innarrivabil sapienza barbaresca che dice l’Ornio; e, ritornato dalla Grecia nella sua Scizia, volendo addimesticare con le leggi quella barbara nazione, non le seppe esso trovar da sé con la filosofia barbaresca dell’Ornio, e, volendola ordinare con le leggi di Grecia, funne ucciso dal re Caduido, suo fratello. Cosí Ermodoro, principe di tanta virtú e sapienza, non seppe da sé dar le leggi a’ romani per ordinare tra essoloro la popolar libertá, e, come un viaggiatore mercadante, dá loro la notizia da quali cittá libere di Grecia potessero andarle a domandare.

[1416] La statova poi d’Ermodoro, che scrive Plinio essersi veduta a’ tempi suoi nel comizio, è da porsi nel museo dell’ignorante credulitá, insieme con la colonna dell’osservazioni celesti avantidiluviane mostrata a Giuseffo nella Siria, col treppiedi da Esiodo consagrato ad Apollo nel monte Elicona, con le statove di Laomedonte e Laocoonte iscritte con lettere volgari, che si videro per la Grecia (le quali antichitá sono state tutte da noi sopra confutate), e con tutte quelle de’ tempi barbari ricorsi, le quali tuttavia dal volgo delle cittá, ove si sono immaginate, si dimostrano agli stranieri: come presso l’antica Cuma la grotta della sibilla cumana, nel capo di Pausilippo la scuola dove Virgilio insegnava d’arte poetica, e in Napoli, in San Giovanni Maggiore, il sepolcro della sirena Partenope col segno della santa croce e iscritto con lettere gotiche.

[1417] Ora scorriamo brievemente esse tavole, e vediamo che diritto ateniese vi fu trapportato.

[1418] Nella tavola prima v’ha un capo: che «’l pretore abbia ferma la transazione della lite fatta tra ’l reo e l’attore mentre questo

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menava quello da lui»; e Demostene, nell’orazione contro Panteneto, recita questa legge di Solone. Come se non l’avesse insegnato a tutte le nazioni la ragion naturale che si osservino i patti almeno per la difesa, la quale è da essa natural ragione dettata! 1. — In un altro capo: ch’«al tramontare del sole terminassero i giudici di conoscere le cause»; e Samuello Petito osserva che gli arbitri in Atene conoscevano le cause fin alla sera. Ma ogniun sa che tutti gli antichi infin a sera attendevano a’ negozi, e che poi andavano a’ bagni, e appresso cenavano: onde di essi le cene si leggono e non gli pranzi.

[1419] Nella tavola seconda: che «’l ladro di notte in ogni modo, quel di giorno se si difendesse con armadura, fusse lecito uccidere»; la qual legge di Solone recita Demostene contro Timocrate. Ma questa fu anco legge giudiziaria degli ebrei, come osserva Rufino, pareggiatore delle leggi romane con le mosaiche; talché dovette Solone portarla agli ateniesi da Palestina.

[1420] Nella tavola ottava: che «i collegi delle arti non facciano leggi contrarie alle pubbliche»; e Samuello Petito e Claudio Salmasio ne rincontrano una legge di Solone. Perché, certamente, può vivere una repubblica nella quale i corpi dell’arti combattono con lo Stato!

[1421] Nella tavola nona: che «i giudizi criminali non sieno ordinati con leggi singolari»; e Giacomo Gotofredo ne ritruova una simile di Solone. Ma troppo di tempo vi volle che Lucio Silla con leggi criminali universali ordinasse le quistioni perpetue.

[1422] Nella tavola decima, per Giacomo Gotofredo, si proibisce il lusso de’ funerali; e Cicerone osserva che i decemviri il vietarono quasi con le stesse parole con le quali l’aveva proibito Solone. Perché se n’era introdutto in Roma il lusso alla moda greca: altrimenti, che sapienza sarebbe stata d’insegnarlo vietando? Lo che avvenne molto dopo questi tempi, e, per gli nostri princípi della logica poetica, ne fu appiccata cotal legge a’ decemviri.

[1423] Del gius prediatorio dice Gaio giureconsulto ch’i romani avevano una legge arbitraria ad esemplo d’una attica di Solone. Il qual gius era tanto tenuto a vile, che Quinto Muzio Scevola,

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principe de’ giureconsulti della sua etá, ove n’era domandato, mandava per le risposte i litiganti a Furio e Cascellio prediatori, ch’erano com’oggi sono i tavolari del nostro Sacro Regio Consiglio.

[1424] Di queste ed altre poche leggieri cose vennero le leggi da Atene in Roma, per comporre la gran contesa della plebe co’ padri, che per sedare, fu bisogno di cangiare la forma del governo e criare i decemviri, i quali la comandassero.

[1425] Ma, per Dio! vedemmo in quest’opera tutti gli ordini necessari allo stato monarchico essere stati osservati da Gian Bodino gli stessi affatto in sostanza tra gli ebrei, romani, turchi e francesi, e sol variare nel suono delle parole di tai quattro lingue diverse; né pertanto la legge regia di Samuello, con la quale per ordine di Dio fu Saulle ordinato re, fu portata d’una in altra all’anzidette nazioni.

[1426] Però questo pur è un ragionare da’ simiglianti. Prendiamo dalle viscere di essa cosa le pruove.

[1427] Essi pareggiatori attici non rincontrano le leggi di Solone con niuna di tutte quelle che fanno il maggior corpo del diritto romano, le quali sono d’intorno al connubio, alla patria potestá, alla suitá, agnazione, gentilitá, alle quindi provenienti successioni legittime, all’usucapione, alla mancipazione e stipulazione, le quali entrambe davano la forma a tutti gli atti legittimi, co’ quali i romani, fussero o tra vivi o nell’ultima volontá, celebravano tutte le loro civili faccende. I quali, perché nel Diritto universale si sono ridutti ad un’esatta divisione e spiegati con la loro propietá, ci piace qui rapportare.

[1428] Namque actus legitimi, de quibus neque lex decemviralis, neque lex ulla regia, neque consularis, neque tribunicia concepta est, sunt formulae agitandi romani iuris, a gentibus minoribus inventae, ad ius nexi mancipiique in legis XII Tabularum defluxum accommodatae; quos, a Papiniano confusim strictimque numeratos, sic omnes diggesseris et explicaveris. Ii autem sunt: manumissio, adoptio, tutoris datio, testamenti factio, cretio, optio, mancipatio, nexus traditio, acceptilatio, in iure cessio. Iis enim acquiritur vel potestas in se; idque agebatur vel manumissione, eaque vel una et vera, si servus, sin liber nempe filiusfamilias, trina et imaginaria; — vel acquiritur potestas in alios; eaque vel in uxores et filios, idque agebatur iustis nuptiis, vulgo per conventionem in manum, inter sacerdotes autem coëmptione et farre, quae utraque erat species mancipationis; — vel acquiritur potestas in filios tantum,>

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idque agebatur adoptione; vel in servos, quod utrumque agebatur mancipatione; nempe hominum liberorum simulata, servorum vera; — vel acquiritur potestas in pupillos; idque agebatur tutoris datione; — vel acquiritur dominium rerum per universitatem, et agebatur testamenti factione per aes et libram, quae mancipatio quaedam erat (unde «familiae venditor» et «familiae empor» dicti); cui successit postea testamentum praetorium (inventa scriptura vulgari), uti ante legem XII Tabularum erat testamentum calatis comitiis, et ea acquisitio fiebat cretione, cui postea successit deliberatio, demum aditio; — vel acquiritur dominium rerum singularium ex ultima voluntate, idque agebatur rei legatae optione (praeter autem eam caussam, cetera legata cretione heredis legatariive acquirebantur); — vel acquiritur dominium rerum singularium inter vivos, et tunc id mancipatione et nexus traditione agebatur; alioqui usucapione opus erat anni vel biennii, prout res mobilis erat vel soli, et usucapio tunc erat dominii adiectio, qua dominio bonitario, acquisito ex naturali traditione, adiiciebatur dominium ex iure Quiritium usucapione; — vel acquiritur obligatio ex contractibus aut pactis, et in stipulationem erat transfundenda, quae postea acceptilatione tolleretur; — vel postremo acquiritur dominium adiudicatione, idque agebatur cessione in iure. Quapropter tales fuere, non alii, quia vel ad acquirendum vel ad solvendum alienandumve sive potestatem sive dominium sive obligationem iure optimo pertinebant; ideo nec plures nec pauciores, quia iis omne acquisitionis, solutionis et alienationis negotium iure optimo transigebatur>.

[1429] Ora qui diamo a’ pareggiatori attici questa miserevole elezione: qual essi piú tosto vogliono delle due, se tutte queste leggi sieno state native del Lazio, o sien venute da Grecia. Se rispondon il primo, sono perduti, perché su queste leggi, donde era nato, crebbe in casa e si formò tutto il vasto corpo del diritto romano. Se rispondono il secondo, qui si veda, d’uomini per altro in erudizione chiarissimi e valenti critici degli scrittori, che cimmeria grotta di tenebre è la loro memoria, ond’esce una densissima notte di errore, ch’ingombrava loro l’intendimento! che mostro di assurdezza si nasconde nella lor fantasia (come sopra dicemmo di tutt’i critici sí fatti, nell’incominciar i princípi di questa Scienza)! che, senza niuna di quelle leggi le quali regolano l’iconomiche e civili faccende degli uomini, fanno viver i romani fin al trecento e tre di Roma, dentro il qual tempo avevano ingrandito un potente regno nel Lazio! Lo che non può farsi ragionevole che con la giustizia del secolo dell’oro, con la qual Ermogeniano ci disse in quest’opera essersi dapprima divis’i campi e custoditi i termini fino

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che venissero le cittá, e che perciò i romani fussero stati gli eroi del mondo perché serbarono la giustizia dell’etá dell’oro fino che le leggi vi fussero portate da Atene! Ma — cotesto eroismo galante avendo noi in questi libri dimostrato esser una fola, una vanitá, e fattala veder sulla storia romana certa, dentro il tempo di cotesta finor cotanto ammirata romana virtú (stabilito da Livio fin alla guerra con Pirro, piú disteso da Sallustio fin alle guerre cartaginesi), co’ superbi, avari e crudeli costumi de’ nobili contro la povera plebe romana, — essi pareggiatori, ove credono di sporre i romani in comparsa di semidei, ne vanno a fare gli eslegi della vita bestiale e nefaria; onde debbono i deboli piú tosto esser ricorsi in Atene a salvare le loro vite dagli empi violenti di Obbes all’altare degli infelici di Teseo (com’abbiamo sopra spiegato) che all’Areopago per aver le leggi da ordinare la loro popolar libertá. Oltreché, qual libertá popolare era da ordinarsi in quella cittá, nella quale fin al trecento e nove (ch’è tanto dire quanto sei anni dopo esser venuta cotal legge da Atene) la plebe romana non era di cittadini, i quali lo ’ncominciaron ad essere col comunicarsi loro da’ padri il connubio, come sta pienamente in questi libri pruovato? E sono essi pareggiatori necessitati di convenirvi, i quali, dopo avere con minuta diligenza nelle [prime] dieci tavole ripartito le leggi confaccenti alla libertá popolare, e particolarmente la testamentaria (per la quale vedemmo sopra che Agide, re di Sparta, repubblica aristocratica, perché voleva comandarla a pro della plebe spartana, funne fatto impiccare dagli efori), [rapportano la legge che vieta ai plebei i connubi coi padri]. La qual legge Giacomo Gotofredo rapporta nella tavola undecima, in quel capo: «Auspicia incommunicata plebi sunto», e la rapporta in una delle due ultime, nelle quali conferirono molte delle leggi regie e molte romane costumanze. Perché la romana storia narra apertamente che Romolo aveva con gli auspíci fondato Roma, de’ quali auspíci noi per tutti questi libri abbiamo ad evidenza dimostrato essere state dipendenze tutte le parti del diritto cosí privato come pubblico de’ romani. E ’n conseguenza tutto il diritto civile romano in quel capo chiudesi dentro l’ordine de’ nobili; e cosí, d’una repubblica nelle prime dieci tavole ordinata popolare, con tal capo solo della tavola undecima, la fanno tutto ad un tratto severissima aristocratica.

[1430] Non diciamo quanto sapesse del buon gusto ateniese quel capo: che «’l reo infermo, citato, egli sull’asinello o dentro la carriuola comparisse innanzi al pretore»! quanto esprimeva della dilicatezza

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dell’arti greche l’azione «Tigni iuncti», come se allora gli uomini cominciassero a farsi le pergole e le capanne! di quant’acutezza di greco ingegno sfolgori quella coppia di pene duplio e talio, che Radamanto, per aver ritruovato questa del taglione, o sia del contrapasso, ne fu fatto giudice nell’inferno, dove certamente si distribuiscono pene; la qual pena Aristotile ne’ Libri morali chiama «giusto pittagorico». Tanto Pittagora sul principio fu saccente di mattematica!

[1431] Di che abbiamo sopra ragionato alquanto: ora ne diremo questo di piú. Che cosí dovette procedere questa istoria d’umane idee d’intorno alle due proporzioni: che gli uomini prima intendessero il peso, il quale si estima con le forze, c’han pur troppo di corpolenza: ond’è a’ latini «pendere», «expendere» per «giudicare», ed Astrea nella storia eroica se ne descrive in cielo con la bilancia; — dipoi s’intese misura, che si estima con la vista, la qual ha piú dello spirito: ond’è a’ latini «arbitrari», che significa «spectare», come da Plauto si dicono «arbitri» gli spettatori della commedia, e n’abbiamo la frase «remotis arbitris», «sgombrati coloro i quali ne possano star a vedere» (il qual antichissimo costume eroico i romani serbarono ne’ senaticonsulti che dicevano farsi «per concessionem» o «discessionem», perocché, con lo star a vedere la quantitá de’ senatori, i quali «pedibus ibant» nella parte di quello ch’aveva detto il parere, estimavano gli piú o meno che stassero da quella parte); — finalmente s’intese il numero, il qual è astrattissimo, tanto che se ne disse l’«umana ragione». Quindi prima intesero proporzione aritmetica, perché si contiene entro tre termini (per cagion d’esemplo: come quattro è a sei, cosí è sei a dieci, onde sei è ’l mezzo di due e dieci: per lo che si prendano i due numeri avvanzato due ed avvanzante quattro e se ne faccia altro sei, che fa l’altrettanto); laonde in tali tempi ogni giustizia, cosí distributiva (a cui certamente s’appartengono le pene) come commutativa, procedeva con la proporzione aritmetica, che faceva l’equitá civile considerata dalla giurisprudenza antica; e cosí, per cagion d’esemplo, si aveva a cacciar un occhio a uno, quantunque nobile, per l’occhio che questi aveva cacciato ad un vilissimo plebeo. Dappoi s’intese proporzione geometrica, perché è infra quattro termini (per cagion d’esemplo: come uno è a tre, cosí quattro è a dodici). E vennero i filosofi e stabilirono dalla commutativa l’aritmetica e dalla distributiva doversi usare la geometrica proporzione.

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[1432] Finalmente a’ tempi de’ Platoni, degli Alcibiadi, de’ Senofonti, ne’ quali Atene sfolgorava della piú civile e colta umanitá (come il proponemmo nella Tavola cronologica e l’avvertimmo nelle di lei Annotazioni), si porta in Roma la legge delle XII Tavole, tanto rozza quanto si è veduto del debitore infermo obbligato a comparire sull’asinello o dentro la carriuola innanzi al pretore; tanto incivile, che, se ricusasse il reo di venire dal pretore, il creditore allora obtorto collo lo vi strascinasse; tanto immane, crudele e fiera, che chi a bella posta avesse appiccato il fuoco alle biade altrui fusse bruciato vivo; che ’l falso testimone e ’l giudice, che per froda giudicasse ingiustamente, fusse precipitato dal monte Tarpeo; che chi mietesse o pascolasse l’altrui biade ed erbaggi di notte, fusse appiccato (la qual Plinio riprende che piú gravemente punisca costui che chi abbia ucciso un uomo); e finalmente che ’l debitore fallito si segasse vivo e che i brani se ne dassero a’ creditori, siccome Romolo aveva punito uno re suo pari, Mezio Fuffezio, che gli aveva fallito la fede dell’allianza (la qual legge appo Aulo Gellio fa orrore al filosofo Favorino). Le quali tutte sono leggi degne di venire dalle grotte de’ polifemi, sparse per sotto i monti della, ne’ suoi primi antichissimi tempi, fiera e selvaggia Sicilia, non dalla cittá la quale, in questi tempi, in buon gusto era la piú riputata del mondo.

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[Capitolo Secondo]
De’ primi storici che n’hanno scritto

[1433] Tal è esso fatto: veniamo agli storici i quali prima di tutt’altri ne scrissero. Eglino sono due: Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso, i qual’entrambi vissero a’ tempi d’Augusto. De’ quali Livio scrive (reciteremo le sue parole) che «tribunorum aequandae libertatis desiderium patres non aspernabantur», e funne mandata l’ambasciaria, la qual portò in Roma le leggi. Dionigi, meglio di Livio informato, siccome colui che scrisse la sua Istoria istrutto delle memorie antiche, le quali ne serbava Marco Terenzio Varrone, comunemente acclamato «il dottissimo delle romane antichitá», scrive che, ritornata l’ambasciaria, i consoli di quell’anno, Caio Menenio e Publio Sestio, diedero mille remore e presero mille pretesti per non far comandare le leggi, e che, Sestio finalmente avendone riferito in senato, vi furono de’ senatori i quali erano di parere che si dovesse seguitar a vivere con le consuetudini e che non fusse mestieri che la cittá governassesi con le leggi. Di piú i consoli in quell’anno intimarono piú prestamente del solito le ragunanze consolari per liberarsi dalle moleste istanze de’ tribuni della plebe, e per l’anno appresso disegnarono uno de’ consoli Appio Claudio, d’una famiglia superbissima e (per dirla con esso Livio) sempre fatale a’ tribuni ed alla povera plebe (la qual, com’era nobilissima, cosí osservava il giuramento eroico, che dice Aristotile, d’esser eterna nimica a’ plebei); e che, dopo essere stati i consoli designati, Menenio e Sestio non diedero piú orecchio a’ tribuni, i quali, cosí bruttamente del loro desiderio falliti, non avevano dove voltarsi. Talché i custodi della romana libertá furono necessitati di ricorrere ad esso Appio, d’una casa (per dirla con Livio altresí) imperiosissima (finché pur finalmente giunse, presso a cinquecento anni dopo, nella persona di Tiberio Nerone, ad esser signora dell’imperio romano), e, per usare l’espressione di che esso Dionigi si serve, «gli offerirono la potenza», con la quale nell’anno appresso proruppe nella tirannide, e difatto i decemviri ne furono «diece tiranni» appellati. Queste cose sono narrate da Dionigi

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d’Alicarnasso. Per le quali apertamente si vede quanto benignamente i padri avevano dato orecchio alla pretensione de’ tribuni di «adeguare (come Livio dice) la libertá», che vi dovetter avvenire de’ grandi mutamenti e rivolte, talché fu d’uopo di mutarsi la forma dello Stato e criarsi un maestrato sovrano di dieci, tra’ quali entrato, Appio Claudio (perché i potenti ambiziosi, per una degnitá sopraposta, col promuover le leggi si fanno la strada alla tirannide) finalmente fecela comandare!

[1434] Ora — poiché questi due soli sono gli piú antichi autori i quali scrivono di tal fatto, e ne scrivono presso a cinquecento anni dopo, e sono cotanto tra essoloro contrari; — e i romani, nazione ch’attese alla villereccia ed alla guerra, non ebbero il privilegio, che non poteron aver i greci, nazion di filosofi, i quali infin al tempo del padre di Tucidide, il quale fiorí ne’ tempi piú luminosi di Grecia, essi non seppero nulla delle loro propie antichitá; — e, oltre di ciò, questi due autori avendoci lasciati incerti d’una delle due cose piú importanti alla storia, ch’è la geografia; ond’è venuta tanta varietá d’oppenioni, ch’altri l’han fatto venire da altre cittá del Lazio, e nominatamente dagli equicoli (forse indutti a crederlo dalla voce di «coltivatori dell’equitá»), altri da altre cittá d’Italia, Triboniano nell’Istituta la fa venire e da Atene e da Sparta; e tutto ciò perché i due primi autori non si accordano in questa parte (faccendola Livio venire da Atene ed altre cittá della Grecia; al contrario Dionigi la fa anco venire da altre cittá greche d’Italia, lasciata Sparta tralle cittá della Grecia, dalla qual sola meglio s’arebbe fatta venire che da Atene, poiché Platone ed Aristotile riprendevano le leggi spartane di troppa rozzezza e severitá): onde Tacito, scrittor avvedutissimo, per non esser còlto di falso, si pone al coverto e generalmente dice che fu una raccolta delle piú scelte leggi del mondo; — per tutto ciò, piú sano consiglio è di non credere né all’uno né all’altro, e tanta fede prestarne agli scrittori i quali tanto variamente ne scrissero appresso, quanto, per le ragioni critiche anzidette, essi primi autori ne meritano.

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[Capitolo Terzo]
Degli autori i quali non la credettero

[1435] Veniamo or agli autori i quali non la credettero. Questi furono altresí due contemporanei di Dionigi e di Livio, anzi di questi alquanto piú vecchi. Uno è Marco Terenzio Varrone, celebrato per filologo dottissimo delle romane antichitá; l’altro è Cicerone, senza dubbio acutissimo filosofo e sappientissimo principe di quell’immortale repubblica.

[1436] E primieramente Varrone non credette tal favola, il quale lavorò la sua grand’opera Rerum divinarum et humanarum de’ romani ragionandola per origini tutte natie del Lazio e che nulla traessero dalla Grecia, e n’ebbe il gran motivo dall’osservare la legge delle XII Tavole conceputa con tanta latina eleganza nativa, che nulla odorava di greco. La qual nostra congettura ci vien confermata da un greco scrittore medesimo, Diodoro sicolo, il quale dá questo giudizio della frase di cotal legge: ch’«ella è vergognosa (per bellamente significare che poco dice e molto intende, la qual è virtú di lingua intelligente) e, con tutto ciò, differisce a tutto cielo dalla maniera greca di favellare». Tanta scienza ebbe di lingua latina Ermodoro, il quale la tradusse, che anche ritruovò, in questa straniera, voci ch’essi greci confessano non aver con ugual eleganza nella loro nativa, come Dion Cassio dice della parola «auctoritas» (la quale da noi si è dimostro contenere tutto l’affare di quella legge), perocché, quantunque ella venga da αὐτός/ (come sopra si è da noi dimostrato), però non è nuovo né rado che le nazioni prendono da altre l’origini delle voci, e poi le piegano e le stendono a’ significati che le lingue originarie non hanno.

[1437] Ma il luogo di Cicerone in uno degli aurei libri De oratore, i quali scrisse nella sua etá piú matura con una maravigliosa senil prudenza (il qual luogo è volgatissimo a tutti gli anco mediocremente eruditi), il quale gli adornatori della legge delle XII Tavole ne arrecano per una piú luminosa testimonianza di lode, egli turba affatto e confonde tutti cotesti pareggiatori del diritto attico col romano. Noi l’adorneremo, recitandone le parole. Egli, sotto

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la persona di Marco Crasso l’oratore, ch’esso medesimo chiama «il romano Demostene», parla cosí:

[1438] Fremant licet, dicam quod sentio [bisogna che i letteratuzzi grecanti, che dovevano far una gran turba, fussero troppo interessati di cotal favola]: bibliothecas, mehercule, omnium philosophorum [i quali non seppero far Grecia signora di Roma, e forse fecero che Roma fusse signora e di Grecia e del mondo] unus mihi videtur XII Tabularum libellus, siquis legum fontes et capita viderit> [le quali fonti e sorgive fecero poi, con l’interpetrazione, il grande regal fiume, anzi l’ampio mare di tutto il diritto romano], et auctoritatis pondere [di quell’autoritá di cui noi abbiamo in questi libri ragionata la filosofia] et utilitatis ubertate [la qual produsse il maggior imperio del mondo, come sta in quest’opera pienamente pruovato] superare. Percipietis etiam illam ex cognitione iuris laetitiam et voluptatem, quod quantum praestiterint nostri maiores prudentia ceteris gentibus [ecco i romani anteposti, con merito di veritá, nella civil sapienza a tutte l’altre nazioni dell’universo, e sí generalmente niegato che da alcuna nazione straniera venne la legge delle XII Tavole a’ romani], tum facillime intelligatis, si cum illorum Licurgo [quindi Cicerone scende al particolare de’ greci, e niega cotal legge esser venuta da Sparta, di cui era stato legislatore Licurgo], Dracone et Solone [or la niega altresí venuta da Atene, a cui prima Dragone e poi Solone avevano dato le leggi] nostras leges conferre volueritis. Incredibile enim est quam sit omne ius civile, praeter hoc nostrum, inconditum ac pene ridiculum [perocché ogni altro non reggeva sopra un sistema, sia stato anco appo gli ateniesi, appo i quali quelli che si chiamavano «pramatici» facevano professione non di altro che di conservar i zibaldoni delle leggi fatte in vari tempi in quella repubblica e tenerle a memoria per prontamente somministrarle agli oratori nelle cause, le quali consistevano in articoli di ragione, senza averne né gli uni né gli altri alcuna scienza di princípi; perciocché i filosofi perciò forse non applicarono a meditarvi, onde i sofisti con troppo di ardire si presero a trattare questa difficil provincia e dar precettuzzi ridicoli di ragionar le cause, le quali da essi di «stati legali» sono appellate]. De quo multa soleo in sermonibus quotidianis dicere, cum hominum nostrorum prudentiam ceteris hominibus et maxime graecis antepono [ed ecco finalmente che Cicerone anco la niega venuta dalle cittá greche d’Italia].

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[1439] E certamente egli non per altro (e crediamo d’apporci al vero) fa, solamente in questa giornata, intervenirvi Quinto Muzio Scevola, veneratissimo principe de’ giureconsulti della sua e forse di tutte l’altre etá, se non perché, essendo allora divise le professioni di giureconsulto e d’avvocato, e dovendo Marco Crasso, ch’era avvocato, non giureconsulto, ragionare d’intorno alla giurisprudenza ed alle leggi, e particolarmente contro cotal favola della legge delle XII Tavole venuta da Atene, perché, per le due borie e delle nazioni e de’ dotti, n’erano troppo comunemente i romani persuasi (che Dionigi e Livio, dovendo seguire, com’è obbligazione degli storici, le comuni persuasioni de’ popoli de’ quali scrivono, e riserbar a’ critici il giudicarne la veritá, rapportarono cotal favola nelle loro storie), acciocché ne fusse con rispetto ricevuta la riprensione, finge esservi stato presente Quinto Muzio: il quale, se Crasso avesse detto delle leggi alcuna cosa con errore, egli ne l’arebbe senza alcun dubbio ripreso; siccome, appresso Pomponio, ne riprese questo istesso Sulpizio il quale in questi ragionamenti interviene e interloquisce, ché, non avendo inteso una sua risposta ad un dubbio di ragione che questi gli aveva proposto, gli disse quelle gravi parole: «turpe esse patricio viro ius, in quo versaretur, ignorare».

290 ―

[Capitolo Quarto]
De’ danni che cotal favola ha arrecato alla scienza
del diritto, governo, istoria
ed alla giurisprudenza romana

[1440] I danni poi, che tal favola ha cagionato alla scienza del diritto governo, istoria ed alla giurisprudenza romana fin a questo tempo, sono stati gravıssimi e senza numero.

[1441] E primieramente cotal favola ha danneggiato la scienza del diritto romano; perché, essendo ogni diritto civile composto parte d’un diritto comune a tutte le nazioni e parte propio di ciascheduna cittá (e quello è ’l diritto naturale delle genti, e questo diritto civile), ci ha fatto sembrare il diritto romano non esser composto né dell’uno né dell’altro, ed esser tutto un diritto particolare straniero; anzi, con una brutta perversitá, il diritto civile romano ci ha rappresentato per un diritto comune a’ romani con l’altre nazioni, e ’l diritto attico (il quale pur doveva essere mescolato del diritto natural delle genti, introdutto tra gli ateniesi con essi naturali costumi) ha sposto in comparsa d’un diritto tutto civile, comandato a’ romani con le leggi. Il qual errore è nato dalla boria cosí de’ greci d’aver essi disseminata l’umanitá per lo mondo, come de’ romani di vantare romorose origini, tanto della loro gente da Enea troiano quanto della loro sapienza dal principe della sapienza greca e capo de’ sette sappienti, Solone; la qual boria di nazioni è stata fomentata dalla boria de’ dotti, i quali tutto ciò ch’essi sanno, dicono aver origini sappientissime fin dagli piú antichi tempi del mondo (come dell’una e dell’altra ne proponemmo tralle prime, due degnitá).

[1442] Ha nociuto alla scienza del romano governo; perché, uscendo i governi dalla natura de’ popoli governati, e ’l governo romano essendo uscito da questa legge, ha fatto credere il regno romano essere stato monarchico e la libertá ordinata da Bruto essere stata popolare, che con tal legge la plebe la volesse adeguata poi con le leggi. Ma noi a mille pruove per tutta quest’opera abbiam

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dimostro il regno romano essere stato aristocratico, e la libertá ordinatavi da Bruto essere stata signorile.

[1443] Ha svisato la scienza della romana storia; perché, i fatti pubblici uscendo da’ governi e i governi uscendo dalla natura di essi popoli governati, vedemmo sopra Gian Bodino perdersi col suo sistema politico, osservando i fatti degli antichi romani essere stati di repubblica ch’era di Stato nonché di governo aristocratica.

[1444] Finalmente ha danneggiato alla romana giurisprudenza, oscurandole la dovuta gloria d’essere stata la cagione di tutta la romana grandezza; perché, se gli Stati s’ingrandiscono con lo star fermi sui loro princípi, la giurisprudenza principalmente fece grandi i romani, la quale religiosamente custodí i loro costumi, co’ quali fu dapprima fondata; e poi, essendo tai costumi passati e fissi in leggi nelle tavole, l’interpetrazione, fil filo co’ passi piú corti e piú tardi conducendole alle nuove nature, costumi e governi i quali vennero appresso, le tenne ferme incontro al corso, sempre andante a cangiarsi, che fanno nella loro vita le nazioni. La qual fu la fortuna cagione della romana grandezza, la quale non seppe veder Plutarco; onde Torquato Tasso poteva confutarlo nella Risposta: perché tal forma fu pur effetto della romana virtú, cosí della magnanimitá della plebe di volere le leggi scritte in tavole, come della fortezza de’ padri nel custodirle e sapienza nel ministrarle. Per le quali cagioni, siccome la piú eccellente al mondo fu la romana giurisprucdenza, cosí fu sola al mondo la romana virtú, dalla quale provvenne sola al mondo la romana grandezza.

292 ―

[Capitolo Quinto]
Dell’utilitá che ci ha intercettato d’intorno alla scienza
de’ princípi del mondo delle nazioni

[1445] Cotal favola ne ha finor intercettato la grande utilitá d’aver la scienza, la qual finor ha mancato, d’intorno a’ princípi di questo mondo di nazioni, perché a tutti i dotti non ha fatto ravvisare che quella era un grande veritiero antichissimo testimone del diritto naturale delle genti del Lazio, le quali pur erano incominciate in Italia dall’etá di Saturno. E la perpetuitá de’ costumi n’è stata interrotta dalle due favole: una d’Enea fondatore del regno d’Alba, la qual è stata da noi sopra in questi libri confutata; l’altra di questa legge venuta di Grecia; e, come quello i troiani, cosí questa vi avesse introdutti i greci costumi. Onde questa legge ha corso l’istesso destino che ha corso Omero: ché, come, perché questi è stato finor creduto un particolar uomo valentissimo in eroica poesia, ch’avesse finto di getto quanto egli canta, non si è saputo che i suoi poemi erano due grandi testimoni del diritto delle genti di Grecia, siccome per un intiero di questi libri da noi pienamente si è dimostrato; cosí, perché questa legge è stata finor creduta tutta ad un colpo comandata a’ romani, non si è saputo ch’ella era un gran testimone del diritto naturale delle genti del Lazio.

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[Capitolo Sesto]
Del vero che diede occasione e durata a sí fatta
volgare tradizione

[1446] Ora, per la legge, che ci abbiamo proposta ed osservata per tutta quest’opera, di non disprezzar punto le volgari tradizioni, ma d’investigarne il vero che loro diede motivo di pubblicamente nascere e conservarsi, e di spiare le cagioni onde poi ci sono venute ricoverte di falso, diciamo che ’l vero, come sta dimostrato in questi libri, e nel secondo particolarmente, fu che in tal contesa non si trattò d’altro che ’l contenuto in questo capo: «Forti sanate nexo soluto idem sirempse ious esto», il qual «forte sanate prosciolto dal nodo» in una preziosissima scheda del gran Fulvio Ursino si truova essere lo straniero ridutto all’ubbidienza; la qual erudizione, per gli princípi che lor mancavano di questa Scienza, mal usando gli adornatori di cotal legge, han detto che per questo capo fu data la cittadinanza a’ soci latini, prima rivoltati e poi venuti di nuovo all’ubidienza de’ romani. E sí hanno con troppo di errore creduto la plebe romana aver fatto tante mosse e rivolte quante la storia ne racconta, perché si dasse a’ latini quella cittadinanza la quale in tali tempi non avevano essi, come sta pienamente da noi pruovato in quest’opera, e che i nobili, in quella loro severissima aristocrazia eroica, a quelli l’avessero conceduta; quando piú di trecento anni appresso, dopo essere sfiorata tutta la libertá popolare romana, Livio Druso avendola per suoi ambiziosi disegni promessa a’ soci latini, e ’l senato gli resistette e (quel che fa a maraviglia al nostro proposito) essi tribuni della plebe (che da trecento [anni innanzi], per costoro, vollero la cittadinanza romana a’ soci latini comunicata) loro la contrastarono; onde, per dirla con Tacito, restarono i soci latini di tal loro desiderio «per intercessionem illusi»; il perché Druso, oppresso dalla gran mole, esso se ne morí e, come narra Floro, ne lasciò in retaggio al popolo romano la guerra sociale, che fu la piú pericolosa di quante innanzi n’aveva fatto giammai. Ma i «forti sanati» della scheda d’Ursino furono gli stranieri, i quali la storia greca in questi libri ci ha

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narrato che rovesciarono tutte le greche cittá da aristocratiche in popolari, ch’abbiam truovato essere state le plebi delle repubbliche eroiche, e tale nella storia romana abbiam letto essere stata la plebe romana.

[1447] Laonde in tal contesa non d’altro trattossi ch’i plebei, nessi del dominio bonitario de’ campi, ch’avevano avuto da’ signori per la prima legge agraria (che abbiam truovato essere stata la legge del re Servio Tullio, ch’ordinò il censo, pianta della libertá de’ signori, il qual essi plebei a’ signori pagar dovessero per gli campi da quelli ad essolor conceduti), da tal rivolta ridutti di nuovo all’ossequio della romana signoria, sciolti di tal nodo per quest’Agraria seconda, n’avessero il dominio quiritario, ma simile in effetto, non giá l’istesso nella cagione a quello che ne avevano essi signori. Che è la forza di quella voce «sirempse» (la qual è accorciata insieme e ridondante, come pruovammo nella Locuzion poetica essere stati per lo piú i parlari delle prime nazioni), che vuol dire «simile rempse», che poi si fece «reapse», che ci restò. La qual congettura ci si conferma da que’ versi di Plauto nel prologo dell’Anfitrione, dove Mercurio pubblica questa legge di Giove: che chiunque procurasse la palma ad alcuno de’ comedianti ingiustamente, tal delitto

Sirempse lege iussit esse Iupiter,
quasi magistratum sibi alterive ambiverit
.

[1448] Talché essi plebei per questa Agraria seconda restassero nessi del nodo del dominio quiritario, che dá la forma alla mancipazione solenne in quel famoso capo: «Qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto», ch’abbiamo dimostrato fonte di tutti gli atti legittimi e sí di tutto il diritto civile romano antico; del qual nodo poscia i plebei furono liberati, a capo di cento e sedici anni, dalla legge petelia. Che è la mano regia, il gius incerto e nascosto, delle quali cose si lamenta la plebe appresso Pomponio, onde tanto bramarono cotal legge. Perché i nobili, da re (qual’essi sono nelle repubbliche de’ signori), si riprendevano i campi ch’essi plebei avevano coltivati, lo gius de’ quali era ad essi plebei incerto, perché il dominio bonitario non produceva la revindicazione da ricuperarglisi; ond’essi disiderarono uno gius certo e manifesto con l’intagliarsi e restar fisso nelle Tavole; — perché la mano regia (di riferir al senato le pubbliche emergenze e di

295 ―
ministrare le leggi a chi domandava ragione) restò divisa a’ consoli con le relazioni in senato ed a’ pretori col dar le formole ne’ giudizi; e le leggi, tenute nascoste dentro l’ordine de’ nobili, nulla in que’ tempi appartenevano alla plebe, che, come straniera, non aveva niuna parte di ragione non solo pubblica ma nemmeno privata nella cittá.

[1449] Or di che confusione debbon esser coverti i pareggiatori attici, che cotanto si travagliano di pareggiare il diritto attico col romano! E quel gius del nodo, ch’essi non ardiscono dire esser venuto da Grecia in Roma, perché nella storia romana ne odono gli strepiti e i rumori innanzi di cotal legge, è l’unico affare che si diffiní in quella contesa, e se ne concepí il capo De forti sanate nexo soluto, ch’essi tutti non intesero affatto!

296 ―

[Capitolo Settimo]
De’ motivi onde tal vero restò seppellito fra tanto falso

[1450] Le cagioni onde tal vero ci venne ricoverto di tanto falso, oltre alle due generali delle due borie delle nazioni e de’ dotti, furono particolari queste seguenti:

i

[1451] L’ambasciaria, che fu un pretesto de’ padri, ch’essi non ne sapevano concepire la formola (in que’ tempi che tutte le ragioni erano dalle formole contenute, per ciò ch’appieno abbiamo dimostrato d’intorno al diritto eroico), con isperanza che frattanto da cosa nascesse cosa e, governandola il tempo, cotal ardore della plebe si raffreddasse; il quale per tre anni (ché tanto durò l’ambasciaria), col frapporvisi di piú in mezzo una pestilenza, nulla punto s’intiepidí.

ii

[1452] Le tante leggi, che contiene in tante tavole, furon appresso intagliate dalla maniera poetica di pensare de’ popoli eroici, che noi scuoprimmo nella Logica poetica, e n’arrecammo questa legge ne’ corollari: ch’ogni legge ch’appresso si scriveva (come la legge contro il lusso de’ funerali), per questa parte di libertá popolare: — ch’ella fosse scritta, — s’appiccava a’ decemviri, ch’avevano scritta la prima; siccome tante leggi, che favorivano alla popolar libertá, avevano appiccato a Servio Tullio, ch’ordinò il censo, perché incominciò con quello a sollevare la povera plebe oppressa da’ nobili.

iii

[1453] La moltitudine e diversitá dell’oppenioni dond’ella fusse venuta in Roma nacque dalla stessa maniera di pensare poetico delle prime nazioni. Ma, a rovescio di quello, ch’ovunque i greci eran iti per lo mondo, vi avevano osservati sparsi i loro cureti, i lor

297 ―
Ercoli, i lor Evandri (come si è appieno sopra pruovato), i romani, per dovunque uscirono, videro gli stessi costumi: nel Lazio, nell’Italia, nella Magna Grecia e nella Grecia oltramare, di cui le piú luminose cittá furono Sparta ed Atene, che la divisero tutta in due parti nella guerra peloponnesiaca, fatta tra loro per lo imperio del mare di Grecia. Onde Tacito disse, indovinando, il vero: che in cotal legge si era raccolto il fior fiore delle leggi di tutte le nazioni del mondo. E, finche durò la giurisprudenza antica (che fu finché Roma fu repubblica aristocratica, nella quale la giurisprudenza fu rigida, ch’aveva per obbietto la civil equitá), la legge si disse venuta da Sparta, che fu repubblica aristocratica; ma, invigorendo poi la giurisprudenza nuova (ch’è benigna ed ha per obbietto l’equitá naturale), indi in poi si disse venuta da Atene, che fu repubblica popolare, perché tal oppenione nacque ne’ tempi della romana libertá popolare, e sotto gl’imperadori ristò.

iv

[1454] Esse tavole ci vennero dodici noverate dalla maniera di noverare delle prime genti, che con tal novero certo significavano ogni moltitudine: come i latini, avendo piú spiegate le menti, il fecero poi col numero «seicento»; e noi, che l’abbiamo spiegatissima, il facciamo col numero prima di cento, poi di mille, finalmente di cento e mille, per significar infiniti. Onde furono dodici gli dèi delle genti maggiori, dodici le fatighe d’Ercole, dodici i villaggi de’ quali Teseo compose Atene, i quattro tempi dell’anno divisi in dodici mesi, l’antichissime leghe delle dodici cittá dell’Ionia, di dodici cittá di Toscana, dodici le parti dell’asse. Cosí «dodici» furon dette le Tavole.

299 ―

II [CMA3] Ragionamento secondo

d’intorno alla legge regia di Triboniano
[Capitolo Primo]
[D’un’eterna natural legge regia, per la quale le nazioni
vanno a riposare sotto le monarchie]

[1455] Ma non altronde si può con maggior evidenza intendere questa gran veritá: ch’ove si parla con falsi princípi, perché dal falso non può nascere che piú enorme falso, non vi ha cosa tanto sconcia, ridevole, mostruosa, la qual non si dica seriosamente e si riceva con gravitá. Tutti gl’interpetri eruditi delle leggi romane, senza punto riflettere alla Storia augusta e senza combinarla con la favola della legge regia, da Triboniano detta una volta apertamente nell’Istituta, un’altra volta nascosta sotto la maschera di Ulpiano nelli Digesti (il qual grecuzzo fu piú ignorante delle cose romane che non fu Pietro, Martino ed altri primi barbari glossatori), hanno ricevuto con tanta sicurezza con l’odiosissima nominazione di «regia» (errore affatto somigliante a quell’altro della legge detta «tribunizia» da Pomponio, con la quale Giunio Bruto dichiarò gli re eternalmente discacciati da Roma, il quale errore abbiamo noi sopra giá confutato); quando apertamente Cornelio Tacito, parlando di Augusto, dice da lui «non regno neque dictatura, sed principis nomine rempublicam constitutam>», ben avvisato il saggio principe che la dittatura fu infausta a Cesare e che ’l nome di «re» era tanto da’ romani abborrito, che, mentre, per concertato tra loro,

300 ―
Marc’Antonio vuol coronar Cesare nella ringhiera onde questi ragionava al popolo, per fare sperienza come il ricevesse il popolo romano, nella ragunanza, nella quale, per Triboniano, egli comandò la legge regia, se n’udi tanto fremito, che Cesare, temendo, ne fece accortamente un disdegnoso rifiuto. Perché, fin da’ tempi de’ tiranni Tarquini cacciati da Roma, il nome di «re» e la corona reale tanto pubblicamente furono condennati, che per la sola certezza della religione «re delle cose sagre» ne restò detto il capo de’ feciali, ma per altro tenuto a vilissimo conto; e i sacerdoti, i quali appo tutte le nazioni antiche andarono coronati, indi in poi usarono cingersi il capo d’un sottil filo di lana, dal quale vogliono i latini etimologi essere poi stati detti «flamines», quasi «filamines».

[1456] E non per altro lo stesso politico narra l’ultime cose d’Augusto che per cominciare gli Annali dallo stato monarchico, il quale si stabilí in Roma co’ trent’anni di pace che fece Augusto godere a tutto il mondo romano; per dare gli avvisi necessari a’ principi come nelle repubbliche libere, tutte guaste e corrotte dalle civili guerre, possano stabilirsi monarchi: tra’ quali avvisi importantissimo è quello che serbino «eadem magistratuum vocabula», perch’è natura del volgo di risentirsi al nuovo suono delle parole e di nulla penetrar nelle cose. Perlocché Augusto non si prese altro titolo che di «tribunizia potestá», la quale dasse ad intendere che fusse una possanza di fatto, con cui egli era protettore della romana libertá, per non ingelosir il popolo ch’egli gli attentasse nulla della ragion dell’imperio, siccome i tribuni della plebe non ebber alcun imperio giammai, conforme si è nell’opera dimostrato. Ed esso Augusto ed i principi romani per gli primi tempi con la «tribunizia potestá» numeravano gli anni del principato; e, lunga etá appresso, come Tacito il narra espressamente di Otone, non di altro erano soleciti gl’imperadori che dal senato fusse loro cotal titolo decretato, per legittimarsi giusti successori dell’imperio. Anzi Tiberio, avendogli il senato offerto il titolo di «dominus», perché gli donava ciò che non era suo e ’l dono era invidioso al popolo, l’accorto principe, perché questi non se n’offendesse, faccendo sembiante di modesto, nol volle ricevere, dicendo ch’esso era principe di cittadini, non signore di schiavi. E la natura istessa delle cose civili diede agl’imperadori un titolo cosí fatto di «protettori della popolare libertá de’ romani». Imperciocché, la civil libertá conservandosi con le leggi, per quel detto di Cicerone veramente

301 ―
d’oro: «ideo legum servi sumus, ut liberi esse possimus» — la qual libertá il popolo romano aveva perduto, perché aveva fatto le leggi servir all’armi, con le quali s’andava a perdere nelle guerre civili, — essi romani principi, da Augusto incominciando, si posero in mano la forza dell’armi per far goder a’ romani l’ugualitá delle leggi (ch’è una delle massime propietá della monarchia: che sieno i potenti a’ deboli con le leggi uguagliati e ’l solo monarca vi sia in civil natura distinto); con la qual ugualitá quelli romani, ch’in pochi altri anni si sarebbero tutti spenti con altre guerre civili, si salvarono e vissero tanti secoli appresso in luminosissima nazione. Ch’è l’eterna natural legge regia ch’abbiamo ragionata nel quarto libro, con cui le nazioni dentro essoloro medesime vanno a fondarsi le monarchie.

[1457] Perché ’l marmo capitolino, ch’arrecano per pruovare tal favola altro non contiene ch’una formola di giuramento di fedeltá che ’l senato dava agl’imperadori (e quindi a poco vedremo con quanta libertá se ’l facesse). Se non pure, prima il senato portava ne’ rostri le formole delle leggi che ’l popolo voleva comandare: in questa il popolo portò la formola nella curia, acciocché la comandasse il senato. E quindi si veda che assurdo: che, mentre gli eruditi si sforzano col marmo capitolino legittimare la monarchia, fanno la romana repubblica da libera popolare divenir aristocratica!

[1458] Ma essi, da un certo senso occulto rimorsi, non soddisfaccendosi del marmo capitolino, si disperano che non truovano una qualche medaglia che gli accertasse del tempo di cotal legge. Poiché altri, niegandolo di quelli d’Augusto, la vogliono comandata a’ tempi di Tiberio, sotto di cui gli piú nobili romani vilissimamente inchinavano l’atroce fasto di un gentilominuzzo di Volsena, Elio Seiano; altri la richiamano a’ tempi di Claudio, sotto il quale i signori delle piú splendide case romane si recavano a somma fortuna di far la corte a tre vilissimi schiavi: Narciso, Pallante e Licino, affranchiti da quello stolido imperadore; altri la vogliono comandata ne’ tempi dopo Nerone, sotto il quale il senato, non che caduto in vilissimi ossequi (per gli quali assai minori, molto innanzi, lo stesso Tiberio, il qual odiava a morte la veritá, con forte disdegno, in uscire dal senato una volta, disse ad alta voce: — «O homines ad servitutem paratos!» — volendo dire che erano gli schiavi giá per natura che dice Aristotile, i quali naturalmente non possono viver liberi), ma precipitato

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nel fondo delle piú scellerate adulazioni, ch’i rendimenti di grazie, le quali prima soleva determinare agli dèi per grandi benefizi da quelli fatti al popolo romano, sotto quel mostro de’ principi le decretavano per le piú orrende scelleratezze da lui commesse, come, per cagion d’esemplo, d’aver fatto uccider empiamente la sua madre Agrippina. Di questa libertá era signor il senato, la quale col marmo capitolino trasferí negl’imperadori!

[1459] E, dopoché l’imperio romano, al dire di Galba appo Tacito, era stato come retaggio della casa de’ Cesari per cinque imperadori, e ’l popolo aveva pazientemente sopportato le funeste malincolie di Tiberio, i rovinosi furori di Caligola, le perniziose scempiezze di Claudio e le in sommo grado vergognose ed immani dissolutezze di Domizio Nerone; dopo le tre sanguinose tempeste per le quali aveva naufragato in un mare di sangue civile nelle guerre di Galba, Otone e Vitellio, e che non per altro aveva ucciso Galba per Otone che perché questi somigliava Nerone e nel sembiante e ne’ costumi dissolutissimi; — come stata fusse una tradizione d’un podere, vogliono con la formola di cotal legge cautelato Vespasiano, che con la sua virtú e sapienza fermò il romano imperio pericolante, tanto che per augurio di felicitá gl’imperadori appresso presero il di lui cognome di Flavio; — dopo tutto ciò, diciamo, il vollero cautelato con la formola di cotal legge di avergli trasferito il romano imperio, del qual esso co’ costumi e co’ fatti (co’ quali si sperimenta e da’ quali si estima il diritto natural delle genti) fin da’ tempi d’Augusto se n’era di giá spogliato. Il quale Tacito, sappientissimo del gius pubblico (la qual scienza bisognava per essere, qual fu, gran politico) legittima monarca con la natural legge regia che nel quarto libro abbiamo noi ragionata, conceputa in quel motto: «qui cuncta discordiis civilibus fessa nomine principis (non giá con la formola cautelata di Triboniano) sub imperium accepit>». Che gliel’aveva offerto e dato essa repubblica per truovar rimedio a’ suoi propi gravissimi mali, da’ quali era guasta e corrotta in tutte le parti sue; che pur Tacito dice: «non aliud discordantis patriae remedium quam ut ab uno regeretur». E cosí infatti col senso comune del gener umano, il qual è ’l giusto estimatore del diritto natural delle genti, tutte le nazioni convengono Augusto aver fondato la monarchia de’ romani.

303 ―

[Capitolo Secondo]
Corollari

[1460] Da questo Ragionamento escon i seguenti corollari, i quali contengono veritá le piú importanti di tutte l’altre, che si son intese in quest’opera.

i

[1461] Confutato il grande comun errore de’ dottori, i quali ragionano del gius pubblico con le regole del gius privato.

ii

[1462] Che l’imperio delle leggi va di séguito all’imperio dell’armi, non, come volgarmente si è oppinato, al rovescio.

iii

[1463] Che perciò con un comun senso umano tutte le nazioni conferiscono maggior onori alla milizia armata ch’alla milizia palatina.

iv

[1464] Che ’l gius civile si celebra tra’ cittadini, perché sono soggetti ad un sommo imperio d’armi comune, e perciò non resta loro altro che contendere di ragione.

v

[1465] Che ’l diritto natural delle genti è un diritto della forza pubblica, il quale corre tra le civili potestá, le quali non hanno un diritto civile comune.

304 ―

vi

[1466] Ch’i trattati de’ principi tra essoloro sono materia del diritto natural delle genti, perché sono sostenuti dalla forza ch’essi principi esercitano tra loro, ed altre potenze non se ne risentono; e molto piú se vi convengon anch’esse, e piú di tutto se esse li garantiscono.

vii

[1467] Che i regni e gl’imperi non, come le private servitú, s’introducono con la pazienza de’ sudditi, ma che essi sudditi, co’ loro costumi (i quali sono segni della nostra volontá piú deliberati e gravi che non sono le parole e le loro formole, perché sono tanto volontari che niuna cosa piace piú che celebrare i propi costumi), essi vi convengono e gli stabiliscono; e quello: «pauci bona libertatis in cassum disserere» sono velleitá, perché la volontá efficace è quella con la quale, per celebrar i loro costumi, vivono soggetti al monarca.

viii

[1468] Che non si può far forza ad un intiero popolo libero (il quale non è intiero se non sono tutti o la maggior parte di tutti), il qual ha quella magnanima disgiontiva spiegata con quella sublime espressione: «aut vivere aut occumbere liberos»; come il mostrano quattromila numantini, non piú, d’una picciola cittá smurata, i quali disfecero piú romani eserciti, e rendettero il loro nome sí spaventoso a’ romani ch’in udir «numantino» fuggivano; talché fu di bisogno d’uno Scipione affricano (ch’aveva in Cartagine vinta stabilito a Roma l’imperio del mondo) per vincerla, e pure non ne riportò altro in trionfo ch’un mucchio di ceneri inzuppato del sangue di quelli eroi.

ix

[1469] Che l’eroismo de’ primi padri sulle famiglie de’ famoli nello stato di natura e poi de’ nobili sulle plebi de’ primi popoli nello stato delle cittá (che perciò nacquero aristocratiche), egli, nelle

305 ―
repubbliche popolari conservato col comandare le buone leggi (ch’Aristotile ci disse essere volontá di eroi scevere di passioni), dissipato poi e disperso con le guerre civili, si riunisce nella persona de’ principi ch’indi provengono, i quali perciò son i soli distinti in civil natura, che con le leggi tengono tutti i soggetti uguagliati.

x

[1470] Esser falso che nella setta de’ tempi umani il diritto naturale tenga in dovere le nazioni col pudore; ma che tal setta solamente gliele fa intendere per esserne obbligate, perché, se gli uomini non l’adempiono, si costringono con le leggi giudiziarie. Ma i sovrani principi sono soli quelli che, non potendo esser costretti dentro da niuna umana forza, sono menati dal lor pudore ad osservare le leggi, perché essi soli sono tenuti dal diritto natural delle genti, fuori con la forza dell’armi, e dentro col pudor naturale. Lo che Tacito, sappientissimo di cotal diritto, ben avvertí ove, trattandosi in senato di moderare con le leggi suntuarie il lusso profusissimo delle cene, Tiberio rispose che non abbisognavano, con quel motto pieno d’una elegantissima sapienza civile: «Pauperes necessitas, divites satietas, nos pudor in melius vertet». Che è la profonda e finor nascosta ragione della legge «Digna vox».

xi

[1471] Perciò esser falso quello:

Regis ad exemplum totus componitur orbis,

ma esser vero tutto il contrario; perché i sovrani principi, che per lo corollario precedente sono per natura civile gentilissimi, si vergognano di vivere diversamente dalla maniera con la quale vivon i popoli: onde in un luogo di questi libri dicemmo che i pubblici e veri (e, perché pubblici, veri) maestri de’ principi son essi popoli. Nerone ed altri cattivi imperadori vennero dissolutissimi e fierissimi, perché nacquero in tempi ch’eran all’eccesso dissoluti e fieri i romani, i quali gli agi, le dilicatezze, i lussi avevano renduto vilissimi; e quindi, codardi, con volti finti di traditori ed assassini, simulavano l’amicizie per farsi la fortuna sopra le teste mozze e le case rovinate de’ lor amici. I quali scellerati costumi, perché uscivano da nature affatto guaste e corrotte, le

306 ―
quali co’ pravi esempli si formavano loro dalla fanciullezza e si fermavano con l’etá, i principi buoni con gli esempli buoni loro non emmendavano, ma, quasi corrente di furioso fiume, riprimevano a gran pena per lo lor tempo. Lo che è tanto vero che, se continovarono piú di questi, quelli piú violentemente proruppero, onde uscirono principi piú cattivi: come, dopo i buoni Vespasiano e Tito, videsi rinnato Nerone in Domiziano; da’ buoni Nerva, Traiano, Antonino Pio, Marc’Aurelio filosofo venne il brutto di Commodo; tramò alla vita del bellicoso Pertinace un «sacerdote della santa giustizia» (per dirlo con la frase di Ulpiano), qual egli fu il giureconsulto Didio Giuliano, il quale con immense ricchezze porta a vilissimo mercato e si compera il romano imperio; al conquistatore Severo affricano succede Caracalla, fratricida del fratello Geta; e finalmente venne Elagabalo dall’effeminata mollissima Siria, che fu l’orrore del gener umano.

xii

[1472] Che la fortuna degli auspíci, i quali sono tanto propi de’ principi, che, per lo diritto natural delle genti, come sta in quest’opera pienamente pruovato, non posson essi trasferirgli nella persona de’ lor medesimi capitani generali (i quali perciò si dicono guerreggiare con la loro condotta e comando, ma vincere con la fortuna de’ loro sovrani, onde ad essi naturalmente ritorna la gloria delle conquiste); — tal fortuna degli auspíci, diciamo, legittima le guerre ingiuste e i principati sopra i popoli liberi, ch’è ’l principio della giustizia esterna delle guerre e de’ regni che dice Grozio. La qual Tacito, sappientissimo di tal diritto, pone in bocca d’Otone, c’ha volte l’armi de’ soldati pretoriani contro il suo e loro imperadore Galba, e ’l suo infame attentato pubblicamente nell’adunanza de’ soldati medesimi chiama «consilium quod non potest laudare nisi peractum», cioè se la provvedenza divina nol prospera con l’evento; onde Niccolò Macchiavelli, nelle Lezioni di Livio, ove tratta delle congiure, dice che le piú sono state infelici, pochissime prosperate, niuna onesta.

Nunc dimittis servum tuum, Domine

307 ―

III [CMA4] TAVOLA D’INDICI

[1473] A quest’opera potrebbero seguire molti indici. De’ quali per dar un saggio, prendiamo qui Giove, e facciam vedere com’egli dovrebbe entrare per tutti e allogarsi in ciascuno, come in suo luogo comune, delle materie che si trattan da questa Scienza.

Indice de’ princípi

[1474] Giove primo principio dell’idolatria e della divinazione, da’ quali primi princípi si ripete qui la Sapienza poetica.

Indice dell’origini

[1475] Per «origini» noi intendiamo i primi tempi ne’ quali nacquero le cose umane, come Giove nacque nelle fantasie de’ primi popoli poetici la prima volta che fulminò il cielo dopo il diluvio.

Indice delle nature

[1476] Diciamo «nature» le propie guise con le quali nacquero l’umane cose; come la propia guisa, con la quale nacque Giove, fu ch’i primi uomini, nell’error perduti, mutoli e fieri, dalla loro natura appresero il cielo che fulminava esser un gran corpo animato intelligente, che co’ fulmini e tuoni comandasse e volesse dir loro una qualche cosa ch’essi dovesser fare.

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Indice dell’eterne propietá
le quali escono da sí fatte nature

[1477] La natura di Giove porta seco quest’eterna propietá: ch’ove tra’ popoli infieriti non hanno piú luogo le leggi, e ’n conseguenza le lingue, e regna solamente la forza e le mani, l’unico mezzo di ridurgli all’umanitá è la religione.

[1478] Questi, finor noverati, sarebbero gl’indici filosofici delle materie che questa Scienza medita d’intorno al corso delle nazioni ed al ricorso delle cose umane. I seguenti indici sarebber i filologici delle materie con le quali questa Scienza ritruova in fatti ciò c’ha meditato in idea d’intorno alla comune natura delle nazioni.

Indice delle mitologie istoriche

[1479] La favola di Giove fulminante è istoria che narra l’umanitá aver incominciato dal timore d’una divinitá.

Indice delle allegorie univoche

[1480] Giove fu un genere fantastico, a cui i primi popoli poetici riducevano tutte le cose degli auspíci divini.

Indice delle frasi poetiche
che spiegavano i concetti con veritá

[1481] Gli eroi, per esemplo, leggevano le leggi nel petto di Giove, perché osservavan i fulmini nel cospetto del cielo, i quali negli auspíci davan ad essoloro le leggi.

Indice dell’etimologie che portano istorie di cose

[1482] Giove fu detto da’ latini «Ious» dal fragore del tuono; da’ greci Ζεύς, dal fischio del fulmine; e dovette dirsi «Ur» dal suono che dá ’l fuoco bruciando; ond’è Οὐρανός detto il cielo a’ greci e Urania l’astrologia, «uro» a’ latini «bruciare», Urim agli egizi la potenza del fuoco, e «schur» «contemplare» agli orientali; dalla qual origine al Bocarto vien detto «Zoroaster», «contemplatore degli astri», che fu ’l primo sappiente della gentilitá.

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Indice delle tradizioni volgari vagliate dal falso

[1483] Ci pervennero tanti Giovi tralle nazioni gentili, perché appo tutte nacquero da uno stesso principio cosí l’idolatria come la divinazione.

Indice dell’identitadi in sostanza
e delle modificazioni diverse

[1484] Giove a’ caldei fu ’l cielo, ecc. (e continua come ai capovv. 474‐481, fino alle parole: «onde veda il Marshamo», ecc., riferite tra le varianti, capov. 1241).

[1485] Quest’indice comporrebbe i quattro primi filosofici, che dánno l’identitadi in sostanza, e i restanti cinque filologici, che dánno le diverse modificazioni; da’ quali tutti si forma il Dizionario mentale, con cui parla la storia ideal eterna di tutte le nazioni.

[1486] I qual’indici tutti farebbono una mole molto maggiore di questo giusto volume. Ma noi non abbiamo avuto né la pazienza né ’l tempo né la voglia di fargli, perché siam certi che, a coloro che avranno studiato bene questi libri, gl’indici non abbisognano, e al contrario i medesimi non giovano punto a coloro i quali vorranno ragionare di questa Scienza per indici.

311 ―

IV DEDICHE


i
Della «Scienza nuova seconda»
a
CLEMENTE XII
Pontefice ottimo massimo
perché
la provvedenza infinita
con uno stesso semplicissimo
suo eterno consiglio
le cose massime
egualmente e le menome
sempre a bene ordinando
dispose
che
mentre
per lo splendore
della Santa Sede
e per la felicitá
del mondo catolico
al sommo ponteficato
la beatitudine sua conduceva
nello stesso tempo

312 ―

questi princípi
della Scienza nuova
d’intorno
alla comune natura
delle nazioni
alla Santitá sua
essendo amplissimo cardinale
dedicati
per varie e diverse
che sembravano traversie
ed eran in fatti opportunitá
con piú propia forma
si concepirono
e di maggiori discoverte
s’accrebbero
acciocché
migliorati ed accresciuti
con alquanto piú di degnitá
alla sagra ombra
della sua veneranda
protezione
da se medesimi ritornassero
Giambattista Vico
a’ suoi santissimi piedi
che bacia umilmente
prostrato
gli consagra

313 ―

II
Della «Scienza nuova terza»
All’Eminentissimo Principe
TROIANO ACQUAVIVA
amplissimo cardinale
e ministro delle maestá di Filippo V re di Spagna,
e di Carlo Borbone re delle due Sicilie ecc.
presso la Santa Sede.

[1488] Il costume usato de’ tempi nostri di dedicare l’opere di lettere ad uomini d’alto stato, se egli dee rispondere a quel degli antichi, i quali innalzavano le statue ad eroi di fama cotanto stabile e ferma, che davan vita a essi bronzi, i quali avessero avuto la sorte, nelle di loro effigie gittati, di rilevarsi, dovendosi i libri indrizzare a’ principi di luminosissima gloria, che con lo splendore de’ lor nomi immortali donino ad essi l’eternitá, all’ampio sfolgorantissimo lume vostro, eminentissimo principe, il quale ha rivolti a sé gli occhi della venerazione di Europa tutta, quanto ora mi si reca facile d’accertare l’elezione di porre all’ombra del vostro alto e potente patrocinio questa mia debol fatiga per la proprietá della materia, altrettanto me ne sgomenta il poco pregio dell’artefice nel lavoro, a petto del vostro merito incomparabile, degno di opere non solo per argomento sublimi e grandi, ma anche per ingegno ed arte al piú alto punto della perfezion ben intese, e finalmente per dottrina ed erudizione consumatissime. Tutti composti in un rispettosissimo ossequio, s’inchinano al piú basso orlo della vostra sacra porpora i Princípi del dritto natural delle nazioni, delle cui leggi soli s’intendono e sono sapienti i popoli liberi, le regnanti nobiltá e i monarchi; ed eglino vi si presentano casti e puri di molti e gravi errori, de’ quali erano innanzi immondi, perché finora del dritto universale de’ popoli han solamente ragionato uomini, per altro dottissimi, tutti oltramontani, fuori del grembo della cattolica religione.

314 ―

[1489] Di un tal trattato non sembra potersi immaginar cosa piú degna della vostra generosa protezione, poiché di un sommo senato, il quale, con assai piú di veritá che quelli de’ tempi eroici, può e dee dirsi di sapienti, di sacerdoti e di re, Vostra Eminenza, per chiarezza d’antico sangue, per ampiezza di patrimonio, per isplendore di cariche, per dottrina di conoscenze, per sapienza di consigli, per fortezza di operazioni, da tutto il mondo migliore delle nazioni umane piú colte, assai piú che del senato romano un tempo, nella maggior grandezza di Roma, Scipione Nasica, siete stimata l’anima che lo avviva con l’autoritá, e ’l cuore che lo avvalora col zelo. A cotesto ordine amplissimo dell’universal repubblica cristiana vi menò la provvidenza per mano della vostra fortuna e virtú, facendovi quella nascere in una cittá d’Italia rinomatissima, donde trasse l’antica nobilissima origine l’Eminenza Vostra da antichissimo ceppo, ornato sempremai di sacre porpore, onusto di amplissime dignitá e di sommi magistrati in casa, e fuori d’alti comandi d’armi e di ambascerie presso le piú luminose potenze d’Europa; di cui facilmente mi dispenso di tesserne i lunghissimi cataloghi, perché l’istorie e gli annali hanno renduto pienamente palesi al mondo le glorie del vostro chiarissimo lignaggio, come ancora perché i brievi ed angusti recinti d’una lettera non mi permettono di poterle comodamente noverare.

[1490] Tanti e sí fatti onori, innaffiati da opulentissime famigliari fortune, derivarono col nobil sangue nelle vostre vene quella generositá, la qual virtú quanto ella è propria de’ grandi principi, altrettanto tutti l’ammirano chiaramente risplendere nell’animo vostro; e l’innata grandezza del vostro casato, ingentilita dagli studi della sapienza, e ’l vigore del vostro nobil sangue, lusingato dall’opulenza, furono i modelli, sopra i quali per disegno della vostra propria virtú formossi nell’Eminenza Vostra cotesta signorevole gravitá, la quale, accompagnata dalla soavitá del costume, da una natural piacevolezza, da quel magnanimo e generoso che v’ispira l’istessa vostra nobiltá e grandezza, ha saputo conciliarsi la riverenza delle nazioni, il concetto de’ sovrani e ’l credito de’ pontefici massimi. Per cotesti cosí rari e sublimi pregi, i quali nel piú alto grado risplendono nell’Eminenza Vostra, e tutti a gara concorrono a formare in voi il carattere d’uno ottimo e grandissimo principe, tutto il mondo v’ammira, con tanta gloria vostra, assiso nel piú sublime periodo dell’umana grandezza in rappresentare le reali veci e sostenere in cotesta corte ragguardevolissima

315 ―
nell’orbe cristiano i sovrani diritti di due somme civili potestá del mondo legislatrici, delle Maestá di Filippo, monarca delle Spagne, e di Carlo Borbone, re delle Due Sicilie, nostro augustissimo sovrano; di modo che forse non può distinguersi se sia maggiore e piú luminoso lo splendore che voi colla vostra virtú e grandezza avete saputo a’ vostri chiarissimi maggiori restituire di quella gloria che essi per moltissimi secoli hanno nell’Eminenza Vostra tramandata.

[1491] Laonde questi princípi di dritto che spiega le due gran comparse, una la piú spaventosa, l’altra la piú lusinghevole ai popoli nella ragion della guerra e della pace, ora la prima volta trattati da ingegno italiano e in grado dell’Italia, ingegnosa sua madre e nudrice, scritti in italiana favella e con dottrina tutta conforme alla religione romana, debbon correre da se stessi a tributar il loro ossequio al gloriosissimo nome vostro, eminentissimo principe, che siete il sommo e sovrano pregio di questo gran consesso de’ padri porporati, per la cui sapienza e virtú l’Italia è con sommo rispetto considerata dalle altre nazioni d’Europa, e dal cui corpo uscirono i Ximenes, i quali alla Spagna, i Riscegliú e i Mazzarini, i quali alla Francia diedero forme di governo con sí sapienti arti di pace, che entrambe sursero in due potentissime monarchie: quella che fu uguagliata alla romana antica, questa or giudicata uguale alla persiana presente. E, quantunque l’opera è rattenuta dalla riverenza dell’autore, cui soltanto è lecito in lontananza d’ossequiar l’Eminenza Vostra, assisa nel piú alto luogo degli umani pensieri, però l’incoraggia la vostra alta generositá, propria di saggio principe della Chiesa, che, ben intendendo esser arcano di principato di sapienza cristiana, qual è egli l’ecclesiastico, il favorire e promuovere tutti gl’ingegni che si studiano alla di lui gloria e fermezza, tiene la sua gran casa sempre aperta ad uomini chiari per valor di lettere, che riceve con umanitá singolare e protegge con incredibil fortezza e promuove con alta generositá.

[1492] Nella qual or io affidato, umilissimamente la presento a Vostra Eminenza e, profondamente inchinandola, mi dichiaro e rassegno di Vostra Eminenza

Napoli, 10 di gennaio 1744.

umilissimo, divotissimo e obbligatissimo servidore
Giambattista Vico.